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di Silvia Cestoni

La Sicilia di Sciascia

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Caltanissetta, nel 1921.
La Sicilia sarà una costante sempre presente nelle sue opere e questo piccolo paese di montagna tornerà nel suo primo romanzo “Le parrocchie di Regalpetra”.
Sciascia, riferendosi alla Sicilia, parla di “similitudine”, ossia di uno stato mentale e una condizione esistenziale, di un legame ad una terra amata ma al tempo stesso detestata. Vivere in un isola vuol dire essere diversi, non essere congiunti al continente. La Sicilia è vista come  categoria mentale e anche conoscitiva: essa diventa specchio prima dell’Italia, poi dell’Europa, quindi del mondo.

Sciascia proviene da una famiglia modesta, prende il diploma magistrale e inizia la sua esperienza come maestro proprio a Racalmuto. Qui entra in contatto con ambienti intellettuali, scrive su giornali e riviste, conosce il giornalista Giuseppe Antornio Borgese e lo scrittore Vitaliano Brancanti, oltre a molti autori siciliani. Si trasferisce a Roma, entrando in politica e iscrivendosi al Pci, nelle cui fila sarà deputato regionale e poi comunale.

La politica e l’impegno sociale

L’opera “Le parrocchie di Regalpetra” rispecchia, negli intenti dell’autore, la delusione verso la politica e il partito in particolare. Sciascia resterà sempre orientato verso un pensiero progressista e di sinistra ma assumerà forti critiche nei confronti della politica nazionale e delle organizzazioni rigide dei partiti e questa sua vena lo innalzerà a scrittore con una vocazione civile e sociale.
Come autore resterà sempre molto legato ad Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini in particolare, la cui morte lo colpirà personalmente, tanto che “L’affaire Moro” (sua opera del 1978) ha come incipit una citazione di Pasolini tratta dall’articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975. Infatti, Sciascia fece parte della commissione parlamentare d’inchiesta relativa al rapimento di Aldo Moro, in cui redasse una relazione di minoranza che diventerà poi, appunto, l’opera “L’affaire moro”.

L’elemento storico

Sciascia non è solo un narratore ma scrive anche una serie di testi che rispondono alla sua vocazione della ricerca storica in archivi e biblioteche che lo porta a scrivere testi di cronaca e ricostruzioni di vicende storiche, rielaborati con una minuziosa ricerca di fonti d’archivio. Secondo Sciascia la storiografia ufficiale è viziata da una manipolazione ideologica: risponde alla necessità di confermare il potere dominante. La storia, dunque, è vista come manipolazione della verità e menzogna. Non si basa su affermazioni false, ma su fatti che vengono deliberatamente nascosti, avvenimenti dei quali si decide di non parlare, come dei documenti relativi a quest’ultimi. Il lavoro di storico e di filologo di Sciascia è quello di portare alla luce la verità attraverso i documenti verificabili.

La scomparsa di Ettore Majorana

Nascono così dei testi di difficile definizione dal punto di vista del genere letterario, come “La scomparsa di Ettore Majorana”, grande fisico che stava portando avanti esperimenti sull’energia atomica.
Un giorno, improvvisamente, lo scienziato sparisce: sembra che da Napoli si sia imbarcato sul traghetto per Palermo ma a lì non sarebbe mai arrivato. Si parlò di suicidio, ma non l’assenza di lettere o testimonianze lasceranno numerosi quesiti aperti. Sciascia conduce, così, tutta una serie di ricerche effettuando una ricostruzione della vicenda oltre a realizzare una sua inchiesta personale, arrivando ad una sua interpretazione dei fatti, dove la ricerca storica si unisce al genio narrativo e all’ intuizione. Sciascia infatti ha trovato tracce di un estraneo, rifugiatosi in un monastero di un paesino siciliano, da tutti noto come fisico e matematico ma che si dedica a lavori agricoli. Per Sciascia egli è Majorana che ha deciso di nascondersi al mondo dopo aver intuito l’orrore che la bomba atomica avrebbe sprigionato.
Le origini di questa fuga sono tutte tipicamente sciasciane, rappresentano, cioè, tutte le battaglie che l’autore porta avanti dall’inizio degli anni ’50. Del resto, egli afferma nella prefazione alla ristampa delle “Parrocchie”, che la letteratura non può non essere tendenza che si lega a questo o quel partito, ma deve essere promozione di coscienza civile, con funzione conoscitiva, ovvero di scoperta della realtà.

Lo smemorato di Collegno

Siamo di fronte anche qui a un fatto di cronaca, questa volta risalente ai primi anni ’20 e che per Sciascia diventa un occasione per discutere della “nozione di memoria”. Siamo a Collegno, piccolo paesino del Piemonte: nel 1926 viene trovato, nei pressi del cimitero di Torino, in stato confusionale, un uomo che vaneggia in preda a deliri e che aveva sottratto alcuni vasi funerari. Nessuno sa chi è, ha perso la memoria e viene portato in una clinica psichiatrica. I medici cercano di trovare elementi che portino alla sua identità e che possano dare delle risposte: l’unica cosa che sembra evidente è la natura colta dell’individuo. La sua foto viene pubblicata sui giornali e due donne lo reclamano come loro marito: una è una popolana, che lo descrive alcolizzato e sfaticato. L’altra è una signora dell’alta borghesia di Torino che che lo indica come professore universitario di matematica, uomo colto, conoscitore di lingue. Alla fine avrà la meglio la signora dell’alta borghesia e lo smemorato tornerà a essere un professore: ma il mistero rimane.

Il giorno della civetta e il “silenzio dei secoli”

Il 1961 è l’anno de “Il giorno della civetta”, che provocherà grandi polemiche soprattutto sull’esistenza o meno della criminalità organizzata, della mafia. Molti critici infatti sostenevano con convinzione che essa fosse stata già stata debellata durante il fascismo. Sciascia, invece, con il suo romanzo, tentò di mettere in luce non solo la connivenza tra mafia e potere, cioè tra mafia e istituzioni, ma anche tra mafia e potere economico. Il romanzo ebbe il merito di portare alla costituzione della commissione antimafia nel 1963, ma anche alla nascita di numerose inchieste parlamentari.

Romanzo realistico, in terza persona, avvicinato al realismo socialista. Viene trattato soprattutto il tema dell’omertà, atta a coprire, con il silenzio, azioni e atteggiamenti mafiosi. L’omertà non viene mai dichiarata esplicitamente, ma attraverso lo stile e la scelta del lessico da parte di Sciasia che utilizza similitudini, metafore e particolari termini. Ad esempio la camminata del venditore di panelle che non vuole testimoniare è riassunta nell’immagine di un granchio; mentre il bigliettaio del tram ha la “faccia smemorata” non ricorda i passeggeri, anche se li conosce tutti a memoria: è questo il “silenzio dei secoli” .

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di Silvia Cestoni

Landolfi, l’unicum

Landolfi è un autore dai vari generi, ma al tempo stesso uno scrittore che non si può inserire in nessuna tendenza, e questo spiega la sua scarsa fortuna con lettori e critici. Alcuni critici l’hanno amato, mentre altri l’hanno ripudiato, considerandolo solo un calligrafista. Landolfi è un unicum, sia come autore che come personaggio: sicuramente appartiene alla linea del fantastico, la quale non a caso non è né un genere né una scuola. Nei suoi testi troviamo punte di magia e di realismo che lo avvicinano al realismo magico di Bontempelli, ma anche lo strano e il meraviglioso, è stato anche avvicinato al Surrealismo insieme a Delfini e Buzzati: tuttavia, nel Surrealismo non c’è una precisa ricerca di stile come quella di Landolfi perché nel surrealismo la forma è casuale.
In Landolfi nulla è casuale, ma tutto è invece progettato e costruito. Nelle sue opere c’è sempre un doppio livello: una realtà da cui poi si slitta in una dimensione altra.
“La pietra lunare” è il suo primo romanzo: prima aveva scritto una serie di racconti, tra i quali uno dei meno fortunati è “Maria Giuseppa”, oltre ad un tentativo di romanzo fantascientifico “Cancro regina”. Tutta l’opera di Landolfi è un’autobiografia, la quale diventa poi letteratura vera e propria.

Lo stile

Lo stile di Landolfi sarà esaltato e condannato: infatti, il suo è uno stile alto, “letteratissimo”, che attinge alla tradizione rifacendosi anche ad un linguaggio arcaico ed è frequente l’uso di parole rare, deformate, e popolari:

  • Parole rare: “tempo soggiuntivo” (ovvero congiuntivo); “la di lui fantesca” (fantesca oggi non si usa più); “menomo stupore” (minimo stupore); “avvero dire” (a dire il vero); “la spasa” (un cestino); “pretestava” (ovvero portare a pretesto)
  • Parole plebee: “barbugliava e balbutendo” che sono delle varianti di “balbettare”; “stronfiava” (russare); “pidocchiava” (con riferimento ai capelli sporchi del cugino)
  • Figure retoriche: “voce soffice e un po’ rauca” (voce soffice è una sinestesia); “capelli invioliti” ( ovvero la luce lunare crea riflessi blu e viola); “lenta oscurità luminosa” (lenta oscurità è un’ipallage perché la lentezza non è nell’oscurità; oscurità luminosa è un ossimoro); “vasta marea della sua luce” ( vasta luce è una sinestesia; marea della luce è una metafora)
    Spesso domina il contrasto luce- ombra, che è una componente barocca, e il tema della vastità. Il linguaggio di Landolfi è preciso, e la precisione è un elemento congeniale anche a Calvino.

La pietra lunare

L’opera più famosa di Landolfi è “La pietra Lunare”, del 1939.
All’inizio dell’opera abbiamo una descrizione zelante in cui vengono riportate le chiacchiere di alcuni paesani sciocchi intenti a criticare una serva. Si tratta degli zii e dei cugini di Giovancarlo, il protagonista del romanzo. Uno degli zii ad un certo punto dirà di aver visto una croce nera proiettarsi in mezzo al giardino, e questo sarà il primo elemento di inquietudine: infatti, Giovancarlo guarda in quel punto ma vede invece due occhi felini che lo fissano. Questi occhi escono poi dall’ombra mentre entra nella stanza Gurù, una giovane bellissima e sensuale che fissa Giovancarlo, il quale è attratto da lei ma al tempo stesso la respinge. Infatti, osservandola noterà che essa ha dei piedi di capra.
Comincia così a chiedersi se zii e cugini se ne siano accorti, ma non sembra poiché tutti la trattano con affetto e normalità. Gurù dirà di essere venuta lì per stare con Giovancarlo e lui è ancora più scioccato, in quanto non conosce questa ragazza.
L’ambientazione è nel palazzo signorile di Pico, appartenente allo stesso Landolfi. Giovancarlo cercherò a più riprese di far notare i piedi di capra ma tutti lo guarderanno sgomenti, come se stesse delirando, e allora si chiede se non si tratti solo di una allucinazione.
Cambia l’ambientazione e si passa successivamente alla descrizione di Giovancarlo. Qui scopriamo che il protagonista ha un vizio, ovvero quello si spiare tutti dall’alto del suo palazzo. Questa componente voyeuristica indica una certa repressione del personaggio. Egli vedrà un giorno un palazzotto in rovina, dove un tempo vi abitavano dei fratelli banditi e assassini che erano stati il terrore della zona: ora vi abita una loro discendente, una ragazza bellissima, pura e virtuosissima che ha la caratteristica di guardare sempre per terra. Proprio per questo suo eccesso di virtù e di mistero in paese si comincia a vociferare che sia una strega, anche perché la sera la si sente cantare nenie ambigue. Questa fanciulla è ovviamente Gurù e Giovancarlo la riconosce.

Creatura lunare

Chiede alla sua serva Giovannina informazioni su di lei e una vecchia di paese gli rivelerà che è una creatura lunare, ovvero che di notte si trasforma in una diabolica fanciulla amica del diavolo. Con la scusa di farle ricamare delle camicie la farà venire in casa sua e inizierà così la loro relazione, spesso tormentata: infatti, di giorno Gurù è una fanciulla dolce e virtuosa, ma di notte diventa un’amante scatenata. Emerge, dunque, il tema del doppio e della metamorfosi. Viene raccontato poi un episodio i cui i due si uniscono ad un gruppo di banditi, forse fantasmi degli antenati di Gurù, e uno di essi mostrerà a Giovancarlo come decapitare un prigioniero con un coltellino. Segue una scena cruenta, con il sangue che sgorga e zampilla e la testa che rotola giù dalle rocce.

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di Silvia Cestoni

Di famiglia di origine nobiliare, proveniente dalla toscana ma trapiantata a Roma, Ottieri nasce e si forma proprio nella capitale e, almeno inizialmente, aderirà al partito fascista.
Questa esperienza è raccontata nel suo primo romanzo “Memorie dell’ incoscienza”, del 1954.
Sarà poi la guerra a portarlo alla maturità. Lascia Roma e la sua casa da borghese privilegiato e se ne va a Milano, in cerca di lavoro nell’industria, come operaio.
Qui si avvicina a gruppi sindacali e politici, per poi iniziare a lavorare nella fabbrica di Olivetti ad Ivrea.
È proprio lì che Ottieri si rende conto che l’attività politica e sindacale non è sufficiente per “andare verso la classe popolare“. Nel romanzo egli racconta proprio questa sua incoscienza giovanile oltre al suo superamento.

Scriverà poi anche una sorta di diario, “Taccuino industriale”, pubblicato in parte sul numero del “Menabò” del 1961, dedicato tutto a letteratura e industria. Del 1957 è “Tempi stretti”, mentre del 1959 “Donnarumma all’assalto”, due romanzi molto diversi tra loro.

Tempi Stretti (1953)

Ottieri, sposa la figlia di Bompiani e con il suocero pubblica il suo romanzo industriale, “Tempi stretti”, in cui racconta il lavoro in fabbrica (una metallurgica e una tipografica).
Scritto tra il 1953 e il 1955, pubblicato nel 1957, riesce con Einaudi nel 1964 dove una nota dello stesso autore dice che “non esclude di poterlo riscrivere”.
Romanzo dotato di una forte componente descrittiva-saggistica, la cui narrazione si apre con il gennaio 1950, nel corso di una riunione sindacale all’inizio dello sviluppo industriale a Milano. Il protagonista è Giovanni Marini, che richiama un po’ il percorso di Ottieri dall’incoscienza alto-borghese giovanile alla coscienza politica della scelta di vita di lavorare in fabbrica.
Le fabbriche citate sono due: la Alessandri, azienda tipografica familiare e artigianale, basata sulla produttività e la competenza operaia (in crisi), dove lavora il protagonista, e la Zanini, grande industria metallurgica in cui lavora Emma, la protagonista femminile. I due si incontrano a casa di Paolo, un uomo che li ospita dietro un pagamento di una pigione. Nasce dall’incontro un amore difficile.
Gli anni Cinquanta sono quelli del passaggio dalle piccole aziende alle grandi concentrazioni industriali (dal modello della Alessandri alla Zanini rimanendo nello schema narrativo del romanzo) con fabbriche che, trasformandosi, cercando di ricalcare il modello americano.

Nel romanzo emerge, da un lato, un’immagine del “capo-padrone” che mantiene un rapporto diretto con gli operai, ma predilige l’aspetto economico rispetto a quello umano: non licenzia, ma non ammette neanche errori né attività sindacali.
Ben diversa la situazione della Zanini (la fabbrica concorrente), organizzata con la presenza di tanti padroni e l’assenza di un rapporto diretto. Ottieri mette per iscritto dunque il momento del passaggio di trasformazione dell’industria: l’aumentare della produzione, man mano che gli operai si impratichiscono, porta il capo reparto a studiare e analizzare dettagliatamente i tempi e, in base a quanto si produce, avviene un cambia di stipendio. Ciò provoca un’ansia da produzione e frenesia negli operai con i tempi che diventano sempre più stretti e che alimentano incidenti, l’alienazione e l’angoscia.
Il tempo libero è un altro tema trattato da Ottieri: è misero, soprattutto per Emma, la protagonista femminile, che esprime l’amore in luoghi squallidi e conserva in sé una speranza di miglioramento che si riduce tutta nella “fuga” verso il matrimonio: quasi un ritorno ad una condizione pre-industriale.
La delusione permea il protagonista femminile ed Emma rappresenta appieno quella “tristezza operaia da cui guarire con la partecipazione politica”.

A confronto

È possibile fare un confronto tra questo romanzo e “Tre operai” di Bernari nel quale, ad esempio, torna il tema triste della domenica. Anch’esso è come in Bernari, un romanzo di formazione. dove il punto di vista prevalente è tra narratore esterno, emergente nelle descrizioni, e l’interiorità dei personaggi.
C’è un duplice piano tra ciò che si dice e ciò che si pensa e l’interiorità di Emma viene fuori tramite la narrazione e il discorso indiretto libero.

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di Silvia Cestoni


Renata Viganò nasce a Bologna nel 1900: fu una scrittrice precoce, anche se per ragioni economiche intraprenderà il mestiere di infermiera.
Con il figlio molto piccolo seguirà il marito, capo di un gruppo garibaldino e lei stessa sarà una partigiana. Raggiunge il suo successo con il romanzo “Agnese va a morire” ma continuerà sempre a scrivere della sua esperienza partigiana.
Tra le sue opere si ricordano: “Una storia di ragazze” (1962), “Matrimonio in brigata” (1976) e un saggio, “Donne di resistenza” (1955), che sottolinea il grande contributo che le donne hanno dato alla Resistenza. L’autrice scriverà poi un articolo, “La storia di Agnese non è una fantasia”, pubblicato sull’Unità nel 1955, per rispondere agli attacchi della critica, la quale aveva affermato che la Viganò stessa si era travestita da contadina nel suo romanzo.

Agnese va a morire (1949)

“L’Agnese va a morire” esce nel ’49 presso la casa editrice Einaudi: siamo in un momento in cui il Neorealismo ha iniziato la sua fase discendente, perchè la sua componente utopistica comincia a colorarsi di elementi pessimistici. L’opera esce in un momento di grande depressione di conflitto socio-politico., ed è come se l’autrice volesse richiamare gli intellettuali a riflettere su ciò che era stata la guerra e raggiungere ,in un certo qual modo, un’unità nazionale. Si tratta di un romanzo tipicamente neorealista: la Viganò stessa era stata una partigiana (con lo pseudonimo di “Contessa”) e il marito, comandante di un gruppo garibaldino, fu catturato dai nazisti.

Nota finale

Nella nota finale dell’opera l’autrice sottolinea che il personaggio di Agnese non è inventato (anche se aveva un altro nome nella realtà).
Quello della Viganò è un romanzo di formazione, anche se quest’ultima avviene in un età più che matura per la protagonista, la quale passa da una concezione di tempo circolare ad una di tempo lineare.