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di Rachele Fattore
Illustrazione di Anastasia Coppola


Edito da Iperborea, “La saggezza del mare” è quasi un diario di bordo interiore tenuto dallo scrittore svedese in un periodo passato a navigare senza soste.


Per chi soffre il mal di mare

Pare che i portolani siano carte per sognatori.
Per chi soffrisse il mal di mare, seguire le tappe del Rustica potrebbe essere un buon modo per levare gli ormeggi. Basta scegliere un porto impostare una velocità di navigazione a nove nodi e abbandonarsi alle pagine.

Per chi non teme le tempeste ma sa fare i conti con la propria esperienza.

Motivazione della sentenza: Il Signor Larsson non vuole che altri decidano cosa deve fare.

Così, all’età di diciott’anni, si manifesta in maniera plateale il rifiuto per gli obblighi e le convenzioni che porterà l’autore lontano dagli schemi di una vita tradizionale. Un biglietto di sola andata per Parigi, un treno e una vendemmia per pagarsi una chambre de bonne. Inizia la ricerca di libertà, il vagabondare per il mondo “senza fissa dimora”, l’affidarsi agli elementi come termometro del proprio benessere. Larsson racconta in prima persona traversate ed ormeggi nel mare del Nord. Sono le riflessioni e le tappe del viaggio interiore ad ammaliare come sirene.

Tra mare, terra, whisky e caffè

Questo romanzo non è solo mare, è anche terra ben salda.

Terra, mare e quella necessità di partire. Ma anche di avere un porto e un altro ancora unite alla malinconia degli incontri fugaci e all’inquietudine sottile e costante propria dell’essere umano. Un romanzo fatto di incontri e di osservazioni: pescatori bloccati in porto da onde troppo alte, giovani fuggiti alla prigionia delle petroliere che si improvvisano navigatori e suonano la chitarra per le strade di Lisbona e colleghi di navigazione. 

Si entra nei pensieri del narratore come se si fosse seduti con lui in pozzetto a discorrere tra una tazza di caffè e un bicchiere di whisky, carezzando la brezza leggera e discontinua.

Quando non c’è nessuno che ti aspetta dall’altra parte dell’orizzonte e i piani possono essere cambiati in ragione delle condizioni del mare e dei propri desideri, allora anche una notte in più in un porto rimane la libertà di poter partire quando si decide di farlo.

Fortuna, insperate opportunità e provvidenza: servono tutti questi ingredienti per riuscire a tornare in porto quando l’esperienza non basta, ricordando che in mare si possono dimenticare le proprie ansie e quelle del mondo, ma che questo non aiuta a risolverle.

Nessun romanticismo: il mare non perdona

Nelle notti in cui la stanchezza si fa sfiancante si deve combattere con la propria coscienza per uscirne vivi. Navigare non è cosa per tutti: ci sono acque piene di correnti dove bussola e solcometro non servono; c’è quello che le carte nautiche non segnano come navi container e piattaforme di trivellazione che si materializzano in visioni notturne prive di profondità; traversate più dense di masochismo che di piacere. E quel pericolo che paradossalmente aumenta con la vicinanza della terraferma. Bisogna dunque affrontare il viaggio con profonda umiltà, conoscendo e accettando i propri limiti e godendo di quello che, scampata la morte, si impara di sé stessi.

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Alla fermata del tram, un gruppo di adolescenti e testimoni di Cristo.

Gli adolescenti sembrano individui senz’anima, ingoiati dallo sforzo disumano di crearsi una propria identità all’interno di un mondo ostile. Iniziano il loro personale “viaggio dell’eroe” alla ricerca di sé: coraggiosi o vili, buoni o cattivi, intelligenti o stupidi? Come si riveleranno alla fine?
Per ora sono solo un insieme indistinto di modi di dire e di fare, di atteggiamenti.
Proteggono una personalità incerta con l’adesione ad un gruppo.

Il problema è che, l’adesione ad un “noi”, per superare l’impotenza di un “io”, è caratteristica anche di questi adulti predicatori del Signore.

Metto le cuffie, per rendere esplicito il mio non voler interagire.

Ah, i gruppi, rifugio delle identità fragili.
“Non sai come vivere la tua vita? Unisciti a noi!” “Ti piace usare la Forza per scopi personali ma non ti senti accettato dai Jedi? Diventa Sith!”.
I “noi qualcosa” dominano le nostre vite, da WA a Telegram esiste un gruppo per chiunque e per qualsiasi cosa. “Noi LGBTQIPlus”, “Noi vegan”, “Noi italiani”, “Noi della domenica in bici”…
Noi chi?!

Quando la discussione prevede un “noi” contro “voi” è guerra.
L’empatia rallenta il desiderio di fare del male al prossimo, ma se il prossimo è un gruppo beh allora non sto attaccando una persona, ma un concetto.

Arrivano altri personaggi cantando inni di calcio.

Ultras, diversi per età, professione, ceto sociale e culturale, ma uniti nell’adesione incondizionata e irrazionale ad una squadra di proprietà privata in cui giocano uomini, di diversi Paesi, per meri motivi economici. Non ho mai capito questa fedeltà e fede cieca in qualcosa di assolutamente astratto, che siano i romanisti, i cattolici o i fan di Star Wars. Per non parlare di quelli la cui vita è così vuota che solo la fedeltà ad un brand riesce a giustificarla: uso solo WA, ma che faccio, non mi compro l’intero set Apple? Altrimenti come dimostrerei la mia fedeltà?!

Perché il problema dei gruppi è che devi sempre dimostrare di esser degno di appartenervi.
Si pensi al maschio cis etero bianco: passa una ragazza e parte lo schema comportamentale atto a dimostrare che appartiene ad una casta privilegiata, riverita e forte.
Le regole del gruppo sono chiare: manifesta sempre la tua eterosessualità e mascolinità; considera le femmine oggetti; la femmina è debole, zoccola o madre amorevole. Non importa la reazione di lei alla molestia, quello che conta è l’aver dimostrato a se stessi, e al gruppo, di essere un vero maschio.

Mi alzo dalla panchina in un moto di ingiustificato ottimismo.

Per quanto dimostri fedeltà al gruppo ti verrà sempre richiesta una nuova prova perché chiunque è pronto ad accusarti di eresia o apatia.
Il “gruppo” non è reale.
Il gruppo è un’invenzione delle personalità fragili e ognuno ci riversa dentro quello di cui ha bisogno, ogni individuo è fragile in modo diverso.
Se due individualità emergono con una propria personalità, allora ci sono solo due possibilità: o sei Stalin o sei quello con la picconata in testa.
Se sei il primo, però, diventi il gruppo e passi dall’essere una persona all’essere un personaggio, costretto a portare avanti la recita fino alle estreme conseguenze, a volte fin oltre la morte.
“Gesù, salvati dalla croce”, “No raga, ormai la cosa c’è sfuggita di mano, me tocca farme ammzzà, ma ricordate: chi nun me segue è n’infame!”

Mi guardo intorno aspettando che arrivi il tram…o lo zio di Christian de Sica col piccone.


Ti sei perso le altre attese del Tram? Tranquillo, puoi riprendere ad aspettarlo qui
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di Mario Greco

Illustrazione di Dalila Giuliano

Mio padre fa il camionista.
Adesso che è finita la scuola, mi porta sempre con sé nei suoi lunghi viaggi.
Ultimamente, sta trasportando finocchi. Quando lo dico, i miei amici si mettono a ridere: «Lo sappiamo, lo sappiamo benissimo che trasporta finocchi» dicono.
Mi prendono in giro. Mi prendono in giro anche quando dico che da grande vorrei fare l’astronomo.
Tra qualche giorno compirò gli anni: «C’è un regalo che desideri?» ha chiesto mio padre «Vorrei un telescopio» ho risposto io.

Lui mi ha guardato, mi ha dato un buffetto sulla guancia e si è messo a ridere. 
Ridono tutti, anche quando non c’è proprio nessun motivo per farlo.
Mio padre e mia madre si sono separati, già da un anno ormai.
Io vivo con mia madre, ma per tutto questo mese starò con mio padre, a casa dei nonni.

Oggi siamo diretti in un grosso mercato ortofrutticolo di Roma: «Non di Roma centro, naturalmente» precisa mio padre.
«Che peccato!» dico io. Non ho mai visto Roma e con questo Tir non possiamo certo andarci.
Oltre all’astronomia, mi piace la storia.
So a memoria tutti e sette i re di Roma. Mio padre si ricorda soltanto di Nerone, e quando gli faccio notare che Nerone non era un re, ma un imperatore, lui fa: «E qual è la differenza?»

Mi piace viaggiare, sto sempre attento alla strada, al paesaggio.
I campi, i rotoli di fieno, le mucche al pascolo, gli alberi, i paesini appollaiati sulle colline, i ruderi di qualche castello. C’è molto traffico, oggi. Gente che torna a casa per le feste e camionisti, tanti.
L’altra sera mentre sostavamo nel parcheggio di un autogrill parlava di donne con altri camionisti.
Di prostitute.
Il nostro camion è addobbato come un albero di Natale: luci colorate dappertutto.
Sul cruscotto c’è una di quelle calamite con l’immagine di San Cristoforo e la scritta “Ovunque proteggimi”. Mio padre vuole che parli, così non gli viene sonno.
Io oltre a parlargli della storia di Roma, gli parlo dei pianeti e delle stelle.
Quando è buio e siamo fermi in qualche piazzola cerco di fargli vedere il Grande Carro, la Stella Polare, Cassiopea, Arturo…
Gli dico che sicuramente ci sono altri mondi lassù, altre forme di vita.
«Alieni?» chiede lui. «Sì» dico io: «Alieni, extraterrestri, chiamali come vuoi».

Arriviamo vicino Roma, usciamo dall’autostrada e ci fermiamo a mangiare in una piccola trattoria, nei cui pressi c’è un grosso parcheggio per i Tir: «Vuoi una birra?» chiede mio padre.
Sa che non mi piace la birra, che sono ancora troppo piccolo per berla, ma me lo chiede lo stesso.
Dopo mangiato, andiamo a dormire nel camion. Mio padre dice che Roma è a pochi chilometri da dove siamo adesso. Cerco di immaginarla, la “città eterna”, con tutte le sue luci, i monumenti illuminati.

Poi chiudo gli occhi e succede una cosa strana: sento che il camion si muove e comincia piano piano a ruotare su sé stesso, come una trottola, e poi si solleva e inizia a salire su, verso il cielo.

Mio padre non mi sente.ù: «Che sta succedendo?» gli chiedo, ma lui non mi sente.
Lo sterzo si muove da solo, come se a guidare ci fosse un fantasma. 
In un attimo siamo su Roma. Tutta la città sotto di noi. Un mare di luci. Il nostro camion non emette più il classico rombo, ma un sibilo appena percettibile.

Ci abbassiamo e voliamo al di sopra dei tetti, al di sopra del Colosseo, del Fori Imperiali, delle Terme di Caracalla, del Tevere… poi mio padre mi scuote. Dice che è fatto giorno.

«Papà, ho fatto un sogno» gli dico: «Ho sognato…», «Me lo racconti dopo» fa lui.
A lui non piacciono i sogni, si rifiutava sempre di ascoltare quelli che faceva mamma, che per la verità non erano mai dei bei sogni. Entriamo nel bar che sta accanto alla trattoria, e mentre mio padre scherza con la barista, il mio sguardo cade sul titolo di un giornale che sta sfogliando un signore seduto a un tavolino.

C’è scritto: AVVISTATO UN UFO SUL CIELO DI ROMA.
E c’è una foto. Un oggetto volante che somiglia molto al nostro camion.
E io dico: «Papà, papà, guarda, il nostro camion», ma mio padre non si volta, continua a fare lo scemo con la barista, come se io non esistessi, come se stessi ancora lì, nel camion, a dormire.

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Aspettando il tram View More

di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

In attesa del tram mi accorgo di una macchina parcheggiata davanti la rampa per disabili sul marciapiede difronte.

Le persone sono capaci di cose orribili e disgustose anche per i motivi più assurdi, ma c’è solo una tipologia umana che merita la pena di morte: quella degli stronzi.

Ci sono persone che hanno bisogno di rieducazione e riabilitazione, ci sono altre che ci permettono di sondare gli abissi della psiche umana e poi c’è chi posteggia sulle strisce o al posto per disabili o blocca il traffico per parlare con amici. Questa gente non è cattiva, psicotica, in gravi contingenze o priva di mezzi, ma è stronza.
Non puoi rieducare un soggetto che antepone, alle norme della vita civile, la propria pigrizia e arroganza.

Passa il tram per la direzione opposta alla mia mentre una “Karen” si mette nell’auto incriminata.

“Karen”: donna cis, cristiana, bianca, etero, di mezza età e di estrazione medio borghese che considera se stessa il metro di misura della normalità.
Il suo immaginario è fatto di stereotipi di genere, di valori conservatori e di libri per donne represse, disperate e semi-analfabete, come del resto è lei. Cagna da guardia del patriarcato sogna di fare la mantenuta e, finché non si scopre, le vanno bene i “puttan tour” del marito tra trans e mignotte.
Il suo atteggiamento verso i diversi da lei oscilla tra il paternalismo spinto, per i “poveri non civilizzati negri”, e il disprezzo esagerato, per i “puzzolenti zingari ruba-bambini”.

Avvia la machina e se ne va, mentre io aspetto.

Esistono cinquanta sfumature di Karen: dalle catechiste analfabete la cui idea di cattolicesimo è “no froci, no aborto”, alle casalinghe che “devono fare tutto le figlie femmine”, alle divorziate sempre a caccia di un uomo che le mantenga. Le Karen che fanno carriera politica nelle file della destra reazionaria, le Karen pseudoliberali del tipo: “io sono femminista, ma, cara, te la sei cercata”. E non dimentichiamo la gioia dei camerieri «possiamo avere il tavolo fuori? Ah, ma fuori fa freddo e piove, preparaci il tavolo dentro… ah, ma ha smesso di piovere, può apparecchiare fuori per favore?», e ovviamente mai una mancia.

Continuo a guardare la discesa per disabili libera.

Da piccolo chiesi a mio padre perché non sopprimevamo i portatori di handicap, mi facevano tanta tristezza, e lui mi rispose che non stava a me giudicare la vita degli altri decidendo lo standard della felicità altrui. Dopo qualche anno tornai perfezionando la mia domanda: «Papà, perché non abbattiamo tutti quei soggetti che non sono in grado di produrre alcunché?», e lui: «Perché una società si misura dalla sua capacità di prendersi cura dei soggetti più fragili, non dalla sua produzione». È questa non era solo una massima culturale, ma una legge biologica: la cura del prossimo, in particolare del più fragile, migliora la sopravvivenza della specie e la qualità della vita generale.

Quindi, non posso che convincermene: chi occupa la rampa per disabili, le strisce pedonali o parcheggia come se fosse l’unica persona sulla strada, è nemico della specie più che della civiltà.
Finalmente ho trovato una categoria da eliminare.

Un’altra macchina occupa il posto e il mio tram non arriva.

In un solo colpo, il macchinone, occupa marciapiede, rampa, strisce e strada.
Esce dall’auto un signore over sessanta con un sorriso da marpione e l’aria di chi ostenta l’auto nuova per nascondere la sua insicurezza sessuale.
Va al tabacchino, probabilmente a comprare un pacchetto di sigarette, causa dell’impotenza, e un gratta e vinci: hai visto mai?

Stai ancora aspettando il tram? Allora torna alla fermata precedente!

Lisbon tuk tuk - Ottavia Marchiori View More

di Silvia Roncucci

Illustrazione di Ottavia Marchiori


Le lancette del mio vecchio orologio sobbalzano mentre marcio verso il ristorante dove i Soares aspettano da più di un’ora. Dietro di me c’è Alba, a chiudere la carovana Massimo che zoppica.
Quando ci impantaniamo in un ritardo africano dipende da un motivo e nel nostro caso ha un nome, e di certo anche un cognome che però non ho avuto la prontezza di chiedere.

A ogni proposta di visitare la nostra amata Lisbona, Alba ci guarda come se la invitassimo a scalare l’Himalaya a piedi nudi. Ma quando ha saputo che c’è stata Greta, l’amica “figa”, ha deciso di accontentarci. Peccato che si alzi quando le portiamo il pranzo, esca all’imbrunire per via dell’afa e sbuffi davanti a ogni salita superiore all’un per cento di pendenza.
Per questo ho pensato al Tuk-tuk.

«Non è troppo da turisti?» ha detto Massimo.

Devono essergli venute in mente le nostre camminate giovanili su e giù per la Mouraria: le gambe indolenzite, il fiato mozzato, fare l’amore in barba all’acido lattico.

Ho insistito per la bimba. Ha tredici anni la bimba.
Con la promessa di tornare in tempo per il terzo shampoo della giornata, otteniamo da lei il nulla osta a prenotare un giro con Lisbon tuk-tuk.

L’asfalto di piazza Marquês de Pompal ribolle sotto i sandali, perciò saltiamo volentieri sullo strombazzante Tuk-tuk che arriva avvolto in un polverone grigio.
Al volante c’è un tipetto con il volto invaso da una barba riccia e brizzolata, il cappello sugli occhi, le lenti a specchio.

«We go to elevador da Bica?» chiede. Sorride.
Tra i denti ha qualcosa di giallognolo.

Massimo risponde di sì e si mette in mezzo, perché Alba vuole stare di lato per i selfie, ma il veicolo si abbassa sotto il suo peso: è un po’ ingrassato dai tempi della Mouraria.

«Come si chiama? È di qui?» chiedo.
«Soy Diogo. Of course» risponde.
La mescolanza linguistica però non mi convince.

Diogo ci tiene a mostrare ogni singola pietra del percorso, tanto che impieghiamo quaranta minuti ad arrivare. L’unica a gradire il passo processionale è Alba, forse perché assicura sfondi non troppo mossi.

Finalmente Diogo si ferma e si schiarisce la voce: «Elevador muito antigo and…»
«Grazie, ma non abbiamo tempo. Possiamo continuare?» lo interrompo.
Abbassa le lenti. Ha gli occhi verde oliva, quasi gialli. Come la roba tra i denti.
Fatico a sostenere il suo sguardo. Mi viene il dubbio che provenga da qualche stato del Sudamerica dove le offese si lavano col sangue.

«Como quiser».
Riavvia il Tuk-tuk e dà un’accelerata.

Ora so che, in punto di morte, è proprio vero che tutta la vita ti scorre davanti.
Nel quarto d’ora successivo Diogo affronta curve, salite e discese sollevando almeno una delle ruote posteriori. Rivedo la mia infanzia, il giorno della laurea, Massimo assunto alla ASL, la nascita di Alba quando andavo per i quaranta, la mia cattedra invasa dalle carte. Ogni tanto il film si interrompe ma non c’è la pubblicità, bensì il selciato a onde di Praça Rossio a un centimetro dal mio viso, Massimo con una mano sulla bocca, o Alba che grida che le foto così escono male. In sottofondo colgo descrizioni frammentarie «arco rua Augusta… muito antigo…» finché, a Nossa Senhora do Monte, il veicolo inchioda e per poco non ci sbalza in avanti.

«Photos!» fa Diogo e indica il belvedere.
Sto accarezzando l’idea di scappare, quando Massimo mi tende la mano per scendere.
Subito Alba inizia a dirigerci come una troupe, ma appena Diogo ci richiama con un fischio io e lei saltiamo su prontamente, mentre Massimo è costretto a inseguirci.
Salendo guaisce e si tocca la caviglia.

Diogo guida in maniera impeccabile fino al Museo del fado dove si ferma per offrirci un bicchiere di ginjihna.
Davanti allo sbadiglio spudorato e al gesto di rifiuto di Alba, mugugna qualcosa, ci guarda di traverso e domanda che lavoro facciamo.

«Io sono insegnante e lui pedagogista» dico.
I suoi baffi sono folti, ma capiamo lo stesso che se la ride lì sotto.

Ripartiamo in silenzio.
Dico ad Alba di mettere via lo smartphone, ma è troppo tardi.
Incrocio il mio sguardo allo specchietto e noto le rughe infittite intorno agli occhi: anche io mi sento “muito antiga”.

Quando intravediamo la statua del Marquês de Pombal, Diogo prende a raccontare del terremoto di Lisbona del 1755, dello tsunami e di altre disgrazie correlate. Alba lo segue con uno strano trasporto, facendo qualche domanda e scordandosi delle foto e dello smartphone. Al capolinea gli lasciamo la mancia, certi che altrimenti tirerà fuori l’animo vendicativo da soap opera latina, lui ci saluta togliendosi il cappello e solo allora vedo che è calvo. Mentre ci incamminiamo verso l’albergo mia figlia leva un grido.

«Lo smartphone!» Si siede a terra e svuota la borsa.

Diogo è troppo lontano, ma la forza della disperazione spinge Alba a emettere un fischio sonoro che lo richiama indietro. Ispezioniamo invano il Tuk-tuk e a quel punto non abbiamo scelta: dobbiamo rifare il tragitto. Domanda: quando tempo impiegheremo perlustrando tutti i bordi delle strade di Lisbona, i cestini della spazzatura, gli angoli delle piazze, chiedendo a negozianti, autisti, ambulanti se si sono imbattuti in un iPhone rosa? Risposta: quasi tre ore.

Sono le nove e un quarto quando torniamo al punto di partenza a mani vuote. Diogo è dispiaciuto, Massimo allunga altri centocinquanta euro per quello che si è rivelato il tour di Lisbona più costoso della storia, e Alba si scusa di sua volontà (miracolo).
Non possiamo dirigerci con lenta mestizia al ristorante solo per via del ritardo.

A tavola Massimo mostra la caviglia: stesso diametro di quella di un elefante.
Torno a guardare l’orologio e vedo che le lancette sono ferme: un chiaro segno del destino.
L’assenza dell’iPhone rende più semplice la comunicazione di Alba con i Soares (che hanno affrontato l’attesa con un lungo aperitivo) e il figlio Nuno, un ruvido diciassettenne più interessato al calcio che agli smartphone.

Ordiniamo dolce e Porto quando si presenta un uomo.
Finché Alba non si avventa su di lui non riconosco Diogo, senza occhiali e col testone glabro in bella vista: in mano ha il telefono, trovato in una cavità sotto il sedile. Da come parla con i Soares capisco che è davvero di Lisbona e che ha creato il suo grammelot a forza di scarrozzare gente di tutto il mondo.
Si congeda senza accettare la mancia e Massimo sospira sollevato.
Beviamo in silenzio, Alba controlla i messaggi e Nuno la guarda sprezzante. Continuo a pensare che il colpevole di tutto abbia un nome. Ma non è Diogo.
Per questo strappo lo smartphone dalle mani di Alba.

«Sei sopravvissuta quattro ore, resisti fino a domani!» dice Massimo mentre lei protesta.

I Soares la fissano.
Alba mette il broncio, ma dopo un minuto di silenzio vede passare un vassoio con dei bicchieri di ginjinha e chiede: «Posso?»

Io e Massimo ci guardiamo.
Di certo pensiamo la stessa cosa: in fondo c’è ancora speranza.

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quasi tutto velocissimo recensione View More

di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Romanzo del 2019 pubblicato da Keller, “Quasi tutto velocissimo” è un on the road in cui i due personaggi vestono i panni di presente e futuro, dialogando tra loro alla ricerca di un intreccio esistenziale.

Quante dita ti restano prima di morire?

Il tempo scorre in una clessidra senza speranze di ribaltamento. Il responso del medico è chiaro: cinque dita di una mano; cinque dita che potrebbero essere abbastanza ma non per Albert e Fred.

Albert è un orfano di diciannove anni che fin dal primo momento tenta la fuga dall’orfanotrofio rintanandosi da quello che gli dicono essere suo padre. Il sessantenne Fred è un bambino intrappolato nel corpo di un adulto che passa le sue giornate a contare le macchine verdi alla fermata dell’autobus. Non è sempre facile gestire il ribaltamento di ruoli, ma Albert si aggrappa a Fred perché è il suo unico legame con quel passato a cui vuole dare un nome.

L’uno arrendevole, l’altro testardo si uniscono nella ricerca di indizi in un viaggio tutt’altro che scontato.

Quanti tesori nascondiamo nel vano porta oggetti delle nostre auto?

Un calendario dove annotare il numero di mezzi verdi, una vecchia audiocassetta che produce un fruscio incomprensibile, una scatola di latta con una pepita d’oro.

Chi di noi non conserva oggetti quasi insignificanti che nascondono storie intricate, dolorose e tenere al contempo. Sono briciole di Hänsel. Ma abbiamo sempre il coraggio di seguirle?

Attenti a non tirare lo sciacquone.

Una vasca da bagno piena di acqua gelida all’improvviso diventa, aggiunto un po’ di sale, l’Oceano Pacifico. Un oceano dove immergersi con una tuta da palombaro ereditata da un padre scomparso prematuramente, forse nelle tubature sul fondo dell’Oceano, dentro alle quali magari continua a vagare per gli Stati del mondo.

Come non provare un senso di schifo davanti all’immagine delle condotte fognarie di una città. Eppure, tra le pagine di questo romanzo, si arriva al punto di crederle il posto più sicuro del mondo, un posto dove per un attimo i pensieri si quietano e nessuno verrà a cercarti.

Le risposte che cerchiamo possono soddisfare le assenze?

Alle volte, al bivio di una scelta, si decide di cercare ciò che non abbiamo mai avuto ma che abbiamo sempre desiderato con immenso ardore. Sperando che ogni risposta, anche la più dolorosa, possa tacitare la pena che abbiamo nel cuore. Quando arriva non siamo comunque pronti, ma a guardarci intorno, forse, ci accorgiamo che altro ha riempito le nostre vite. Ed è a quel bene prezioso che ci aggrappiamo quando tutto sembra troppo assurdo per essere tollerato.

“Estasiante”

Questo è un romanzo che parla di stivali di pelle tirati a lucido, di un abito da sposa abbagliante, mucchi di lenticchie, rime inventate, vedove solitarie, di solitudini e affetti.

Al lettore non viene risparmiato nulla, seppur tratteggiato con eleganza e sottovoce. Bisogna passare guerre, affrontare malattie mentali, accettare follie ed incesti, assistere ad omicidi efferati e incontri amorosi consolatori dopo le sepolture. In una cornice storica tristemente nota che abbraccia quasi un secolo, l’autore ci mette davanti ad una saga familiare al limite dell’inverosimile. A ben vedere però non si discosta poi così tanto dalla realtà, almeno non da quella che ci rifiutiamo, a volte, di vedere.

Quasi tutto velocissimo è un romanzo sull’imprevedibilità della vita, su una mano di carte sfortunata, su terre di confine, genitorialità e reietti depredati dalle migliori speranze.

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Il tram è in ritardo.
Mi chiedo che ripercussioni avrà sulla mia giornata, mi porterà fortuna o sfortuna?

“Fortuna” è come chiamiamo il punto d’incontro tra eventi favorevoli e la nostra capacità di coglierli.
Una persona ottimista e propositiva sarà più predisposta a matchare due eventi positivi, mentre il mio sistema cognitivo si fa passare sotto il naso il bello della vita per cogliere solo l’orrore.
Quindi, anche questa giornata, andrà sicuramente di merda.

Il ritardo del tram supera i dieci minuti e non so che fare.

Nella vita sono sempre stato abilissimo a non sfruttare le occasioni e quando proprio mi arrivavano addosso allora mi impegno a sabotarle.
Il mio cervello pensa alle diverse variabili e razionalizza la peggiore tra quelle probabili.
È una forma di difesa.

Certo, se pensassi alle infinite variabili diventerei folle come il protagonista di un racconto di Lovecraf, anche se in effetti sarebbe interessante vedere Cthulhu sorgere per bloccare il traffico e far apparire il tram, almeno potrei dare la colpa a qualcosa di diverso dall’amministrazione. Un bel capro espiatorio sopraggiunto dai silenzi siderali dell’universo per spiegare il ritardo di un mezzo pubblico.
Poi darei comunque la colpa all’amministrazione, ipotizzando una giunta dedita al culto dei Grandi Antichi.

Del resto, anche davanti all’assurdo, è importante trovare un colpevole responsabile degli eventi.
I complottisti, davanti a una pandemia, pur di non accettare che l’essere umano è piccolo, impotente e indifeso davanti agli scherzi aleatori della natura, hanno iniziato ad accusare malevoli poteri occulti.
Il complotto implica ordine e coerenza.
Meglio i “poteri forti” che muovono le file degli eventi piuttosto che affrontare l’idea di essere nudi nella tempesta.

Mia madre crede nella Provvidenza. Alcuni nel Destino, altri negli Oroscopi.
Ogni cosa che accade deve essere correlata ad un’altra, altrimenti è il caos.
Magari siamo solo troppo miopi o “asserviti al sistema”, per cogliere gli indizi. In questo momento la mia mente potrebbe cogliere bellezza, amore e armonia ovunque, ma nota solo quel signore sul marciapiede di fronte che non ha intenzione di raccogliere la merda del suo cane.

Alzo gli occhi al cielo come se cercassi un modo per far arrivare il mezzo.

La vita è piena di insulsi gesti che pensiamo correlati in modo misterioso, ma aprire una busta di patatine non farà comparire il tram, un gatto nero non porterà sfiga e il segno della croce non farà vincere le partite.
Di certo i flash mob per la pace non stanno funzionando e le firme su change.org per chiudere change.org non hanno chiuso change.org.
Eppure tutto vale quando si tratta di cercare un nesso logico per arginare il caos: se la mente lo trova è un bene, altrimenti si bara.

Il tram non arriva e non c’è niente che io possa farci.

Per passare il tempo apro un giornale di città: c’è l’oroscopo.
Magari lo posso usare per dare la colpa alle stelle oppure ci posso leggere cose positive e magari influenzare la mia mente a ricercarle nel mondo.

Magari la giornata migliorerà e questo ritardo avrà un importante significato nel movimento dell’universo…ma alla fine non importa cosa ci sia scritto davvero, io leggo sempre e solo: oggi sarà un’altra giornata di merda, stacce!

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di Denise Ciampi
Illustrazione di Anastasia Coppola

L’Elétrico 28 sferraglia per le strade strette e ripide dei quartieri vecchi.
Arranca e scivola nella sua antica veste bianca e gialla, indifferente alla modernità sotterranea della metropolitana.

Maria, come quasi ogni sera, è salita troppo distante da Martim Moniz per poter sperare di trovare un posto a sedere. Viaggia in piedi, accompagnando la corsa sulle rotaie con pesanti oscillazioni del suo corpo. Guarda distrattamente il paesaggio consueto dei vicoli: le case che si offrono allo stupore dei turisti, vicinissime e inafferrabili nelle discontinuità del percorso.

Non trascura di mantenersi ben assicurata all’apposito supporto, mentre con una mano tiene davanti a sé la borsa. Nei luoghi frequentati dai turisti si deve stare attenti: le è già capitato di essere derubata, proprio su quello stesso tram. Eppure lei non ha certo l’aria della ricca europea o della nordamericana in vacanza, ma, evidentemente, chi si dedica a quell’attività non va troppo per il sottile quando capita l’occasione.

Porta lo sguardo alle sue caviglie, che emergono intorpidite dalle scarpe dismesse dalla governante della casa dove va a servizio. Cerca di riattivare la circolazione con piccoli movimenti sul posto, intanto le torna in mente quel vecchio fatto: si trovava in Portogallo da poco, aveva appena ottenuto il permesso di soggiorno e le era toccato andare alla polizia per denunciarne il furto. Ricorda ancora lo sguardo accusatorio del commissario, il modo in cui si era sentita a disagio, quasi fosse lei la ladra.

Si guarda ancora le caviglie gonfie e pensa che sarebbe bello potersi togliere quelle scarpe troppo strette. Si lascia sfuggire un sorriso malinconico pensando a un concerto di Cesária Évora, la “diva scalza”, che ha visto una volta in TV.
Era stato il suo datore di lavoro a invitarla a sedersi sul divano per guardarlo.
Si era seduta con cautela, con il timore di ammaccare il velluto o di macchiarlo.

Il signor Duarte in quell’occasione si era messo a parlare della “saudade” e a farle domande sugli usi di Capo Verde, accennando a concetti che per lei erano troppo difficili.
Aveva parlato di “matrifocalità”, chiedendo a Maria come fosse la vita delle donne nella sua terra d’origine. Lei non  sapeva bene cosa rispondere, ma si era commossa pensando ai propri figli, che aveva affidato a un’altra donna per poter partire.

«Sono le donne a provvedere ai bambini, anche quando si trovano lontane da casa. Ci sono quelle che partono e quelle che restano, la vita è difficile per tutte», era riuscita a dire.

Improvvisamente era stata colta dalla rabbia, pensando che, anche se è stata abolita la schiavitù, lo sfruttamento delle donne non è mai finito: le erano venuti in mente i volti di donne picchiate e abusate, le espressioni falsamente allegre di giovani sfruttate sessualmente.

«Desculpe», aveva sussurrato inclinando il capo con rispetto. Si era alzata dal divano per tornare alle sue faccende, con le note della morna che riempivano ancora la casa straziandole il cuore.

Finalmente si è liberato un posto, in fondo alla vettura.
Maria lo raggiunge, accarezzando con lo sguardo il fiume Tago, che appare in lontananza, dal finestrino.
Il Ponte 25 Aprile è ancora lì, a ricordare la fine della dittatura, Maria lo saluta come un vecchio amico.

L’Elétrico 28 prosegue, ondivago, la propria corsa.
Maria guarda gli uomini e le donne: i neri, i mulatti e i bianchi.
Avverte lo strazio di tutta l’umanità, incatenata alla storia.
Sente sul suo corpo il peso degli squilibri provocati dal colonialismo, abbandona le membra stanche sul sedile.

Il vecchio serpente è una nave, che si prepara a fare scalo nelle isole di Capo Verde. Ha occhi dipinti sulla chiglia, per tenere lontani gli spiriti maligni. Al timone ci sono dei ragazzini. Mariana, la figlia minore di Maria, ha aperto una grande carta geografica che le ricade sul viso, ride e indica la direzione.

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di Giulio Iovine

Illustrazione di Diaz

Mia madre, notoriamente di poche parole, nel congedare me e i miei fratellini tenne fede alle sue abitudini, e si limitò a raccomandarci di trovare una buona posizione.
Era l’unica cosa che importasse.
Fatto quello, il resto veniva da sé.

«Tanto nel giro di cinque o sei anni sarete tutti morti di vecchiaia», concluse, e volò via.

Volammo via pure noi dal nostro ramo, in cerca di fortuna. Non so in quanti riuscimmo a scampare i fatali cinque minuti dopo l’uscita dal nido, ne muoiono così tanti.
Io ebbi fortuna, perché atterrai quasi subito sulla schiena di Giggetto: da allora vivo lì.

Il nome “Giggetto” gliel’ho dato io, perché non ho idea di come si chiami e siccome non ci ho mai parlato, né mai lo farò, conveniva trovargli un nome da me, altrimenti mi sarei trovato in difficoltà a riferirmi a quello che è, di fatto, il centro della mia esistenza.
Non sono mai più sceso da Giggetto e non me ne allontano mai – in linea d’aria – per più di mezzo metro.

Giggetto è un dinosauro.
Nella fattispecie un sauropode: a occhio e croce, probabilmente un diplodoco.
Credo abbia passato la cinquantina ed è nel pieno della sua maturità. Dalla punta del naso, attraversando collo, dorso e coda, conta circa trentadue metri per ventuno tonnellate; in ogni caso è più grosso di me che misuro, se proprio stiro le mie alucce, una decina di centimetri e peso pochi grammi.
Non credo affatto di essere l’unico pterosauro – ce l’avete presente? Quelli con le ali e i peli? Ottimo – a vivere stabilmente sulla schiena di un sauropode gigante; ma pochi tra i miei conspecifici possono vantarsi di vivere in groppa a uno come Giggetto.
Chiamatemi scemo, ma secondo me Giggetto non è un diplodoco qualunque.

Anzitutto, Giggetto cammina un sacco.
Non sta mai fermo. A bordo della sua schiena ho fatto il giro del continente quattro volte.
Il fatto è che ha bisogno di mangiare, stellina, perché a dispetto della stazza ha il metabolismo alto ed è erbivoro, e sappiamo tutti che le piante, per farle fruttare, devi mangiarne a carrettate.
Giggetto cammina lento ma sicuro, senza esitare, attraverso le grandi pianure. Nella stagione secca si infila per le foreste, abbatte gli alberelli più incerti, ficca la testa nel sottobosco e aspira come se non ci fosse un domani felci, muschio, radici, tuberi e cicadee. Se ha caldo, sale in montagna e io prendo il fresco grazie a lui. Poi quando arrivano le piogge scende verso i fiumi, ingoiando podocarpi, fronde di ginkgo, araucarie, pigne. Quando ha finito, passa al bosco o alla radura accanto. Cammina, cammina fa il giro del continente con me in groppa.
Molti dei suoi compagni fanno branco: lui, che è un boss, viaggia da solo.

Siccome è un giramondo, prende su ogni sorta di parassita, insetto o invertebrato che si trovi nei paraggi, e che si posa sulla sua pelle sperando di deporci le uova o succhiare il sangue.
Ma qui intervengo io, anche perché devo pur mangiare.
Ogni giorno, mentre Giggetto avanza dondolando, delicato nel suo enorme peso, io perlustro il suo corpo, sorvolandolo con le mie ali corte ma rapidissime, e una dopo l’altra faccio strage di queste bestiacce. Quando viene la stagione degli amori e Giggetto gonfia le sue borse golari colorate per impressionare le femmine e rimorchia di brutto perché è pulitissimo, il merito è sostanzialmente mio. Senza nulla togliere, naturalmente, al fascino maschio di Giggetto, cui più di una diplodoca ha ceduto al primo sguardo. Quando arrivano all’atto vero e proprio può diventare un bel problema, perché Giggetto, per montare deve alzarsi sulle zampe posteriori facendo un treppiede con la coda, appoggiarsi sul dorso di lei, e operare di buona lena; sentiste i barriti di questi due “zozzoni”.
Il tutto dura non so quante ore e io devo appendermi alla sua schiena (ora verticale) per non cadere.
Poi la fregola finisce e si ricomincia a viaggiare.

Ogni tanto qualche carnivoro è abbastanza incosciente da cercare di mangiarsi Giggetto.
Mi ricordo la prima volta: mi presi uno spavento che non dimenticherò più.
Era l’inizio della stagione secca, verso sera, e Giggetto stava scendendo dalla cima di una collina al fiume, per la sua bevuta quotidiana. Io, come al solito, me ne stavo comodo comodo sulla sua schiena, da cui si vede sempre un bel panorama e – se non ci sono alberi di mezzo – anche molto in là. Mentre Giggetto aveva la testa tra le onde e le zampe a mollo, bevendo a larghe sorsate, mi sono accorto che da tre quarti posteriore gli stava venendo incontro, passin passino, nientemeno che un allosauro. A suo credito, grosso abbastanza da poter aspirare a Giggetto se si fosse davvero impegnato. Preso dal panico per quello che era evidentemente un agguato, ho cominciato a svolazzare e squittire attorno alla testa di Giggetto, in un patetico tentativo di avvisarlo: lui non ha dato segno di avermi notato.
Intanto l’allosauro si avvicinava al punto debole di Giggetto, la zona prossimale della coda, dove c’è il muscolo che lo fa camminare. Ha aperto la bocca, un orrore quasi verticale di denti, pronto alla sciabolata. Ma ecco che la testa di Giggetto, venti metri più in là, si volta delicatamente a guardarsi indietro, e io mi rendo conto che Giggetto sapeva, perché due secondi dopo tira un calcio all’allosauro con la gamba destra. Un bel calcio, che sbilancia il carnivoro e quasi lo fa inciampare. Cade addosso alla cosciona di Giggetto, il quale si divincola e lo fa scivolare a terra. Altro calcio mentre tenta di rialzarsi, ma stavolta Giggetto si becca un morso sul polpaccio, e una brutta ferita.
L’allosauro fa per allontanarsi a distanza di sicurezza, ma Giggetto, che non l’ha presa bene, scuote la coda a frusta all’impazzata e lo becca in piena faccia (pam!), slogandogli la mandibola.

E niente, l’allosauro se n’è andato con il muso storto e Giggetto, finito di bere, se n’è tornato in collina col polpaccio sanguinante.

Ma la ferita è guarita senza infettarsi.
Un po’ perché Giggetto ha un sistema immunitario niente male, un po’ perché il sottoscritto è rimasto attaccato alla sua gamba per una settimana, oscillando come su un’altalena, a mangiarsi tutte le mosche che si avvicinavano.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Pubblicato nel 2019 da La nave di Teseo, Corriere di notte è il romanzo epistolare vincitore del Premio Internazionale per la Letteratura araba dello stesso anno.

Per chi ama il sapore delle lettere trovate per caso.

Insolito, alternativo e struggente, questo romanzo si nasconde abilmente dietro a cinque lettere anonime che non giungono mai al destinatario. Filo conduttore il comune destino di fragilità e depravazione che accomuna i mittenti. Anime perdute che cercano di confessarsi senza tuttavia dimostrare pentimento per le azioni commesse.

Per chi ha il coraggio di affrontare l’eco personale delle confessioni di uno sconosciuto.

I mittenti non si incontrano mai, se non in una involontaria staffetta che porta le singole confessioni ad un destinatario voluto dal fato. Tra quelle righe si fa strada un’eco personale che, sull’onda di un insperato conforto, suscita la necessità di scrivere una propria confessione. Il passato dei protagonisti è un pesante fardello che non arriva mai al pentimento anzi, diventa giustificazione per altri misfatti e nuove derive.

Per chi è disposto a superare immagini e luoghi comuni.

Chi si nasconde davvero dietro alle persone che incontriamo per strada? Che siano reietti, delinquenti o persone insospettabili, mai possiamo sapere cosa c’è nel passato degli altri.

Leggendo questo romanzo ci si aspetterebbe un riscatto che non arriva mai. C’è una fuga costante da luoghi mai menzionati ma facilmente intuibili; fuga che non trova soluzione perché i protagonisti rimangono imprigionati in luoghi di passaggio sperando nella vita in un altrove impossibile da raggiungere.

Per chi ha ceduto alla lusinga di un ricordo di gioventù e dicendosi “perché no” ha intrapreso un viaggio insensato.

Ci si può lusingare per essere stati contattati da una vecchia fiamma adolescenziale. Perché no, perché non prendere un aereo e rivivere quel brivido di gioventù. Ma il tempo è inclemente, la pioggia scroscia e le valigie talvolta si perdono. L’attesa diventa motivo di ipotesi ed elucubrazioni che portano a razionalizzare l’impeto di un viaggio senza senso. 
La curiosità letale di rivedere il passato si dimostra un fallimento e le bugie dei film che penetrano nel sangue come un veleno vengono di colpo smascherate. Come lo specchio non cela gli anni passati.

Anche laddove il dolce sapore delle nespole condivise durante una corsa in un taxi collettivo potrebbe essere un segno positivo, rimane l’immagine del bidone dove vengono gettati i resti dei dolci frutti.

Quel che rimane del miraggio.

I protagonisti sono aerei che non partono mai, smarriti come bagagli sul nastro trasportatore di un aeroporto. Il puzzo delle uova che rimane impregnato sulla pelle del lettore diventa simbolo di una mancata rinascita, comune denominatore delle vite che si intrecciano. Un postino che raccoglie lettere in una città assediata, impossibilitato a muoversi dal suo nascondiglio, diventa misura dell’incomunicabilità.

Corriere di notte parla della complessità del mondo arabo, del mito del viaggio alla ricerca della salvezza, della condanna di un mancato ritorno e della ricerca dell’amore come primordiale forma di attaccamento alla vita.

Un romanzo giocato sul filo sottile tra immaginario e reale, tra sonni che rendono inaccessibile lo spazio interiore alla luce del giorno, notti straniere e senza patria trascorse in hotel di bassifondi degradati, tirannie familiari e promesse d’amore che sembrano prigionie.

Enjoy Milano! View More

di Davide Ricchiuti

Illustrazione di Raquel in Dreams

Sblocco la serratura con il pin e salgo.
La Cinquencento Enjoy è parcheggiata in zona universitaria. L’accesso è limitato, ma quest’auto è speciale.
Avrei voluto scrivere che è speciale perché è rossa, perché costa venti centesimi al minuto invece di venticinque (solo per questo mese), perché può andare dappertutto – fango, stelle, sotterranei – e invece la verità è un’altra. È speciale perché sul sedile del conducente trovo un biglietto scritto a mano.
Però lo sollevo per sedermi. All’inizio penso che sia un appunto qualsiasi della spesa perso da chiunque abbia guidato prima di me. Lo sistemo sul cruscotto, mi disinfetto le mani, prendo le chiavi e accendo l’auto.

I minuti costano dal primo istante in cui lo sportello si apre. Il tempo è denaro.
Mai prima di guidare queste Cinquecento Enjoy avevo sentito sul collo il fiato del capitalismo.
Apro Google Maps e sistemo il telefono a vista.
Devo raggiungere un salotto letterario dove mi hanno invitato per presentare il primo numero della rivista che ho fondato da poco. Sono un uomo e in questa rivista pubblico solo donne, autrici esordienti, scrittrici affermate, giornaliste iscritte all’albo, tiktoker che hanno cose interessanti da dire sul femminismo. Si parla di aborto clandestino, identità di genere, body shaming, violenza domestica.
Roba seria, roba attuale, roba che vuole dare un segnale.
Io sono un tipo serio, sono un tipo attuale, sono un tipo che vuole dare un segnale.

Non faccio nemmeno in tempo a inserire la freccia per uscire dal parcheggio che un tizio suona il clacson nel mio cervello. S’intromette tra le cose che devo dire alla presentazione, le stavo ripassando a bocca chiusa, con le mani sul volante e il motore acceso.
Il tizio doveva essere alla ricerca di un posto da chissà quanto.
Deve avere intercettato le luci dell’auto.
Si accendono automaticamente se il conducente precedente non le ha spente.
Con una calma buddhista avanzo fuori dalle strisce del parcheggio. Il tizio suona ancora.
Io rallento di più, se possibile.
Lui scende dalla sua auto e si avvicina al mio finestrino.
Batte il pugno sul vetro. Grida qualcosa. Io accendo la radio e comincio a tenere il tempo con le mani sul volante.
Stanno passando Fulminacci, quel pezzo dove dice: gli sbagli che ho fatto, però non ho una tattica tattica tattica. Il tipo risale in auto e suona di nuovo, poi preme a vuoto sull’acceleratore. Io inserisco la prima è lascio Mr. Clacson nel mio retrovisore.
La gente fa schifo, canta Fulminacci. Certi uomini fanno schifo, in effetti.
Potrei usare questa frase alla presentazione. O è un po’ eccessiva?

Inserisco la seconda e la terza.
Rallento al primo semaforo, scalo marcia, freno e vado in folle.
Mi ricordo del biglietto.
Lo prendo dal cruscotto, ma appena provo a decifrare la calligrafia delle parole scatta il verde.
Intravedo un numero, forse di telefono.
Rimetto a posto il biglietto e parto.
Prima, seconda, terza, giro a destra, la strada si allarga, mi sistemo nella corsia centrale. Non c’è nessuno davanti a me, rallento un poco e provo a riprendere in mano il biglietto. Niente da fare, quando metto a fuoco la prima parola l’auto sbanda leggermente.
Appoggio il biglietto, riprendo il controllo, ma non vedo l’ora che appaia un altro semaforo rosso.
Eccolo, mi fermo. Mi rendo conto solo in quel momento che avrei dovuto essere sulla corsia alla mia sinistra adesso, non in centro. Ora come faccio a girare?
Controllo la strada voltando la testa all’indietro e vedo tre auto in arrivo.
Scatta il verde e cambio corsia, anche se non potrei.
Mi accodo all’ultima auto che passa a sinistra mentre almeno tre clacson dietro di me sparano lamenti inenarrabili. Hanno fretta di andare dritto. Uno poi ringhia qualcosa mentre abbassa il finestrino. Adesso Fulminacci canta: la gente è cattiva. Sorrido.

Guido fino ad arrivare nella zona del Masada.
Il salotto letterario a cui sto andando si chiama così. Ci metto un po’ a trovare parcheggio, ma alla fine mi fermo in una traversa di Viale Carlo Espinasse. Prendo la borsa, conto le riviste e apro l’app per terminare il noleggio. Controllo l’orologio. Sono in ritardo.
Esco dall’Enjoy e aspetto che si chiudano a chiave le portiere. Poi mi ricordo del biglietto e lo cerco sul cruscotto con gli occhi.
Mi avvicino e non credo a quello che leggo.

Accendo la torcia del telefono e la punto sul biglietto per rileggere, ma il parabrezza riflette la luce.
La spengo e riprovo. Scatto una foto al biglietto e zoomo sullo schermo del telefono. Incredibile.
E pensare che ho passato tutto quel tempo in auto senza leggerlo.
Telefono a Ugo, che mi aveva invitato al Masada, e gli spiego la situazione.
Gli riferisco cosa c’è scritto sul biglietto. Lui rimane in silenzio qualche secondo, poi dice che devo andare in questura.
E io sono d’accordo, ovvio. Dice che se io non facessi questa denuncia subito non avrei nemmeno fondato il tipo di rivista che hai fondato.
«Giusto?» mi chiede. Gli rispondo che però così la presentazione salta di sicuro, la burocrazia ha tempi dilatati: ero venuto a Milano per presentare la rivista, ho stampato più copie apposta, preparato un discorso. Ugo dice: «Cristo, ci sono delle priorità. E la vita della ragazza che ha lasciato quel biglietto, in questo momento, è più importante della nostra».
Ha ragione.
Avrebbe dovuto fondare lui la rivista femminista, non io.
Io, in fondo, sono solo gente.
Gente che fa schifo.

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Ultime Parole View More

di Carlo Marconi

Illustrazione di Ilaria Salvatori


Erano le 16:47 del 17 Settembre 1986 quando esplodeva uno dei due motori del Boeing 737-800 diretto a Madrid. Nello stesso istante in cui la coda dell’aereo prendeva fuoco, 250 persone si trovavano a dover prendere la difficile decisione di pensare alle ultime parole della loro vita.

Per 153 passeggeri fu naturale urlare al proprio compagno: «Ti ho sempre amato!».

Altri 34, per nulla d’accordo con i precedenti, gridarono a perdifiato: «Ti ho sempre odiato!».

Ma le urla di quelle 187 persone produssero soltanto un boato ancora più assordante dell’esplosione e nessuno seppe mai cosa l’altro gli avesse detto.

Quanto ai restanti 63 passeggeri, 61 non avevano nessuno a cui urlare: «Ti amo!» o «Ti odio!».

In realtà non avevano proprio nessuno a cui urlare.

Gli ultimi due si trovavano al bagno.
Per loro fu semplice gridare: «Merda!».

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Ilaria Salvatori - Fermata 23, Vitelleschi View More

di Claudio Ferrucci
Illustrazione di Ilaria Salvatori


Set: interno scuro con luce bassa che illumina a stento una poltroncina di pelle nera; tavolo tondo di mogano al centro; gigantografia della statuina dell’oscar; sfondo con foto in b/n di un giovane Alberto Sordi che, sigaretta in bocca, si rilassa ad un bar.

«Luce!», echeggia tutto intorno proprio mentre Aldo Aldini, critico cinematografico locale, prende posto: accavalla le gambe e fa un profondo respiro chiudendo gli occhi.

Camicia bianca di cotone leggero, foulard marrone che fa il paio con i pantaloni dello stesso colore.
Aldo aggiusta i radi capelli candidi sparsi sulla testa, categoricamente e obbligatoriamente spettinati («fanno più intellettuale Alduccio» gli ripete sempre Mario, il truccatore, prima di entrare in scena), si schiarisce la voce e quindi spegne l’ultima sigaretta.

«Aldo Aldini – Critica Questo! Panoramica su Fellini…Parti Aldooo!»: tutta la troupe di ReteCinema Oro2000 si ferma per ascoltare ancora una volta il Maestro.
Il regista e interprete della serie Chi l’ha visto…sto film?  sui B e C movie italiani e direttore del Festival Anteprima di Gattea a Mare è pronto per una nuova magia…

«Salve a tutti e buonasera. Oggi vi parlo di un film che ha scritto la istoria, la geografia, la letteratura e anche l’epica del cinema italiano: i Vitelleschi.
Partimo già dal presupposto che stiamo a parla’ di una perla del grande Fellini: e ho detto tutto.
Tra l’altro ho conosciuto pure di persona, pochi giorni prima che girasse le ultime scene di sta pellicola leggendaria che rappresenta uno dei perni della commedia all’italiana.
Candidata agli Oscar nel ’58, I Vitelleschi, pensate, è stato inserito tra i 100 film italiani da salva’, questo solo per favve capi’ la caratura dell’opera del grande Fellini.

E parlando di grandi – l’Aldini si alza dalla poltroncina, mentre il fascio di luce che lo segue inizia ad evidenziare piccole goccioline di sudore tra la fronte e gli occhiali – non possiamo non cita’ l’irreprensibile, il grande, l’indiscusso Alberto Sordi, protagonista del film. Albertone bello, quanto ce manchi». Nel mentre si sofferma a guardare malinconico la gigantografia dell’attore che prende forma sullo schermo dietro di lui. «Ma andiamo alla sinossi de I Vitelleschi. Prima prima è importante capi’ da dove deriva sto termine i Vitelleschi: insomma, perché proprio Vitelleschi?…»

«STOOOOP! Ardoo, ma checcazzo stai a di?? – urla il regista dal fondo del set – Perché i Vitelleschi?? I Vitelloni, ci sta scritto, I Vitelloni. Questo – mormora avvicinandosi all’assistente – s’è rincoglionito del tutto…portategli un bicchiere d’acqua e ripartimo». Poi, di nuovo verso «Aldo dai, rifacciamola e leggi il gobbo per cortesia: I Vitelloni. Il film è I Vitelloni. Alberto Sordi, Fellini, 1958, tutto giusto pe carità, ma non me puoi sbaglia il titolo, essù Aldo».

«Oddio, c’hai ragione Alfio, me…me dispiace…è che Vitelleschi è la fermata del 23 che prendo la mattina. Oh vabbè, me so sbagliato, che sarà mai: il primo errore in 40 anni de cariera no? Me lo concedi? Che poi quando parlo de Albertone me se confonde tutto…lo sai che io ci ho fatto anche una vacanza insieme a Capracotta…era il millenovecentosett…»

«Sì, vabbè – lo interrompe bruscamente Alfio – a’ conoscemo tutti quella storia. Mo però riprendiamo da capo. Qua alle 7 dovemo smonta’ che ce devono gira’ una serie su teenagers zombie che risolvono casi di polizia. Daje Aldo: Critica Questo, Ciack 2…Parti Aldooo».

«Salve, sono Aldo Aldini. Oggi vi parlerò di un film che ha scritto la storia…».

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MORALES MORTALES - RICO View More

di Giacomo Cavaliere

Illustrazione di Riccardo Corciolani

Questa storia è fin troppo vera.
La storia di un viaggio incredibile.
E inizia così: non saremmo mai dovuti partire.

Eravamo convinti di aver bisogno di qualcosa di maestoso per salvarci dal naufragio.
L’Amazzonia sembrava esserlo abbastanza.
Non credo volessimo davvero partire. Se anche lo volevamo, non volevamo farlo insieme.
Non ho mai saputo perché Flora avesse deciso di imbarcarsi in una relazione tanto intensa con qualcuno che non voleva intorno, come facesse ad amare o come potesse essere tanto brava a farmici sentire – se esisteva una differenza.
Anche nel migliore degli scenari, avremmo lavato tutto con la soda appena tornati a casa.

Scappammo da Lima con un aerotaxi per Pucallpa dopo aver depennato il combattimento tra tacchini dalla lista di cose da vedere almeno una volta nella vita.

Poi, arrivò la pioggia.
Un diluvio alieno, all’inizio di ottobre. L’esondazione dell’Ucayali ci tenne bloccati per una settimana a trenta chilometri dalla città. Restammo con l’acqua alle anche per quaranta giorni prima di tirare i remi in barca. Era il suo primo viaggio intercontinentale, ma sembrava reggere molto meglio di me. Se la godeva. Aveva sentito il morso delle sanguisughe sulla pelle e aveva imparato i trucchi per togliersele, gonfiandosi di un legittimo senso d’onnipotenza. Così lontana da casa, immersa nella putredine, aveva scoperto di poter contare su forze maggiore di quanto credesse.
La sua soddisfazione rese tutto più bello. Credo che la cosa, in fondo, mi irritasse, pungolandomi lì dove gli altri maschietti tenevano orgoglio.
Cercai il modo più avventuroso per tornare a Lima, non pioveva più e gli autobus avevano ripreso a circolare.

Mi risposero tutti la stessa cosa: Morales Mortales.

Andai in taxi alla stazione e cercai il gabbiotto della compagnia.
Non lo trovai e chiesi informazioni. Ridevano ogni volta che la nominavo.
Mi indicarono la biglietteria: Empresa Morales.
Comprai due biglietti a centosei sol de oro.
La Morales non garantiva la durata del viaggio, le soste duravano quel che duravano. Andai a mangiare da solo, l’ultima papa alla huancaìna della mia vita; riesco quasi a far girare in bocca il sapore, come potrei evocare quello di Flora. Più o meno.
Finito di mangiare, domandai al barista perché la chiamassero così.

«Perché si chiama Morales,» disse lui. «E perché gli autisti si ubriacano e finiscono nei burroni».

Io risi, ma lui no.

Gli autobus del giorno dopo erano pieni.
La ragazza non sapeva, ma potevano esserlo anche quelli del giorno dopo ancora.
E, in effetti, lo erano.
La notte mi svegliai per un attacco di tosse che non si riuscii a placare neanche dando fondo a tutta l’acqua della camera. Mi esplosero i capillari dell’occhio: credevo davvero che sarei morto di tosse.
Flora si accorse che avevo la febbre e m’imbottì di aspirina e chinino.

L’autobus scollinò il dosso ansimando. La carrozzeria crepitava ad ogni bozzo del terreno.
Gli occhioni di Flora si spalancarono come mai prima d’allora alla vista di quell’incubo su ruote.
Quando li rivolse contro di me, mi pugnalarono con un odio che non li avevo mai visti indossare. 

Era una carcassa recuperata da uno dei tanti cimiteri per ruderi che si diceva la General Motors avesse scavato in tutto il continente. Restammo impantanati tutto il pomeriggio prima che arrivasse un trattore con assi e corde per tirarci fuori. Ripartimmo, e, per un po’, andò bene. Iniziammo a salire.
Sentivamo i massi staccarsi dalla parete e fracassarsi al suolo al passaggio del mezzo.
La strada disegnava una spirale attorno alle montagne per assottigliarsi in un cornicione man mano che approcciava la cima. Flora teneva la testolina schiacciata tra le cosce, i quadricipiti scolpiti nel marmo del terrore e degli esercizi di teatro.

«Vorrei che avessi davvero qualcosa di cui vendicarti» disse lei senza guardarmi.

Un signore ubriaco di Tik-Tak tenne a raccontare ad alta voce le mirabili gesta della compagnia. Continuava a colpire Flora sulla spalla col culo della bottiglia, non sapeva capacitarsi che una persona nel suo stato non volesse bere. Aveva smaltito la sbornia precedente scarnificandosi i calli sul piede con un pezzetto di ferro strappato al sedile, riprese con l’altro non appena si ritrovò senza interlocutori.
Avevo la febbre troppo alta per intervenire. Anche fosse, non avrei saputo come.

Ci fermammo per la notte in un villaggio andino di quattro case e un distributore.
L’autista trafficò col telefono per raggiungere qualcuno della compagnia a Lima, forse per ricevere notizie sulle previsioni del tempo. Il riscaldamento del pullman consumò un pieno per tenerci in vita fino all’alba. Tenne le birre in fresco sul tettuccio prelevandole tre alla volta finché non riuscì a concedersi un po’ di riposo sul sedile in metallo. Dovemmo fermarci anche la notte dopo, a duemila e rotti metri, e dovemmo aspettare il mattino per scoprirne il motivo. Arrancammo a passo d’uomo per un chilometro e mezzo.
La curiosità fece precipitare lo sguardo giù dalla scarpata a lato della strada. Incastrato sul fondo un cartoccio di lamiere con gli stessi colori del nostro giurassico mezzo di trasporto.
«Morales Mortales» esultò il tizio accanto a Flora, sventolando una nuova, pienissima bottiglia di Tik-Tak. L’autista rallentò, scese e baciò la croce d’oro che aveva al collo.
Ingurgitò un’altra birra mentre parlottava con l’unico poliziotto presente.
Ripartimmo solo dopo che le signore finirono di pregare.

Impiegammo altre due notti per arrivare a Lima.
Ero quasi del tutto incosciente quando mi portarono in ospedale.
M’ero beccato una parassita che lì chiamavano vinchuca.
A Città del Messico sostennero che avevo una cosa chiamata chinche.
A Parigi, scoprii che entrambi avevano entrambi ragione, ma in due lingue diverse.
Immagino che Flora sia salita sul primo aereo.
Comunque, non la rividi più.

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Ilaria Salvatori - Fermata Leone IV View More

di Claudio Ferrucci

Illustrazione di Ilaria Salvatori

Leone IV doveva essere una commedia in versi del 840 d.C.
Scritta (ma mai terminata) dallo stesso Leone, terzo sequel dei precedenti Leone I, II e III (rimasti in versione manoscritta), vedeva come protagonista Leone stesso, futuro Papa.

L’idea nacque durante gli anni dell’escalation araba di stampo fondamentalista (i gruppi terroristi conosciuti come Saraceni). Erano anni di pressioni militari e finanziarie contro il mondo cattolico, perpetuate da quello che l’allora re d’Italia, Lotario, definì come Impero del Male.

Il testo ha come oggetto la rivalità tra Leone, prode italotedesco campione del mondo cattolico, e Imād al-Dīn Zengi, campione saraceno.
Il manoscritto regala nel finale un messaggio di pace.
Al termine della sfida, Leone si lancia in un accorato discorso in versi dove condanna l’odio tra cattolici e saraceni e addirittura punta il dito contro le antiche crociate.

Tra i passaggi memorabili che avrebbero dovuto rendere famoso questo episodio, si ricordano: gli ardui e faticosi allenamenti di Leone, messo di fronte non solo agli sforzi fisici ma anche a calamità naturali non indifferenti; la scena in cui l’eroe corre tra le macerie di un’ala del Colosseo staccatasi durante un forte terremoto; il momento in cui, a mani nude, aiuta i soccorritori durante l’incendio di Borgo (scena ritratta in un affresco diventato un vero e proprio cult per gli amanti del genere).

La serie doveva proseguire con Leone V, ma a causa della snervante pressione derivata dall’editore che pretendeva tutti e cinque gli episodi in così poco tempo, all’esiguo budget e al fatto che Leone in quello stesso periodo fu eletto, appunto, Papa, l’opera non conobbe mai epilogo nè pubblicazoine.

In ricordo di quello che avrebbe potuto essere e che non fu, venne eretta a Roma una fermata del 23.

Ah sì, secoli dopo il manoscritto originale di tutti e quattro gli episodi fu ritrovato da un tal Silvestro Stallone il quale lo donò a suo nipote, futuro attore e regista italo-statunitense che ne fu talmente ispirato da crearne un’opera minore, riadattata come serie cinematografica.

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