Tre colline

di Silvia Roncucci

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Nella mia città i mezzi pubblici odorano di proletariato.
Forse per questo li sento familiari, perché è da lì che vengo, dal popolo.
Ed è verso ciò che vedo dal finestrino appena l’autobus affronta la salita, vale a dire il cimitero, che sono diretta. Non che ci stia andando proprio ora, intendo che prima o poi ci finirò; anzi, vista l’età che mi porto in giro, se quel giorno fosse oggi stesso faticherei a nascondere la sorpresa.  

In garage riposa la vergognosa traditrice che stamani non ha voluto saperne di mettersi in moto. I telefoni che ho contattato non hanno strillato abbastanza da risvegliare l’interesse dei proprietari, tassisti inclusi. In casa ormai l’unica voce che sento è quella dei pensieri sfuggiti al borbottio interiore, e quindi, hop: non rimaneva che saltare sul primo autobus per scongiurare il rischio di mancare al mio appuntamento.

L’ho fatto con uno slancio goffo che per poco la tagliola della portiera non mi serrava tra i suoi denti.
Ora però queste vibrazioni sulla strada butterata, questo sobbalzare sul sedile a ogni curva come un nevrastenico a ogni soffio di vento un po’ più deciso, in fondo mi ravvivano, mi smuovono dopo giornate fastidiose, infiacchite dalle temperature subsahariane. Che non lasciano tregua neanche qui dentro, dove i finestrini si aprono cauti, indecisi se lasciar passare un soffio d’aria o respingere l’orda di calore per i pochi, audaci passeggeri.
L’autista sbaglia la traiettoria di una curva e per un soffio non vengo catapultata addosso alla signora sull’altro lato del corridoio. La sua lingua si scioglie velocissima al cellulare tra le vocali latine, la voce cerca di mantenersi sommessa ma l’idioma che parla non è adatto ai sussurri.
Piagnucola «mi amor» e quando riattacca informa una slava imperiosa davanti a lei che si tratta di suo marito, e chi sennò. Racconta che, da quando si trova migliaia di chilometri lontano da lui, dorme sonni fanciulleschi e che un uomo nei paraggi lo vorrebbe solo se fosse ricco da far schifo e generoso quanto basta. Però continua a chiamarlo «mi amor» e da come la guarda, forse anche la slava vorrebbe chiederle perché.

Io invece le direi che poco importa che con mio marito siamo stati generosi l’un l’altro se ora gli ettari occupati dal nostro appartamento sono invasi da scintillanti chincaglierie di cui, mi vergogno ad ammetterlo, non sopporto la vista. E che la sensazione che il letto sia di una taglia più grande non mi lascia riposare.

L’autista fronteggia la seconda delle tre colline su cui è adagiata la città e si ferma a metà per far salire un piccolo gruppo di anziani; da come traballano verso il fondo ho la certezza che almeno loro siano più vecchi di me. Sapevo che l’avrei vista far capolino da dietro la fermata: la casa.
Tre stanze affacciate sulla strada, Siberia d’inverno, i Tropici d’estate. Il giardinetto spelacchiato, l’innaffiatoio affranto in un angolo, il basilico in lotta contro una coppia distratta come noi. L’intonaco di un arancione accecante che concessi a mio marito purché se lo stendesse da solo. Entrando la prima volta per poco non inciampava nello strascico; dicono sia un classico, chissà quante spose tengono nell’armadio un abito bianco con su un’impronta numero 47. A quel trasloco ne sono seguiti altri tre, sempre più pretenziosi, sempre più alla deriva.
Come noi l’uno dall’altra, finché il tempo non gli ha fatto lo sgambetto.

L’autobus borbotta per ripartire, precipita in discesa, arranca sull’ultima salita: si vede che non se la sente di arrivare all’ospedale, però ormai ha preso l’impegno. Mi assicuro che l’autista abbia terminato le complesse operazioni di frenata prima di avviarmi all’uscita. Ora è la bionda imponente che parla al cellulare, la voce è un sibilo. Da come fissa il finestrino, l’altra donna deve trovarsi con la testa in Sud America.
Un uomo si avvicina alla portiera, mi riconosce, saluta con un sorriso incerto.
«Facciamo la strada insieme?» chiede.
Rispondo di sì, andiamo nello stesso posto.
«Stavo meglio seduto»  osserva dopo aver percorso qualche metro tra lamenti e sospiri.
«La capisco. Neanch’io cammino più tanto bene.»
«L’autista però era un po’ distratto.»

«Spericolato direi!»
Sorride, chiede da quant’è che mi dedico al volontariato, dice che si vede che ci so fare con i piccoli. Lavoravo come maestra? Quanti nipoti ho?
«Da due anni. Avevamo un’agenzia immobiliare. Niente figli, né nipoti. Per questo ho tanta pazienza: non l’ho sprecata con dei bambini miei!»

Ridiamo insieme, camminiamo fino alla biblioteca dell’ospedale.
I ragazzi stanno già aspettando.
Yasmine porta un foulard rosso a pois sul capo, Larysa uno floreale, nell’ultima fila la testa glabra di Luigi si intravede sotto il berretto dell’Inter. Glielo ha regalato il nonno, che oggi è arrivato con me.
Racconto a Luigi che lui mi ha riconosciuta subito, mentre io sono la solita sbadata.
Tutti gli altri mi rimproverano per il ritardo, ridacchiano, si divertono a dire che le mie sono scuse, che devo ammettere di essere una dormigliona, e io li lascio fare mentre cerco cosa leggere.
«Smettetela, è davvero colpa della macchina che non è partita!» spiego prima di cominciare. «Non avete idea di quanto ci ha messo l’autobus ad arrivare…una vita!»

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