Outras Eras

di Denise Ciampi
Illustrazione di Anastasia Coppola

L’Elétrico 28 sferraglia per le strade strette e ripide dei quartieri vecchi.
Arranca e scivola nella sua antica veste bianca e gialla, indifferente alla modernità sotterranea della metropolitana.

Maria, come quasi ogni sera, è salita troppo distante da Martim Moniz per poter sperare di trovare un posto a sedere. Viaggia in piedi, accompagnando la corsa sulle rotaie con pesanti oscillazioni del suo corpo. Guarda distrattamente il paesaggio consueto dei vicoli: le case che si offrono allo stupore dei turisti, vicinissime e inafferrabili nelle discontinuità del percorso.

Non trascura di mantenersi ben assicurata all’apposito supporto, mentre con una mano tiene davanti a sé la borsa. Nei luoghi frequentati dai turisti si deve stare attenti: le è già capitato di essere derubata, proprio su quello stesso tram. Eppure lei non ha certo l’aria della ricca europea o della nordamericana in vacanza, ma, evidentemente, chi si dedica a quell’attività non va troppo per il sottile quando capita l’occasione.

Porta lo sguardo alle sue caviglie, che emergono intorpidite dalle scarpe dismesse dalla governante della casa dove va a servizio. Cerca di riattivare la circolazione con piccoli movimenti sul posto, intanto le torna in mente quel vecchio fatto: si trovava in Portogallo da poco, aveva appena ottenuto il permesso di soggiorno e le era toccato andare alla polizia per denunciarne il furto. Ricorda ancora lo sguardo accusatorio del commissario, il modo in cui si era sentita a disagio, quasi fosse lei la ladra.

Si guarda ancora le caviglie gonfie e pensa che sarebbe bello potersi togliere quelle scarpe troppo strette. Si lascia sfuggire un sorriso malinconico pensando a un concerto di Cesária Évora, la “diva scalza”, che ha visto una volta in TV.
Era stato il suo datore di lavoro a invitarla a sedersi sul divano per guardarlo.
Si era seduta con cautela, con il timore di ammaccare il velluto o di macchiarlo.

Il signor Duarte in quell’occasione si era messo a parlare della “saudade” e a farle domande sugli usi di Capo Verde, accennando a concetti che per lei erano troppo difficili.
Aveva parlato di “matrifocalità”, chiedendo a Maria come fosse la vita delle donne nella sua terra d’origine. Lei non  sapeva bene cosa rispondere, ma si era commossa pensando ai propri figli, che aveva affidato a un’altra donna per poter partire.

«Sono le donne a provvedere ai bambini, anche quando si trovano lontane da casa. Ci sono quelle che partono e quelle che restano, la vita è difficile per tutte», era riuscita a dire.

Improvvisamente era stata colta dalla rabbia, pensando che, anche se è stata abolita la schiavitù, lo sfruttamento delle donne non è mai finito: le erano venuti in mente i volti di donne picchiate e abusate, le espressioni falsamente allegre di giovani sfruttate sessualmente.

«Desculpe», aveva sussurrato inclinando il capo con rispetto. Si era alzata dal divano per tornare alle sue faccende, con le note della morna che riempivano ancora la casa straziandole il cuore.

Finalmente si è liberato un posto, in fondo alla vettura.
Maria lo raggiunge, accarezzando con lo sguardo il fiume Tago, che appare in lontananza, dal finestrino.
Il Ponte 25 Aprile è ancora lì, a ricordare la fine della dittatura, Maria lo saluta come un vecchio amico.

L’Elétrico 28 prosegue, ondivago, la propria corsa.
Maria guarda gli uomini e le donne: i neri, i mulatti e i bianchi.
Avverte lo strazio di tutta l’umanità, incatenata alla storia.
Sente sul suo corpo il peso degli squilibri provocati dal colonialismo, abbandona le membra stanche sul sedile.

Il vecchio serpente è una nave, che si prepara a fare scalo nelle isole di Capo Verde. Ha occhi dipinti sulla chiglia, per tenere lontani gli spiriti maligni. Al timone ci sono dei ragazzini. Mariana, la figlia minore di Maria, ha aperto una grande carta geografica che le ricade sul viso, ride e indica la direzione.

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