Carrozza 6

di Simona Visciglia
Illustrazione di Paola Donnici

Ti osservo da un po’: sei seduto di fronte a me, nel salottino del Frecciarossa Roma-Milano.
Ci separano il tavolino, la custodia dei miei occhiali da vista, un libro dalla copertina stropicciata.

Di fianco a me un uomo di mezza età in giacca e cravatta, di fianco a te un ragazzo sulla trentina.
Tu quanti anni avrai? Non più di ventidue o ventitré, potresti essere mio figlio.
Ma io non ho figli, non ne ho mai voluti, mi è mancata l’occasione forse.
E adesso, a cinquant’anni – sì, proprio oggi ne compio cinquanta – non ha neanche più senso chiedersi come sia andata.

Urto le tue ginocchia: «Perdonami, è che questi posti sono davvero stretti».
Accenni un sorriso, non so neanche se tu abbia sentito quello che ti ho detto, forse stai ascoltando della musica. Che musica ti piacerà?

Ti togli gli auricolari solo quando arriva il capotreno per controllare i biglietti, le nostre gambe si toccano di nuovo e mi fai un cenno con la mano come per scusarti.

Hai le unghie tutte rosicchiate e non fai niente per nasconderle.
Esibisci la tua vulnerabilità con disinvoltura.
Sei un essere fragile, ti immagino così, uno che lotta con fatica per tenersi a galla, come tutti i ragazzi che hanno davanti l’incognita del futuro.
Ci pensi tu al futuro, vero?
O magari hai già raggiunto i tuoi obiettivi e quelle unghie sono una valvola di sfogo.

Hai l’aria di un ragazzo assennato e sei davvero molto carino, con i capelli spettinati ma pulitissimi, hanno anche un buon odore? Hai l’aspetto curato e allo stesso tempo trasandato, come molti tuoi coetanei, ossimori viventi: a metà strada tra fotomodelli strapagati e barboni che vivono sotto i ponti.
Come ci riuscite? Come ci riesci tu?

Per il mio compleanno voglio regalarmi un’avventura o almeno provarci.
Se c’è una cosa per cui vale la pena arrivare alla mia età è questa noncuranza delle proprie azioni.
Il non avere più paura delle conseguenze, lasciarsi scivolare addosso le ansie e trasformale in occasioni.

Azzardo la prima mossa: provo a premere con più insistenza le mie gambe contro le tue e ti guardo negli occhi.
Fai il vago, hai notato che il mio sguardo adesso è diverso, te lo senti addosso, i miei pensieri su di te.
Dai un colpetto di tosse, ti ho imbarazzato?

Allungo le mani sul tavolino, come per riporre i miei occhiali nella custodia e riesco a sfiorarti la mano, un tocco quasi impercettibile, velocissimo. Adesso sei tu che mi guardi, sei curioso, te lo leggo negli occhi. Che colore hanno? Un castano indeciso, che vorrebbe sconfinare nel verde.

Ti stai chiedendo cosa devi fare? Se puoi tirarti indietro, se devi tirarti indietro?
In fondo sei un ragazzino come se ne vedono tanti, eccetto che per quell’aria sprovveduta e un po’ sognante che mi è piaciuta dall’inizio.

Mi alzo, come per dirigermi alla toilette, tu mi segui dopo qualche secondo.
Ti sto aspettando tra la nostra carrozza e quella successiva.

Ci guardiamo, infili le mani in tasca, i tuoi vent’anni si vedono tutti in questo gesto quasi maldestro. «Vieni» ti dico, aprendo la porta del bagno.

Ci chiudiamo dentro furtivi, lo spazio tra noi si annulla.
Con una manovra impercettibile, ti spingo con le spalle alla parete e ci stiamo già baciando.

Da quanto tempo non baciavo così qualcuno?
Solo per il gusto di farlo, per sentire che sapore ha l’altro. Che sapore hai tu.
Sei incontenibile, dov’è finito il tuo imbarazzo? Le hai già dimenticate quelle unghie rosicchiate dall’insicurezza? Le tue dita senza spigoli scivolano morbide sulla mia pelle, sotto i miei vestiti, dentro di me.

Qualcuno da fuori batte un colpo alla porta.

Rispondo, prendendo fiato: «Un attimo, è occupato».

Mi tiro giù la camicetta, mi ricompongo, ti blocco le mani, respingo il tuo viso, le tue labbra.
Hai la pelle arrossata, gli occhi sgranati, il respiro pesante.
E anche io ho i capelli in disordine, il rossetto sbavato e le tempie che mi pulsano.

Sei la cosa più bella che mi sia capitata in questi ultimi anni.
Un regalo perfetto, ma non te lo dico.
«Usciamo, dai» ti dico invece.

Tu mi sistemi i capelli, con quelle mani dalle unghie mangiucchiate. Sembri il mio amante da tempo, anche se non abbiamo finito ciò che avevamo incominciato. Ci sei rimasto un po’ male, ma capisci che forse qui non possiamo, che magari poi…chissà.
Per te tutto ha un futuro.

Torniamo ai nostri posti, avendo cura di farlo separatamente.

Ci resta ancora mezz’ora di viaggio. Mi guardi in maniera insistente, non puoi più farne a meno e aspetti un mio cenno, un punto di incontro. Ti lascio credere, ti lascio aspettare, mentre chiacchieriamo con gli altri due viaggiatori.

Quando arriviamo a destinazione, scendiamo, dapprima incolonnati nello stretto corridoio. Sento che mi stai troppo vicino, cerco di distanziarmi da te.

Una volta fuori, salutiamo formalmente gli altri due viaggiatori.
Restiamo noi due, come sospesi in un non-luogo senza tempo.

 Mi afferri la mano, sapendo che sto per andare via e mi chiedi: «Dimmi almeno come ti chiami».

Non ti rispondo, ti guardo, accenno un sorriso.
Alzo la mano come Mastroianni nel finale de “La dolce vita”, ma forse è un film che tu non hai neanche mai visto.

Poi la città ci inghiotte, io sui miei tacchi veloci, tu con il mio profumo addosso.