di Jacopo Triggiani
Illustrazione di Matteo de Lucia
Appena tornato da Barcellona.
Il viaggio è andato bene, a parte qualche turbolenza iniziale.
Esco dall’ultimo treno che mi tremano le gambe. Sono distrutto.
Eccezionalmente, mi passano a prendere in macchina.
Mi accoccolo nel sedile davanti, quello del passeggero, ma c’è troppo poco tempo anche solo per pensare di appisolarsi: da qui a casa sono 20 minuti scarsi.
Non mi resta che fare il punto del viaggio appena concluso.
Tutto sommato bene, a parte qualche inconveniente, come nel viaggio aereo di ritorno.
Eppure, qualcosa continua a infastidirmi e a pungolarmi.
Sui miei ricordi freschi aleggia una certa subdola inconcludenza. Mi domando seccato cosa avrei potuto fare di diverso, come avrei potuto sfruttare al meglio, ancora di più, il tempo trascorso in vacanza.
Mi rispondo che queste domande non hanno senso e che, in ogni caso, quel che è stato è stato, e non potrebbe essere diversamente.
Un bel libro di cui ho scordato di leggere il finale, ma che comunque mi ha lasciato un buon ricordo.
A pensarci bene, c’è stato veramente un libro che mi ha fatto sentire così: si chiama Queer, e l’ha scritto William S. Burroughs.
In sostanza, questo breve romanzo pseudo-autobiografico racconta le vicende di un alter ego dell’autore, Lee. La trama sembra svolgersi attorno a una storia d’amore fra lui e un giovinetto sfuggevole, Allerton, ma questo non si avvicina nemmeno a una sinossi accurata dell’opera. In realtà, Lee è pungolato dal desiderio di Allerton almeno tanto quanto è inebriato dal desiderio di vivere, di fare esperienze. Niente piani, niente mappe morali o concettuali, solo considerazioni sparse di un uomo sbronzo, seduto al bancone di un fetido locale di Città Del Messico. Allerton piomba nei vaneggiamenti del tossicodipendente Lee con la forza di un fulmine. Non è tanto la sfuggevolezza del giovane a far impazzire Lee, quanto la sua inconsistenza, tanto quella fisica quanto quella sessuale. Allerton è maschera priva di identità, indeciso fra il concedersi e il ritrarsi, alla vita come alle attenzioni di quel perverso uomo di mezza età che è il protagonista. Di nuovo, questa inconcludenza è fastidiosa, e il finale non è finale, ma, piuttosto, appendice onirica di un viaggio solo vagheggiato: Lee va in Sud America alla ricerca dello yagé, cioè uno stupefacente naturale, capace, secondo lo stesso protagonista, di assoggettare la mente umana e controllarla. Di Allerton, dopo il viaggio, neanche l’ombra. O meglio, da presenza in bassorilievo, la giovane personificazione del desiderio si ricostituisce come miraggio lontano, dimenticato.
Non so bene perché la mia sensazione di incompiutezza colleghi il viaggio appena concluso e quello delirante, sacrilego, di Lee. Forse, a suggerire le associazioni è solamente il mio cervello di viaggiatore assonnato; o, forse, le strade calde e spaziose, piene di vita, di Barcellona, mi hanno ricordato il mondo di questo romanzo: afoso, appiccicoso e stravolto, giocato fra lo sbuffo del fumo di una sigaretta e la frustrazione di uno scopo mai raggiungibile, perché impalpabile.
Penso che il mio rapporto col tempo, soprattutto quello trascorso, sia dello stesso tipo: ansioso nell’approccio e inconcludente nell’esecuzione. La colpa è della presunzione, e del senso del dovere che mi hanno insegnato, quello che raccomanda di sfruttare ogni secondo, come se davvero dipendesse da noi quel tempo, che in realtà ci capita di vivere, finché non si esaurisce.
Guardo fuori dal finestrino: il semaforo è rosso, e la fila di macchine accanto ci sfiora, noncurante.
Come al solito, penso troppo e mi rattristo: la vacanza è andata davvero bene, molto aldilà delle mie capacità.