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di Silvia Cestoni

La vita

Nasce nel 1908 e fu da subito considerato un irregolare, un ribelle e un precoce come Carlo Bernari.
A 15 anni scappa di casa e a 21 approda a Solaria, rivista letteraria fondata a Firenze da Aldo Carocci nel 1926.
Il padre era ferroviere, spesso costretto a spostarsi per la lavoro: la famiglia lo seguiva e di questi spostamenti ci sono testimonianze in “Conversazioni”. Il padre pur non avendo studiato amava la letteratura, in particolare Shakespeare e Defoe, e leggeva al figlio “Sogno di una notte di mezza estate” e “Robinson Crusoe”: saranno testi che influenzeranno l’infanzia di Vittorini.
Frequenterà le scuole tecniche ma tra il 1923 e il 1924 interrompe gli studi, abbandona definitivamente casa e si trasferisce a Gorizia. Quindi si reca a Firenze dove entra in contatto con Curzio Malaparte, con il quale, in una prima fase, condividerà il pensiero politico e la fede fascista.
Malaparte lo farà entrare in varie riviste ( ad esempio “La conquista dello stato”) e in alcuni giornali: grazie a questa sua amicizia, incontra inoltre Enrico Falqui, critico affermato e dalle molte conoscenze, che lo introdurrà in riviste come “Italia letteraria”. Grazie all’amicizia con Falqui (che a differenza di Malapartenon era attivamente coinvolto all’interno del regime e delle azioni fasciste) e alla sua maturazione, Vittorini si allontana da Malaparte avvicinandosi alla rivista Solaria: questa rottura è sancita dall’articolo “Scarico di coscienza” in cui assume una posizione più moderata ma senza rinnegare il passato.  Vittorini critica però il provincialismo fascista e rivendica un panorama più ampio, di tipo europeo. Entrerà in Solaria come segretario di redazione e per guadagnare, inizialmente farà anche il correttore di bozze presso il reparto stampa, dove conoscerà un tipografo che gli insegnerà l’inglese. Si appassionerà così alla letteratura anglo- americana e ad autori come Anderson e Hemingway; sarà poi costretto a lasciare il lavoro per un avvelenamento da piombo.
Dopo l’esperienza a Solaria, troverà spazio presso le riviste “Nazione” e “Il Bargello”, dove Vittorini pubblicherà ogni settimana degli articoli, spesso violenti e molto critici: famoso è il pezzo uscito su “Il Bargello” a sua firma, dove di fatto “stronca” l’opera “Tre operai” di Bernari (nel quale riconobbe un’ impronta reazionaria).

Le polemiche e “Il garofano rosso”

Vittorini era un giovane pieno di ideali e ricco di grandi doti ma attorno a lui si scatenarono polemiche e delle rotture, a partire dal suo ingresso in Solaria. Egli causò, infatti, la prima chiusura della rivista con l’incidente de “Il Garofano Rosso”, cominciato a scrivere nel 1933. Il romanzo narra la storia di alcuni adolescenti fascisti in Sicilia, presentandola come un’avventura giovanile e un momento di crescita che si dipana attraverso l’azione politica, la quale si intreccia però con un’iniziazione sessuale presso delle prostitute in un bordello (Alessandro, il protagonista, si innamorerà di una prostituta). La censura interverrà per due motivi: 1) dal 1925 Giuseppe Bottai è il promotore del processo di regolarizzazione del Fascismo che attraverso una serie di leggi rendono il PNF un partito d’ordine; ciò imponeva un totale silenzio nei confronti di ciò che era accaduto negli anni dello squadrismo e il romanzo di Vittorini era incentrato proprio all’interno di quella fase, mettendo in luce più le azioni squadriste e offuscando il presunto valore ideale; 2) del 1929 è il concordato con la Santa Sede e il romanzo, nel quale non si parla di un amore puro che conduce ad una famiglia, ma di prostituzione e condotte considerate immorali, fu mal visto tanto che porterà al ritardo della pubblicazione (avvenuta solo nel 1948) e alla chiusura momentanea della rivista che poi chiuderà definitivamente i battenti nel 1936 a causa di un altro romanzo, “Lavorare stanca” di Pavese.

La guerra civile spagnola

La crisi ideologica di Vittorini arriverà con la guerra civile di Spagna nel 1936 per la quale si arruolarono molti nazisti tedeschi e fascisti italiani a sostegno di Franco. Vittorini entrò in una profonda crisi che lo coinvolge completamente e lo fece allontanare definitivamente dal fascismo. In questa situazione di crisi Vittorini scrive “Conversazioni in Sicilia”.

“Conversazioni in Sicilia”

“Conversazioni in Sicilia” si presenta in prima persona e si configura come un modo dell’autore di analizzare la sua crisi e di uscirne. Vi dominano dialoghi privi di senso, comprensibili solo se inseriti in una rete di allusioni. Racconta un viaggio tutto mentale, morale e psicologico che si presenta come un ritorno alle proprie origini, ovvero alla terra natale, la Sicilia. Proprio con il dialogo ci si confronta con gli altri, che si fa esperienza, anche se alla fine il protagonista non rivelerà come uscire da questa sua crisi.

Si tratta di un romanzo che risente molto dell’influenza della letteratura americana: la passione per l’America nasce proprio con Vittorini e Pavese che inaugurano il “mito dell’America” negli anni di poco antecedenti la guerra. Molti intellettuali, infatti, come Montale, Pavese, Bernari, cercheranno di emigrare in America ma non ci riusciranno. Essa viene vista come un “paese giovane”, a differenza dell’Italia appesantita dalla storia e dalle ideologie.

I dialoghi, gli spunti e le allusioni

Il romanzo si sviluppa attraverso i dialoghi; non succede nulla di particolare ma è comunque un romanzo veloce. La presenza massiccia dei dialoghi richiama la maieutica, quella tecnica che prevedeva la scoperta della verità attraverso la dialettica. L’opera è storia di incontri (l’arrotino Calogero, il venditore di panni Ezechiele, Demetrio, ecc) e di dialoghi allusivi. Un tema centrale è quello del mondo offeso: La delusione del protagonista si scioglie in un pianto mentre è circondato da tutti i personaggi che ha incontrato durante il viaggio, che ovviamente è impossibile che siano lì, ma sono percezioni e ritratti mentali con i quali si confronta.

Storia e struttura del testo

Il romanzo esce a puntate e non integralmente dal ’38 al ’39 su “Letteratura”. Uscirà in volume nel 1941 con il titolo “Nome e lacrime” presso l’editore Parenti e poi presso Bonsanti con  il titolo originale. Vi è annesso anche un finto reportage sulla guerra di Spagna scritto da Vittorini stesso; le illustrazioni sono di Renato Guttuso. Il romanzo è diviso in cinque parti più l’epilogo e in appendice troviamo il reportage dal titolo “La guerra spagnola”

Elementi del romanzo: un leitmotiv che torna spesso nel romanzo è quello della “quiete della non speranza”. Tutto il viaggio in treno dura solo mezza pagina e Vittorini gioca molto sulla funzione tempo. Il vero viaggio è in Sicilia e non quello verso la Sicilia: il racconto vero e proprio, infatti, comincia sul battello che attraversa lo stretto.

I personaggi: i personaggi che incontra durante il viaggio non hanno nome, come Con i baffi e Senza baffi, l’uomo delle arance, il Gran Lombardo. Sono tutti personaggi simbolici che porteranno a ricostruire l’infanzia del protagonista Silverio: è dunque un viaggio nella propria memoria.

Il genere umano offeso: dal discorso sul mondo offeso si passa a quello sul genere umano offeso e da questa considerazione si giunge a considerare se tutti, sia oppressori che vittime, siano uomini. La risposta è che le vittime sono più uomini degli altri ed è dunque una dimensione morale quella in cui si muovono i personaggi, quasi religiosa.

“Uomini e no”

Questo discorso sarà ripreso da Vittorini anche in “Uomini e no” che racconta l’esperienza della Resistenza a Milano. Questo romanzo si sviluppa su un binario manicheo, ovvero la divisione tra bene e male. Inoltre vi è sia una dimensione reale, che è quella della guerra, sia una dimensione simbolica. I personaggi, anche in questo caso, non hanno nomi e, ad esempio, un generale fascista viene chiamato “cane nero”, nome che indica l’appartenenza al genere bestiale e non umano. Nel finale vediamo un soldato che mira ad un tedesco e, mentre sta per sparargli, guarda i suoi occhi e, vedendo l’uomo, l’essere umano in quanto tal non riesce a sparare.

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di Silvia Cestoni

La vita

Nasce a Milano nel 1893 e muore a Roma nel 1973. Il padre era commerciante e la madre, di origine ungherese, era un’insegnante e poi direttrice. Fu molto legato al fratello minore Enrico, e la sua morte in guerra sarà per lui un grande trauma. Nel 1909 perde il padre che lascia la famiglia in miseria, anche perché quest’ultima cerca di continuare a mantenere un livello di vita agiato per dimostrare di non essere dei borghesi decaduti; inoltre il padre aveva fatto degli investimenti sbagliati e comprato una villa in Brianza (assai odiata da Gadda) per mantenere viva l’apparenza del benessere borghese. Fin dall’adolescenza Gadda ambisce ad essere uno scrittore ma sarà costretto dalla famiglia ad intraprendere gli studi di ingegneria, poi abbandonati per arruolarsi come volontario nella Grande Guerra presso il corpo degli Alpini. Gadda era un uomo metodico e rigoroso, con un’alta idea e grande stima della patria. Stima e illusione che perderà proprio a causa dell’esperienza della guerra dove vede l’incapacità dell’esercito italiano e l’eccessiva arretratezza. Sarà per lui una grande delusione, che tornerà nelle sue opere dove emergono numerose invettive e sarcasmi. Un grande trauma sarà per Gadda la disfatta di Caporetto, durante la quale sarà fatto prigioniero (che, allora, rappresentava un grande disonore che rasentava il tradimento) e portato in un campo di prigionia vicino Francoforte dove scriverà “Quaderni di prigionia” (che seguono “Quaderni di guerra”) che saranno pubblicati postumi e solo parzialmente. Al suo ritorno in Italia verrà a sapere della morte del fratello e questo sarà l’altro suo grande trauma. Nel 1919 intraprende l’attività di ingegnere viaggiano molto, anche in Argentina, ma la sua ambizione resterà comunque la scrittura. Tornato in Italia, il suo viaggio in Sud America sarà da ispirazione per la “Cognizione del dolore”.

Il mondo come caos

Gadda vede nel mondo un disordine a cui è possibile porre rimedio: il mondo è caos. Per Gadda il mondo è un pasticcio, un gomitolo, la vita è un “gliommero” ( una matassa ingarbugliata): l’uomo è immerso appieno in questo caos e quindi può averne una visione completa. Nonostante questo non deve mai smettere di cercare il capo della matassa (quest’idea del gliommero richiama il labirinto di Calvino dove l’uomo cerca una via d’uscita). La concezione gaddiana rappresenta il punto estremo della crisi.

“La Cognizione del dolore”, struttura dell’opera.

Il romanzo è composto da un saggio introduttivo del critico Gianfranco Contini, un’introduzione, la prima parte, la seconda parte e la poesia “Autunno”. Emerge una prima parte di stampo saggistico per poi entrare nel romanzo vero e proprio, di cui fa parte “Autunno”. Ma in realtà il testo è unitario: Reneè Genet scrive “Palinsesto” dove analizza la forma del testo, dicendo che quest’ultimo non è formato solo dal racconto. Egli parla di peritesto: ovvero gli elementi intorno al testo, come la copertina, l’indice, ecc; paratesto: esso non è solo ciò che integra il testo (come il saggio e l’introduzione) ma anche le note a piè di pagina e quelli che Gadda chiama i “chiarimenti indispensabili”; le note non sono parte del romanzo in senso stretto (nelle note troviamo anche citazioni da altri autori). Il romanzo è diviso in due parti: la prima e la seconda parte, ognuna delle quali è divisa in “tratti”

Intreccio e dimensione temporale

L’intreccio del romanzo non vede uno sviluppo rettilineo, ma neanche uno sviluppo spezzato da deviazioni, poiché non vi è solo una storia ma tante storie che si intrecciano. Spesso vengono fuori episodi del passato: il vero racconto si sviluppa in una profondità temporale in cui il passato ancora agisce sul presente. Il tempo è fondamentale e domina in verticale, corrispondendo alla memoria e all’inconscio.

Le prime pagine del romanzo

Gadda dà immediatamente delle coordinate temporali reali (1925 – 1933) e spaziali (queste ultime fantastiche poiché la vicenda è ambientata nel fittizio paese di Maradagal). Inizia spiegando che i cittadini potevano scegliere se pagare gli istituti di vigilanza notturni oppure no; descrive la difficile situazione economica; descrive le numerose malattie, come la Peronospora Banzavois (una malattia del granoturco). Dopo aver insistito su queste disgrazie cita la Brianza, alla quale il Maradagal somiglia molto: è infatti una parodia della descrizione positiva che fa Manzoni della Brianza. Inoltre, la descrizione di Gadda è allegorica: la pianta erosa è anche una pianta umanizzata e rappresenta il protagonista dell’opera, Gonzalo, colpito da numerosi mali. Viene poi narrato il conflitto tra Maradagal e il paese limitrofo Parapagàl, con un riferimento agli indios: è solo lì che capiamo che ci troviamo nel Sud America. Spesso emerge l’umorismo nero di Gadda: descrivendo la capitale Mastufazio egli descrive lo scenario dominato da una catena montuosa, quella del monte Serruchòn che richiama il Resegone manzoniano. Il testo è pieno di figure retoriche come la sinestesia, e spesso Gadda ironizza su se stesso

Il barocco linguistico e il significato della luce

Interessante dal punto di vista linguistico è l’utilizzo smodato da parte di Gadda di parole e immagini: è il “troppo pieno”, il cosiddetto Barocco gaddiano. Infatti, il racconto non procede, ma c’è soltanto un accumulo di parole, aggettivi, ecc.
Altro elemento importante in Gadda è la presenza della luce che, come dirà in seguito, rappresenta, affievolendosi, il cammino delle generazioni. La luce può essere vista come il simbolo della conoscenza (come nell’Illuminismo, ovvero l’illuminazione dell’oscurità e quindi l’eliminazione dell’ignoranza), ma anche come un avanzamento verso la felicità: qui invece, la luce recede  perché in realtà nulla cambia nella storia e il divenire è solo apparenza.

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di Silvia Cestoni

La Sicilia di Sciascia

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Caltanissetta, nel 1921.
La Sicilia sarà una costante sempre presente nelle sue opere e questo piccolo paese di montagna tornerà nel suo primo romanzo “Le parrocchie di Regalpetra”.
Sciascia, riferendosi alla Sicilia, parla di “similitudine”, ossia di uno stato mentale e una condizione esistenziale, di un legame ad una terra amata ma al tempo stesso detestata. Vivere in un isola vuol dire essere diversi, non essere congiunti al continente. La Sicilia è vista come  categoria mentale e anche conoscitiva: essa diventa specchio prima dell’Italia, poi dell’Europa, quindi del mondo.

Sciascia proviene da una famiglia modesta, prende il diploma magistrale e inizia la sua esperienza come maestro proprio a Racalmuto. Qui entra in contatto con ambienti intellettuali, scrive su giornali e riviste, conosce il giornalista Giuseppe Antornio Borgese e lo scrittore Vitaliano Brancanti, oltre a molti autori siciliani. Si trasferisce a Roma, entrando in politica e iscrivendosi al Pci, nelle cui fila sarà deputato regionale e poi comunale.

La politica e l’impegno sociale

L’opera “Le parrocchie di Regalpetra” rispecchia, negli intenti dell’autore, la delusione verso la politica e il partito in particolare. Sciascia resterà sempre orientato verso un pensiero progressista e di sinistra ma assumerà forti critiche nei confronti della politica nazionale e delle organizzazioni rigide dei partiti e questa sua vena lo innalzerà a scrittore con una vocazione civile e sociale.
Come autore resterà sempre molto legato ad Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini in particolare, la cui morte lo colpirà personalmente, tanto che “L’affaire Moro” (sua opera del 1978) ha come incipit una citazione di Pasolini tratta dall’articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975. Infatti, Sciascia fece parte della commissione parlamentare d’inchiesta relativa al rapimento di Aldo Moro, in cui redasse una relazione di minoranza che diventerà poi, appunto, l’opera “L’affaire moro”.

L’elemento storico

Sciascia non è solo un narratore ma scrive anche una serie di testi che rispondono alla sua vocazione della ricerca storica in archivi e biblioteche che lo porta a scrivere testi di cronaca e ricostruzioni di vicende storiche, rielaborati con una minuziosa ricerca di fonti d’archivio. Secondo Sciascia la storiografia ufficiale è viziata da una manipolazione ideologica: risponde alla necessità di confermare il potere dominante. La storia, dunque, è vista come manipolazione della verità e menzogna. Non si basa su affermazioni false, ma su fatti che vengono deliberatamente nascosti, avvenimenti dei quali si decide di non parlare, come dei documenti relativi a quest’ultimi. Il lavoro di storico e di filologo di Sciascia è quello di portare alla luce la verità attraverso i documenti verificabili.

La scomparsa di Ettore Majorana

Nascono così dei testi di difficile definizione dal punto di vista del genere letterario, come “La scomparsa di Ettore Majorana”, grande fisico che stava portando avanti esperimenti sull’energia atomica.
Un giorno, improvvisamente, lo scienziato sparisce: sembra che da Napoli si sia imbarcato sul traghetto per Palermo ma a lì non sarebbe mai arrivato. Si parlò di suicidio, ma non l’assenza di lettere o testimonianze lasceranno numerosi quesiti aperti. Sciascia conduce, così, tutta una serie di ricerche effettuando una ricostruzione della vicenda oltre a realizzare una sua inchiesta personale, arrivando ad una sua interpretazione dei fatti, dove la ricerca storica si unisce al genio narrativo e all’ intuizione. Sciascia infatti ha trovato tracce di un estraneo, rifugiatosi in un monastero di un paesino siciliano, da tutti noto come fisico e matematico ma che si dedica a lavori agricoli. Per Sciascia egli è Majorana che ha deciso di nascondersi al mondo dopo aver intuito l’orrore che la bomba atomica avrebbe sprigionato.
Le origini di questa fuga sono tutte tipicamente sciasciane, rappresentano, cioè, tutte le battaglie che l’autore porta avanti dall’inizio degli anni ’50. Del resto, egli afferma nella prefazione alla ristampa delle “Parrocchie”, che la letteratura non può non essere tendenza che si lega a questo o quel partito, ma deve essere promozione di coscienza civile, con funzione conoscitiva, ovvero di scoperta della realtà.

Lo smemorato di Collegno

Siamo di fronte anche qui a un fatto di cronaca, questa volta risalente ai primi anni ’20 e che per Sciascia diventa un occasione per discutere della “nozione di memoria”. Siamo a Collegno, piccolo paesino del Piemonte: nel 1926 viene trovato, nei pressi del cimitero di Torino, in stato confusionale, un uomo che vaneggia in preda a deliri e che aveva sottratto alcuni vasi funerari. Nessuno sa chi è, ha perso la memoria e viene portato in una clinica psichiatrica. I medici cercano di trovare elementi che portino alla sua identità e che possano dare delle risposte: l’unica cosa che sembra evidente è la natura colta dell’individuo. La sua foto viene pubblicata sui giornali e due donne lo reclamano come loro marito: una è una popolana, che lo descrive alcolizzato e sfaticato. L’altra è una signora dell’alta borghesia di Torino che che lo indica come professore universitario di matematica, uomo colto, conoscitore di lingue. Alla fine avrà la meglio la signora dell’alta borghesia e lo smemorato tornerà a essere un professore: ma il mistero rimane.

Il giorno della civetta e il “silenzio dei secoli”

Il 1961 è l’anno de “Il giorno della civetta”, che provocherà grandi polemiche soprattutto sull’esistenza o meno della criminalità organizzata, della mafia. Molti critici infatti sostenevano con convinzione che essa fosse stata già stata debellata durante il fascismo. Sciascia, invece, con il suo romanzo, tentò di mettere in luce non solo la connivenza tra mafia e potere, cioè tra mafia e istituzioni, ma anche tra mafia e potere economico. Il romanzo ebbe il merito di portare alla costituzione della commissione antimafia nel 1963, ma anche alla nascita di numerose inchieste parlamentari.

Romanzo realistico, in terza persona, avvicinato al realismo socialista. Viene trattato soprattutto il tema dell’omertà, atta a coprire, con il silenzio, azioni e atteggiamenti mafiosi. L’omertà non viene mai dichiarata esplicitamente, ma attraverso lo stile e la scelta del lessico da parte di Sciasia che utilizza similitudini, metafore e particolari termini. Ad esempio la camminata del venditore di panelle che non vuole testimoniare è riassunta nell’immagine di un granchio; mentre il bigliettaio del tram ha la “faccia smemorata” non ricorda i passeggeri, anche se li conosce tutti a memoria: è questo il “silenzio dei secoli” .

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di Silvia Cestoni

Landolfi, l’unicum

Landolfi è un autore dai vari generi, ma al tempo stesso uno scrittore che non si può inserire in nessuna tendenza, e questo spiega la sua scarsa fortuna con lettori e critici. Alcuni critici l’hanno amato, mentre altri l’hanno ripudiato, considerandolo solo un calligrafista. Landolfi è un unicum, sia come autore che come personaggio: sicuramente appartiene alla linea del fantastico, la quale non a caso non è né un genere né una scuola. Nei suoi testi troviamo punte di magia e di realismo che lo avvicinano al realismo magico di Bontempelli, ma anche lo strano e il meraviglioso, è stato anche avvicinato al Surrealismo insieme a Delfini e Buzzati: tuttavia, nel Surrealismo non c’è una precisa ricerca di stile come quella di Landolfi perché nel surrealismo la forma è casuale.
In Landolfi nulla è casuale, ma tutto è invece progettato e costruito. Nelle sue opere c’è sempre un doppio livello: una realtà da cui poi si slitta in una dimensione altra.
“La pietra lunare” è il suo primo romanzo: prima aveva scritto una serie di racconti, tra i quali uno dei meno fortunati è “Maria Giuseppa”, oltre ad un tentativo di romanzo fantascientifico “Cancro regina”. Tutta l’opera di Landolfi è un’autobiografia, la quale diventa poi letteratura vera e propria.

Lo stile

Lo stile di Landolfi sarà esaltato e condannato: infatti, il suo è uno stile alto, “letteratissimo”, che attinge alla tradizione rifacendosi anche ad un linguaggio arcaico ed è frequente l’uso di parole rare, deformate, e popolari:

  • Parole rare: “tempo soggiuntivo” (ovvero congiuntivo); “la di lui fantesca” (fantesca oggi non si usa più); “menomo stupore” (minimo stupore); “avvero dire” (a dire il vero); “la spasa” (un cestino); “pretestava” (ovvero portare a pretesto)
  • Parole plebee: “barbugliava e balbutendo” che sono delle varianti di “balbettare”; “stronfiava” (russare); “pidocchiava” (con riferimento ai capelli sporchi del cugino)
  • Figure retoriche: “voce soffice e un po’ rauca” (voce soffice è una sinestesia); “capelli invioliti” ( ovvero la luce lunare crea riflessi blu e viola); “lenta oscurità luminosa” (lenta oscurità è un’ipallage perché la lentezza non è nell’oscurità; oscurità luminosa è un ossimoro); “vasta marea della sua luce” ( vasta luce è una sinestesia; marea della luce è una metafora)
    Spesso domina il contrasto luce- ombra, che è una componente barocca, e il tema della vastità. Il linguaggio di Landolfi è preciso, e la precisione è un elemento congeniale anche a Calvino.

La pietra lunare

L’opera più famosa di Landolfi è “La pietra Lunare”, del 1939.
All’inizio dell’opera abbiamo una descrizione zelante in cui vengono riportate le chiacchiere di alcuni paesani sciocchi intenti a criticare una serva. Si tratta degli zii e dei cugini di Giovancarlo, il protagonista del romanzo. Uno degli zii ad un certo punto dirà di aver visto una croce nera proiettarsi in mezzo al giardino, e questo sarà il primo elemento di inquietudine: infatti, Giovancarlo guarda in quel punto ma vede invece due occhi felini che lo fissano. Questi occhi escono poi dall’ombra mentre entra nella stanza Gurù, una giovane bellissima e sensuale che fissa Giovancarlo, il quale è attratto da lei ma al tempo stesso la respinge. Infatti, osservandola noterà che essa ha dei piedi di capra.
Comincia così a chiedersi se zii e cugini se ne siano accorti, ma non sembra poiché tutti la trattano con affetto e normalità. Gurù dirà di essere venuta lì per stare con Giovancarlo e lui è ancora più scioccato, in quanto non conosce questa ragazza.
L’ambientazione è nel palazzo signorile di Pico, appartenente allo stesso Landolfi. Giovancarlo cercherò a più riprese di far notare i piedi di capra ma tutti lo guarderanno sgomenti, come se stesse delirando, e allora si chiede se non si tratti solo di una allucinazione.
Cambia l’ambientazione e si passa successivamente alla descrizione di Giovancarlo. Qui scopriamo che il protagonista ha un vizio, ovvero quello si spiare tutti dall’alto del suo palazzo. Questa componente voyeuristica indica una certa repressione del personaggio. Egli vedrà un giorno un palazzotto in rovina, dove un tempo vi abitavano dei fratelli banditi e assassini che erano stati il terrore della zona: ora vi abita una loro discendente, una ragazza bellissima, pura e virtuosissima che ha la caratteristica di guardare sempre per terra. Proprio per questo suo eccesso di virtù e di mistero in paese si comincia a vociferare che sia una strega, anche perché la sera la si sente cantare nenie ambigue. Questa fanciulla è ovviamente Gurù e Giovancarlo la riconosce.

Creatura lunare

Chiede alla sua serva Giovannina informazioni su di lei e una vecchia di paese gli rivelerà che è una creatura lunare, ovvero che di notte si trasforma in una diabolica fanciulla amica del diavolo. Con la scusa di farle ricamare delle camicie la farà venire in casa sua e inizierà così la loro relazione, spesso tormentata: infatti, di giorno Gurù è una fanciulla dolce e virtuosa, ma di notte diventa un’amante scatenata. Emerge, dunque, il tema del doppio e della metamorfosi. Viene raccontato poi un episodio i cui i due si uniscono ad un gruppo di banditi, forse fantasmi degli antenati di Gurù, e uno di essi mostrerà a Giovancarlo come decapitare un prigioniero con un coltellino. Segue una scena cruenta, con il sangue che sgorga e zampilla e la testa che rotola giù dalle rocce.

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di Silvia Cestoni

Di famiglia di origine nobiliare, proveniente dalla toscana ma trapiantata a Roma, Ottieri nasce e si forma proprio nella capitale e, almeno inizialmente, aderirà al partito fascista.
Questa esperienza è raccontata nel suo primo romanzo “Memorie dell’ incoscienza”, del 1954.
Sarà poi la guerra a portarlo alla maturità. Lascia Roma e la sua casa da borghese privilegiato e se ne va a Milano, in cerca di lavoro nell’industria, come operaio.
Qui si avvicina a gruppi sindacali e politici, per poi iniziare a lavorare nella fabbrica di Olivetti ad Ivrea.
È proprio lì che Ottieri si rende conto che l’attività politica e sindacale non è sufficiente per “andare verso la classe popolare“. Nel romanzo egli racconta proprio questa sua incoscienza giovanile oltre al suo superamento.

Scriverà poi anche una sorta di diario, “Taccuino industriale”, pubblicato in parte sul numero del “Menabò” del 1961, dedicato tutto a letteratura e industria. Del 1957 è “Tempi stretti”, mentre del 1959 “Donnarumma all’assalto”, due romanzi molto diversi tra loro.

Tempi Stretti (1953)

Ottieri, sposa la figlia di Bompiani e con il suocero pubblica il suo romanzo industriale, “Tempi stretti”, in cui racconta il lavoro in fabbrica (una metallurgica e una tipografica).
Scritto tra il 1953 e il 1955, pubblicato nel 1957, riesce con Einaudi nel 1964 dove una nota dello stesso autore dice che “non esclude di poterlo riscrivere”.
Romanzo dotato di una forte componente descrittiva-saggistica, la cui narrazione si apre con il gennaio 1950, nel corso di una riunione sindacale all’inizio dello sviluppo industriale a Milano. Il protagonista è Giovanni Marini, che richiama un po’ il percorso di Ottieri dall’incoscienza alto-borghese giovanile alla coscienza politica della scelta di vita di lavorare in fabbrica.
Le fabbriche citate sono due: la Alessandri, azienda tipografica familiare e artigianale, basata sulla produttività e la competenza operaia (in crisi), dove lavora il protagonista, e la Zanini, grande industria metallurgica in cui lavora Emma, la protagonista femminile. I due si incontrano a casa di Paolo, un uomo che li ospita dietro un pagamento di una pigione. Nasce dall’incontro un amore difficile.
Gli anni Cinquanta sono quelli del passaggio dalle piccole aziende alle grandi concentrazioni industriali (dal modello della Alessandri alla Zanini rimanendo nello schema narrativo del romanzo) con fabbriche che, trasformandosi, cercando di ricalcare il modello americano.

Nel romanzo emerge, da un lato, un’immagine del “capo-padrone” che mantiene un rapporto diretto con gli operai, ma predilige l’aspetto economico rispetto a quello umano: non licenzia, ma non ammette neanche errori né attività sindacali.
Ben diversa la situazione della Zanini (la fabbrica concorrente), organizzata con la presenza di tanti padroni e l’assenza di un rapporto diretto. Ottieri mette per iscritto dunque il momento del passaggio di trasformazione dell’industria: l’aumentare della produzione, man mano che gli operai si impratichiscono, porta il capo reparto a studiare e analizzare dettagliatamente i tempi e, in base a quanto si produce, avviene un cambia di stipendio. Ciò provoca un’ansia da produzione e frenesia negli operai con i tempi che diventano sempre più stretti e che alimentano incidenti, l’alienazione e l’angoscia.
Il tempo libero è un altro tema trattato da Ottieri: è misero, soprattutto per Emma, la protagonista femminile, che esprime l’amore in luoghi squallidi e conserva in sé una speranza di miglioramento che si riduce tutta nella “fuga” verso il matrimonio: quasi un ritorno ad una condizione pre-industriale.
La delusione permea il protagonista femminile ed Emma rappresenta appieno quella “tristezza operaia da cui guarire con la partecipazione politica”.

A confronto

È possibile fare un confronto tra questo romanzo e “Tre operai” di Bernari nel quale, ad esempio, torna il tema triste della domenica. Anch’esso è come in Bernari, un romanzo di formazione. dove il punto di vista prevalente è tra narratore esterno, emergente nelle descrizioni, e l’interiorità dei personaggi.
C’è un duplice piano tra ciò che si dice e ciò che si pensa e l’interiorità di Emma viene fuori tramite la narrazione e il discorso indiretto libero.

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di Silvia Cestoni


Renata Viganò nasce a Bologna nel 1900: fu una scrittrice precoce, anche se per ragioni economiche intraprenderà il mestiere di infermiera.
Con il figlio molto piccolo seguirà il marito, capo di un gruppo garibaldino e lei stessa sarà una partigiana. Raggiunge il suo successo con il romanzo “Agnese va a morire” ma continuerà sempre a scrivere della sua esperienza partigiana.
Tra le sue opere si ricordano: “Una storia di ragazze” (1962), “Matrimonio in brigata” (1976) e un saggio, “Donne di resistenza” (1955), che sottolinea il grande contributo che le donne hanno dato alla Resistenza. L’autrice scriverà poi un articolo, “La storia di Agnese non è una fantasia”, pubblicato sull’Unità nel 1955, per rispondere agli attacchi della critica, la quale aveva affermato che la Viganò stessa si era travestita da contadina nel suo romanzo.

Agnese va a morire (1949)

“L’Agnese va a morire” esce nel ’49 presso la casa editrice Einaudi: siamo in un momento in cui il Neorealismo ha iniziato la sua fase discendente, perchè la sua componente utopistica comincia a colorarsi di elementi pessimistici. L’opera esce in un momento di grande depressione di conflitto socio-politico., ed è come se l’autrice volesse richiamare gli intellettuali a riflettere su ciò che era stata la guerra e raggiungere ,in un certo qual modo, un’unità nazionale. Si tratta di un romanzo tipicamente neorealista: la Viganò stessa era stata una partigiana (con lo pseudonimo di “Contessa”) e il marito, comandante di un gruppo garibaldino, fu catturato dai nazisti.

Nota finale

Nella nota finale dell’opera l’autrice sottolinea che il personaggio di Agnese non è inventato (anche se aveva un altro nome nella realtà).
Quello della Viganò è un romanzo di formazione, anche se quest’ultima avviene in un età più che matura per la protagonista, la quale passa da una concezione di tempo circolare ad una di tempo lineare.