La vita, l’universo e tutto quanto

di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Alla banchina non c’è nessuno, solo io, in attesa.

Sono cresciuto con i miti greci e l’idea che l’unica cosa che conti davvero è farsi ricordare.
Se non potevo essere Achille sarei stato Omero.

Per ridimensionare il mio delirio di grandezza papà ci teneva a ricordarmi la seconda legge della termodinamica: nulla esiste per sempre e col passare dei secoli non rimarrà niente, neanche la sabbia del Colosseo; la Terra stessa scomparirà nei mutamenti dell’Universo, indifferente alle nostre pretese di grandezza.

Mio padre come Shelley in Ozymandias.

Il poeta mette alla berlina il delirio del Faraone, il Dio incarnato che vantava di aver fatto qualcosa tanto grandiosa da non poter essere eguagliata o cancellata. La parte più citata della poesia è l’ultima: “Ammirate, o potenti, la mia opera e disperate!”, vogliamo tutti dimenticare la prima dove, di questo “Re dei Re”, si dice che non si sa pressoché nulla e di lui, delle sue opere, della sua vanità, non resta che una mezza statua abbandonata al deserto.

L’entropia cresce, il tempo passa, il tram no.

Non sono in grado di razionalizzare la vastità dell’Universo e neanche il fatto che prima non esistiamo e dopo la vita smettiamo di esistere. Da giovane era causa di insonnia, attacchi di panico e urla notturne. Adesso non ho più né il tempo né la presunzione di razionalizzare certe cose e smetto di pensarci.
Nei sogni l’idea intrusiva della mia stessa scomparsa riemerge e mi pone davanti l’inevitabile condizione di essere consapevole che non esisterò più. Ammiro l’opera della natura, il meccanismo di quel che sono che rallenta e si spegne, ma non dispero, mi lascio andare ad una placida rassegnazione.

Al risveglio c’è il freddo, il lavoro e la pipì da fare.

Ogni mattina rimpiango di non essere morto nel sonno.

Aspetto il tram come si aspetta la morte: impotente, indifeso.

Qualche giorno fa mi sono svegliato e ho abbracciato la mia compagna.
Da lì a poco mi sarei riaddormentato, cadendo nell’incoscienza. Quell’abbraccio sarebbe stato inutile e privo di senso in quanto, il tempo di un battito di ciglia, avrei smesso di trarre piacere da quel gesto, del quale, lei, addormentata com’era, non aveva contezza. Ma andava bene così.
Prima non esistevo e, dopo la vita, non esisterò, quello che c’è in mezzo è una serie di azioni senza peso, senza conseguenza, senza importanza.

Negli ultimi istanti prima di tornare incosciente ho immaginato noi due diventare concime e poi alberi con radici intrecciate. E Va bene così. Meglio diventare alberi e poi niente che Omero.
Del resto, Omero non è mai esistito.