MORALES MORTALES - RICO

Morales Mortales

di Giacomo Cavaliere

Illustrazione di Riccardo Corciolani

Questa storia è fin troppo vera.
La storia di un viaggio incredibile.
E inizia così: non saremmo mai dovuti partire.

Eravamo convinti di aver bisogno di qualcosa di maestoso per salvarci dal naufragio.
L’Amazzonia sembrava esserlo abbastanza.
Non credo volessimo davvero partire. Se anche lo volevamo, non volevamo farlo insieme.
Non ho mai saputo perché Flora avesse deciso di imbarcarsi in una relazione tanto intensa con qualcuno che non voleva intorno, come facesse ad amare o come potesse essere tanto brava a farmici sentire – se esisteva una differenza.
Anche nel migliore degli scenari, avremmo lavato tutto con la soda appena tornati a casa.

Scappammo da Lima con un aerotaxi per Pucallpa dopo aver depennato il combattimento tra tacchini dalla lista di cose da vedere almeno una volta nella vita.

Poi, arrivò la pioggia.
Un diluvio alieno, all’inizio di ottobre. L’esondazione dell’Ucayali ci tenne bloccati per una settimana a trenta chilometri dalla città. Restammo con l’acqua alle anche per quaranta giorni prima di tirare i remi in barca. Era il suo primo viaggio intercontinentale, ma sembrava reggere molto meglio di me. Se la godeva. Aveva sentito il morso delle sanguisughe sulla pelle e aveva imparato i trucchi per togliersele, gonfiandosi di un legittimo senso d’onnipotenza. Così lontana da casa, immersa nella putredine, aveva scoperto di poter contare su forze maggiore di quanto credesse.
La sua soddisfazione rese tutto più bello. Credo che la cosa, in fondo, mi irritasse, pungolandomi lì dove gli altri maschietti tenevano orgoglio.
Cercai il modo più avventuroso per tornare a Lima, non pioveva più e gli autobus avevano ripreso a circolare.

Mi risposero tutti la stessa cosa: Morales Mortales.

Andai in taxi alla stazione e cercai il gabbiotto della compagnia.
Non lo trovai e chiesi informazioni. Ridevano ogni volta che la nominavo.
Mi indicarono la biglietteria: Empresa Morales.
Comprai due biglietti a centosei sol de oro.
La Morales non garantiva la durata del viaggio, le soste duravano quel che duravano. Andai a mangiare da solo, l’ultima papa alla huancaìna della mia vita; riesco quasi a far girare in bocca il sapore, come potrei evocare quello di Flora. Più o meno.
Finito di mangiare, domandai al barista perché la chiamassero così.

«Perché si chiama Morales,» disse lui. «E perché gli autisti si ubriacano e finiscono nei burroni».

Io risi, ma lui no.

Gli autobus del giorno dopo erano pieni.
La ragazza non sapeva, ma potevano esserlo anche quelli del giorno dopo ancora.
E, in effetti, lo erano.
La notte mi svegliai per un attacco di tosse che non si riuscii a placare neanche dando fondo a tutta l’acqua della camera. Mi esplosero i capillari dell’occhio: credevo davvero che sarei morto di tosse.
Flora si accorse che avevo la febbre e m’imbottì di aspirina e chinino.

L’autobus scollinò il dosso ansimando. La carrozzeria crepitava ad ogni bozzo del terreno.
Gli occhioni di Flora si spalancarono come mai prima d’allora alla vista di quell’incubo su ruote.
Quando li rivolse contro di me, mi pugnalarono con un odio che non li avevo mai visti indossare. 

Era una carcassa recuperata da uno dei tanti cimiteri per ruderi che si diceva la General Motors avesse scavato in tutto il continente. Restammo impantanati tutto il pomeriggio prima che arrivasse un trattore con assi e corde per tirarci fuori. Ripartimmo, e, per un po’, andò bene. Iniziammo a salire.
Sentivamo i massi staccarsi dalla parete e fracassarsi al suolo al passaggio del mezzo.
La strada disegnava una spirale attorno alle montagne per assottigliarsi in un cornicione man mano che approcciava la cima. Flora teneva la testolina schiacciata tra le cosce, i quadricipiti scolpiti nel marmo del terrore e degli esercizi di teatro.

«Vorrei che avessi davvero qualcosa di cui vendicarti» disse lei senza guardarmi.

Un signore ubriaco di Tik-Tak tenne a raccontare ad alta voce le mirabili gesta della compagnia. Continuava a colpire Flora sulla spalla col culo della bottiglia, non sapeva capacitarsi che una persona nel suo stato non volesse bere. Aveva smaltito la sbornia precedente scarnificandosi i calli sul piede con un pezzetto di ferro strappato al sedile, riprese con l’altro non appena si ritrovò senza interlocutori.
Avevo la febbre troppo alta per intervenire. Anche fosse, non avrei saputo come.

Ci fermammo per la notte in un villaggio andino di quattro case e un distributore.
L’autista trafficò col telefono per raggiungere qualcuno della compagnia a Lima, forse per ricevere notizie sulle previsioni del tempo. Il riscaldamento del pullman consumò un pieno per tenerci in vita fino all’alba. Tenne le birre in fresco sul tettuccio prelevandole tre alla volta finché non riuscì a concedersi un po’ di riposo sul sedile in metallo. Dovemmo fermarci anche la notte dopo, a duemila e rotti metri, e dovemmo aspettare il mattino per scoprirne il motivo. Arrancammo a passo d’uomo per un chilometro e mezzo.
La curiosità fece precipitare lo sguardo giù dalla scarpata a lato della strada. Incastrato sul fondo un cartoccio di lamiere con gli stessi colori del nostro giurassico mezzo di trasporto.
«Morales Mortales» esultò il tizio accanto a Flora, sventolando una nuova, pienissima bottiglia di Tik-Tak. L’autista rallentò, scese e baciò la croce d’oro che aveva al collo.
Ingurgitò un’altra birra mentre parlottava con l’unico poliziotto presente.
Ripartimmo solo dopo che le signore finirono di pregare.

Impiegammo altre due notti per arrivare a Lima.
Ero quasi del tutto incosciente quando mi portarono in ospedale.
M’ero beccato una parassita che lì chiamavano vinchuca.
A Città del Messico sostennero che avevo una cosa chiamata chinche.
A Parigi, scoprii che entrambi avevano entrambi ragione, ma in due lingue diverse.
Immagino che Flora sia salita sul primo aereo.
Comunque, non la rividi più.

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