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di Cristi Marcì

Illustrazione di Redazione

Fuori dallo studio la primavera posa il suo fertile sguardo sulle facciate dei palazzi.

Variano dal rosso al blu, dall’arancione all’azzurro e ogni volta mi ricordano Nyhavn: l’antico porto di Copenaghen che io e Lara abbiamo visitato a febbraio.

Le era piaciuto così tanto da costringermi ad appendere alla parete dello studio, accanto al set di mensole per libri, una cornice raffigurante il canale del porto: “così potrai vedere i colori anche nei momenti più grigi” aveva sentenziato col suo solito ottimismo.

Ancora non capisco come tutto sia diventato freddo come quel gelido fiume danese, dove il vento pungente ci entrava perfino nelle ossa.

Senza rendermene conto suonarono al citofono e dando un’occhiata veloce all’orologio da polso mi ricordai dell’unico appuntamento previsto per quel giovedì.

«S-si?» balbettai come risvegliato dai miei ricordi.
«Sono io dottore».

Con fare automatico schiacciai il pulsante del portone di sotto. Subito dopo spostai la chaise longue di pelle nera sopra il tappeto rosso a pelo lungo, tra la scrivania di mogano con sopra la cartella clinica e la parete con la cornice. Infine aprii la finestra per lasciare entrare il primo sole di aprile, perché durante i colloqui mi piaceva contemplare quel mondo di voci e colori che io e Lara avevamo dipinto prima della sua definitiva partenza.

Quella mattina il cielo era limpido e sgombro di nuvole.
«Buongiorno dottore, è permesso…?».
«Oh buongiorno Luce, accomodati pure» dissi a una ragazza di ventotto anni in cura da me da gennaio. Era bruna, adorava i Beatles e aveva due occhi verdi in grado di ipnotizzare chiunque incrociasse il suo sguardo. Non se la tirava affatto anzi, la sua indipendenza nel fare cose veniva spesso scambiata per snobismo e altre stupide etichette che tra una bracciata e l’altra le scivolavano addosso in piscina mischiandosi al cloro. Aveva una sfrenata passione per i romanzi gialli nei quali spesso si immedesimava conducendo indagini che a detta sua la «isolavano dalla banalità del mondo e la facevano sentire viva tanto quanto il nuoto».

«Come hai trascorso il weekend?» le chiesi dopo che si era accomodata sulla chaise longue.
«Sabato mattina sono andata a nuotare, di pomeriggio ho letto mentre di sera ho passeggiato lungo tutta via Libertà con i Beatles nelle orecchie».
«Quale brano hai ascoltato?».
«Now and then».
«Non la conosco…è bella…?».
«Da impazzire, solo che…».
«Cosa…?»
«Mentre l’ascoltavo ho pensato a papà e sono scoppiata a piangere. Mi sono sentita stupida ma è stato più forte di me, sentivo la terra mancare sotto i piedi e ho dovuto appoggiarmi a uno di quegli alberi secolari».
«Ti manca molto vero?».
«Si e ogni giorno che passa sono prigioniera di tutta questa merda che ho qui nel petto» disse con la voce incrinata.

Mentre le prime lacrime iniziavano a rigarle il viso non potevo fare a meno di ripensare a quel freddo che all’insaputa di mia moglie e io stava letteralmente congelando le nostre vite.
Nelle sue vene il calore di una vita si stava pian piano spegnendo e cinque notti dopo il nostro rientro a Palermo se ne andò per sempre.

«Lo hai sognato?».
«No…non ricordo».
«Cosa vorresti in questo momento?».
«Volare in cielo e non sentire più niente» disse alzandosi e affacciandosi alla finestra.
«Pensi che sia la soluzione migliore?» le chiesi mettendomi accanto a lei e guardando la piazza del Teatro Massimo con i suoi bar e i carretti siciliani.
«Al momento si, dottore».
«Se potessi volare cosa vorresti essere?».
«Una mongolfiera» disse con un filo di sole sulle guance e un timido sorriso ai lati delle labbra.
«Ti va di provare?».
«A far che?».
«A volare».

Mi guardò come se a parlare fosse stato un pazzo, eppure l’idea le sembrava tanto bizzarra quanto divertente, così dopo aver guardato tutto l’azzurro possibile rispose: «va bene, ci penserà il cielo».

Una volta distesa guardai un attimo la cornice di Lara e senza aspettare un secondo di più chiusi gli occhi invitando Luce a fare lo stesso e a visualizzare una mongolfiera.
«Sei in piedi su un prato verde dove riposa un pallone colorato ancora sgonfio. Lo vedi per la prima volta ed è lì per te. Lo osservi incantata e ne percepisci tutta la maestosità. Contempli i suoi splendidi colori rincorrersi lungo tutta la superficie, mentre immagini il momento in brilleranno nell’azzurro del cielo.
Il grande pallone riposa sull’erba ma sai che col tuo respiro puoi animarlo, che il tuo calore renderà l’aria al suo interno meno densa, permettendogli di librarsi. Dentro la cesta c’è tutto ciò che ti serve per affrontare il viaggio, tutto ciò di cui hai bisogno per intraprendere il tuo cammino. Adesso Luce, guidami tu».
«Come…?».
«Come ti viene più naturale, lasciati trasportare dalle immagini, dalle sensazioni, dai colori…e guidami, guidaci, come se stessi nuotando: nuotando in aria ecco».
Dopo un attimo di silenzio, che mi fece capire che Luce stava elaborando la richiesta, cosa che percepii dal suo sospiro che, in un attimo, prese come una rincorsa per poi lanciarsi in quota, iniziò a nuotare:
«Eccomi. Mi avvicino e inizio a riscaldare l’aria nel pallone, piano piano assume una disposizione diversa, si dispone quasi per magia proprio sopra alla cesta: è tanto maestoso quanto delicato».
«Cos’altro?».
«Allento le corde, sciolgo i nodi che tengono la mongolfiera ancorata alla terra. Una volta nella cesta vorrei qualcuno con me. Il pallone con i suoi colori è sopra di me, mi sento protetta. Regolo  il calore, i cavi e i nastri si tendono. Sento che è giunto il momento di staccarsi da terra, manca poco ma qualcosa mi trattiene».
«Cosa?».
«Forse devo respirare di più, ma non serve a nulla perché la cesta è troppo carica e bisogna alleggerirla».
«Carica…di cosa?».
«Di pensieri e delle mie paure».

Per un attimo rividi il volto di Lara, mentre come per magia mi ritrovai nella cesta assieme alla mia paziente. Ad occhi chiusi vedevo i suoi occhi verdi puntare il cielo mentre le nostre mani gettavano oltre il bordo materiali ruvidi e pesanti che avevano appesantito le nostre perdite e come d’incanto la cesta si staccò da terra. Fendeva un cielo dove i nostri vissuti assumevano ora la forma delle pagine dei libri e della sua musica preferita ora quella di un porto dove stavo tornando un’ultima volta: dal quale il suo fertile sorriso irradiava di luce Nyhavn.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Avevo appuntamento con un amico.
Per raggiungerlo dovevo fare il cambio a Termini.
Nulla di particolarmente strano e difficile per questo sono sicuro che nessuno di voi potrà credermi.

Alla fermata Termini la folla, come massa informe, spingeva per entrare, mentre da dentro si spingeva per uscire. Non ero più abituato al contatto con tanti estranei per cui, per prima cosa cercai un’aria dove prendere fiato e capire che direzione prendere.

Per quanto credessi di seguire la via giusta continuavo a sbagliare rischiando varie volte di uscire dai tornelli senza aver fatto il cambio. Nel frattempo la massa mi spintonava dandomi la sensazione di essere trascinato dalle onde. Ero in ritardo e la frustrazione per la direzione sbagliata e l’impossibilità di avvisare mi misero in agitazione.
Dovevo calmarmi, evitando un attacco di panico.
Fu così che mi rintanai in un angolo dove poter respirare lentamente.

Un signore anziano si avvicinò e mi disse: «Mi scusi, si sente bene? La vedo agitato».

Guardo quest’uomo basso con il viso scavato dalle rughe e un cappellino rosso in testa.
Mi ricordava mio nonno che coltivava l’orto e allevava galline.

«Mi sono perso» dico. «Non vengo a Termini da un po’. Devo prendere la linea A direzione Anagnina». «Ah, ma non ci vuole nulla, ti accompagno io, sto andando in quella direzione».
Faccio un cenno col capo e seguo il signore anziano.

Non so dire quanto camminammo né che strada facemmo e ora come ora non saprei in alcun modo ritornare nel luogo dove mi portò.

Il labirinto di corridoi e scale si stava dipanando davanti a me mentre l’uomo procedeva con passo lento, ma sicuro. Restammo in silenzio tutto il tempo e il percorso che scelse era meno affollato, forse per questo notai che uno per volta si stavano aggiungendo degli sconosciuti.

«Siamo quasi arrivati» disse d’improvviso il vecchio. «Guarda» e indicò un cartello dietro me che indicava la direzione per Anagnina «la tua strada va in quella direzione». C’erano una decina di persone con la testa abbassata, che si erano messe dietro all’anziano, mani incrociate all’altezza del pube e gambe leggermente divaricate.
«Noi altri, invece, andiamo di là» continuò il vecchio indicando una porta e come puntò il dito il gruppo si avviò verso la soglia.

Li continuai a fissare mentre il vecchio mi osservava. Ero curioso, ma quando aprirono la porta per entrare sembrava ci fosse solo una stanza buia.

«Ho lavorato tanti anni qui. Conosco molto bene questo posto». Disse il vecchio: «L’ho visto trasformarsi. Posso dire che io, qui, ci abito proprio». Continuo a guardare la porta, ma senza perdere di vista il vecchio. «Vuoi sapere cosa c’è dentro. Se te lo dicessi non ci crederesti. Vuoi scommetterci?».
Annuisco col capo, ma sono catturato da quella porta e non riesco a distogliere lo sguardo.

«C’è un angelo. Ho catturato un angelo».
A quel punto lo guardo perplesso.
Era tutto così folle e improbabile che in quel momento pensai che potesse essere anche vero.

«Visto? Non mi stai credendo. Non mi stai credendo davvero. Tu vuoi vedere oltre la porta, vuoi superare l’uscio. Vai, vai a vedere. Ma non vedrai nulla, per ora».
Corro ad aprire la stanza e trovo uno sgabuzzino con scope e carrelli per pulire.
«Ahahah» ride il vecchio con fare sincero, «Ti prendevo in giro. Vai, non perdere il treno, sei già parecchio in ritardo per il tuo appuntamento con Pablo», disse e mi salutò con un cenno della mano.
«A-arrivederci» balbettai.
«Arrivederci» mi rispose e andò verso la porta, mentre io correvo verso la metro.

Era quella giusta ci ero arrivato sul serio e il treno era in arrivo.
Tuttavia continuavo a pensare: “Come fa a sapere dell’appuntamento? E di Pablo?!”.
La metrò arrivò e si aprirono le porte.
“Dove sono finite tutte quelle persone?”.
Le porte si chiusero, ma non presi la metro.

Corsi indietro e tornai davanti la porta.
Misi la mano sulla maniglia e sentii venire dalla stanza un suono di voci bisbiglianti la stessa cantilena. Aprii piano uno spiraglio e cercai di guardare dentro.
Mi sporsi di più e infilai la testa. Vidi le persone in cerchio intorno ad una sfera bianca. Guardai con attenzione, la sfera era sospesa in aria e una catena scendeva in un pozzo sotto di essa. Mentre guardavo rapito la sfera si schiuse, capii che era fatta di piume. Le persone smisero di vocalizzare. Le ali si dispiegarono, erano tre paia e allora vidi un grande occhio al centro che puntava su di me. Il terrore mi avvolse spezzandomi il fiato. Dalle ali spuntarono mille altri occhi puntati nella mia direzione e anche gli adoratori presero a voltarsi verso di me.
Chiusi la porta e corsi lontano.

Ripresi la strada per la metro.
Era appena arrivata, spinsi per entrare e rimasi fisso a guardare le porte.
Il tempo che ci misero a chiudersi mi sembrò infinito.
Il cuore martellava nel petto. Quando le porte si chiusero vidi alla banchina il vecchio.
Si tolse il cappello e lo agitò per salutarmi.
Il labiale diceva: “A presto”.

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di Guendalina Bruni
Illustrazione di Arturo Di Grazia

Fa appena chiaro, e ho già bisogno di uscire. Mia madre si è alzata, le do istruzioni per il
biberon e vado. Dove non so ancora. Scendo saltando disordinatamente gli scalini, con la
fretta di chi scappa da un edificio in fiamme.

Mi avvio alla fermata, mi infilo svelta nel tram che per fortuna stenta a ripartire.
Lo scatto fulmineo mi costa una fitta al tendine della caviglia sinistra. Mi siedo e pulisco le lenti
appannate degli occhiali con la sciarpa che mi sono appena sfilata.
“Celibi geografici. È questo che siamo”, mi diceva.

Il veicolo si rimette in marcia lentamente, sotto gli occhi rassegnati di un individuo incappucciato: la sua mano, che fino a un attimo prima insisteva sul pulsante di apertura, è ormai caduta a peso morto lungo i fianchi.
Accenno un mezzo sorriso che si spegne subito quando riporto lo sguardo all’interno e scovo la signora
con lo yorkshire seduta davanti a me intenta a scrutare il bottone della mia giacca.
«Buongiorno», intono ardita, con la chiara intenzione di farle notare il suo gesto imbarazzante.
Di scatto i suoi occhi fanno marcia indietro su di me, risponde “buongiorno” e germoglia un
sorriso, le rughe della fronte si distendono; per un attimo sembra che abbia allentato la presa
del guinzaglio.
È solo a quel punto che si sfila il cappello, e sopra l’orecchio destro compare
un’enorme benda, confezionata da mani esperte.

Gare.
Alla fermata della stazione le porte si aprono e il sali e scendi frettoloso provoca uno
spostamento di aria fredda che mi grattugia la faringe. Il tram si è mosso talmente piano che
ho l’impressione di esserci arrivata camminando, la vista dei binari mi si profila davanti come
una carrellata in slow motion; nell’eternità degli istanti passati ad aspettare di ripartire mi
distraggo osservando le persone che camminano maldestre; si aggrappano alla griglia
metallica del recinto ferroviario schivando cadute rovinose sulla neve indurita dal gelo.

Sorprendo la signora fare lo stesso, cerco di indovinare i suoi pensieri, che devono essere
pressappoco uguali ai miei, a giudicare dalla mano che si porta al collo per sigillare il cappotto.
Compie il movimento ruotando la testa verso destra, ed è allora che vedo una macchia si sangue fresco sbucare da dietro alla benda. Il tram riparte e la signora incalza: «Ha una bellissima giacca, non se ne trovano più di così».
«Di così come?»
«Di lana cotta. Era di sua madre?»
«Che cosa glielo fa pensare?» mi sorprendo a risponderle, e d’istinto accarezzo l’estremità a
punta del doppiopetto.
«Il taglio…deve averla comprata negli anni settanta».
Da quegli anni ad ora avranno prodotto sì e no un migliaio di imitazioni, mi verrebbe da
ribattere.
Invece prendo la palla al balzo e insinuo: «Un po’ come il suo cappello».

Les granges
Siamo nella zona rossa della città.
E pensare che fino a sei mesi fa ci venivo tutti i giorni a lavorare. La conosco come i buchi del mio pigiama. Un enorme edificio diviso in svariati settori circonda il parco Jean Verlhac, un tempo centro di spaccio, oggi declassato a vivaio di povertà confinata: una pattuglia mobile staziona davanti all’ingresso principale con lo scopo di mantenere la situazione sotto controllo, impedisce l’accesso ai malintenzionati, lasciando che i tafferugli restino privilegio dei condomini.
“Che si scannino tra di loro”, avrà ben pensato il sindaco. Ci ha fatto costruire anche un nido e una scuola elementare, con entrata diretta dal parco. Una mini città, tessuto impermeabile, premio fedeltà per il suo elettorato borghese. Il più delle volte andavo in macchina, per potermi poi spostare con più agilità quando ci vedevamo all’ora di pranzo: lasciavo i miei colleghi a riscaldare i loro Tupperware nell’unico
microonde del secondo piano, e mi dirigevo al centro commerciale a due chilometri da lì, con la scusa di un acquisto last minute.

Ci vedevamo nel grande parcheggio al primo piano, in uno dei pochi punti dove si potevano vedere il cielo e le montagne glassate dalla neve perenne. Le nostre mani si ritrovavano a frugare impazienti nel sedile posteriore di una delle due auto, sbottonavano pantaloni e camicette alla ricerca di contatto profondo.

Edmée Chandon
«Beh, buon viaggio, io sono arrivata».
La signora abbottona il cappottino impermeabile del suo cane e si dirige verso le porte e quando il tram si ferma del tutto spinge il pulsante e sparisce costeggiando la linea spartiacque tra città e periferia, dove le insegne a neon dei barbieri sgomitano tra Carrefour City e Lidl.
I cassonetti depositati sui marciapiedi intralciano il passo, offrendo perlomeno un appoggio
fortuito contro le cadute innescate dal ghiaccio.
Chiudo gli occhi per spezzare quella sequenza di immagini, gli addii non mi fanno bene.

Centro commerciale Grand’Place
Li riapro e son lì di fronte, ormai sola su questo tram che ha viaggiato lontano, sotto lo
sguardo del capomastro della squadra di pulizia, che mi ha appena scosso dolcemente:
«Signora, capolinea». L’immenso ipermercato a tre piani fa ombra sull’area di manovra del
tram, in coda dietro al suo gemello che sta per ripartire in direzione centro-città.
Le ringhiere del parcheggio, dipinte di rosso come la “C” del logo, scoloriscono lasciando posto alla
ruggine. Sono di fronte a quello che resta di quell’amore vissuto tra sedili umidi, finestrini
appannati e telefonate scomode, finito tra le righe di un messaggio scritto controvoglia.

Ignoro il tram in partenza e procedo per la rampa di accesso, scavalcando la sbarra del ticket.
Fuori ha ricominciato a nevicare, il cielo si è chiuso in un batuffolo biancastro, la signora avrà già
iniziato a spadellare. Io avanzo infreddolita, cercando di compensare il tepore del vagone su
cui ho passato l’ultima ora. Arrivata al primo piano, abbandono la rampa e mi faccio strada
lungo il passaggio pedonale, giù verso il fondo, incontro a quello spiraglio di cielo che
guardavamo dal parabrezza.
Un’auto blu elettrico ha preso il posto della tua.

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di Simonetta Gallucci

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

«Signorina, la fermata non è più qua» mi dice un ragazzo biondo, capelli a spazzola, mentre sto fumando una sigaretta via l’altra sulla banchina.

«Da quando?» chiedo.
«Da stasera».
«Difatti, mi pareva».
Quando sono arrivata, alle sei di stamattina, sono scesa proprio su questo marciapiede dove ora pesto la cicca con la punta delle sneakers.

«Dovete girare l’angolo, è là dietro» continua il ragazzo.
L’uso del “voi” mi commuove. Lo guardo meglio: sulla giacca a vento colore blu autista ha il logo ricamato della compagnia di autobus leader nella tratta degli emigrati come me. Posso fidarmi. 

Il controesodo è già iniziato, siamo agli ultimi giorni di agosto.
Alla luce gialla di un lampione ci siamo soltanto io e una famiglia, padre madre e una bimbetta, a fare da all you can eat per le zanzare.
Recupero dalla borsa delle salviettine repellenti mezze asciutte: me ne passo una sul collo, sulle braccia, sulle caviglie. La madre mi guarda come gli affamati davanti alla vetrina di una pasticceria: «Tenga» le dico «non so quanto siano ancora efficaci, ma ci proviamo».
Lei sorride e fa: «Danke».

L’autobus arriva, consegniamo i bagagli: due valigie alte quasi quanto me per loro, un trolley mezzo vuoto per me. Ho avuto soltanto il tempo di sistemare, in frigo, in freezer e nella dispensa, le scorte di amore edibile per l’inverno: formaggi, carne e pacchi di taralli mezzi polverizzati, ma piuttosto che sprecarli sarei disposta a sniffarmi le briciole.
Non l’ho disfatta stamattina perché ero troppo stanca dal viaggio; avrei voluto farlo più tardi, poi le cose sono andate diversamente e, anziché svuotarla, l’ho chiusa e mi sono rimessa in partenza.

Scelgo il posto finestrino, e vedo le luci di Milano scorrere e sfocarsi man mano che l’autobus prende velocità. Anche i miei pensieri si sfaldano, si fanno liquidi; provo a rincorrerne uno finché riesco ad acchiapparlo: è uno di quei ricordi che, quando tornano, mi fanno spuntare un sorriso di tenerezza.

Abitavo ancora al paese, un posto così immobile che anche una giornata ventosa fa notizia.
Figurarsi un incidente.
Ero a casa della nonna quando qualcuno citofonò con tanta insistenza che lei, alzando lo sguardo da una federa sulla quale stava ricamando le iniziali per il corredo di chissà quale nipote (si portava avanti, anche se il più grande di noi poteva avere sì e no diciott’anni), mi disse: «Questo ha trovato la colla sul campanello. Apri tu, fammi la cortesia».

Era mio zio, col fiatone per la corsa e la rampa ripida di scale che portava su.
«Cos’è tutta ‘sta premura?» gli chiese la nonna.
«Ma’, Michele è andato a sbattere con la macchina».
«Michele chi?» domandai io.
«A chi appartiene?» domandò lei.
«Il figlio di commara Franceschina» rispose a entrambe lo zio.
«Dov’è successo?» chiesi io.
«Quand’è successo?» chiese lei.
«E quante ne volete sapere, tutte e due!» fece lui. «Manco la creanza di darmi un goccio d’acqua, prima».

Scambiai uno sguardo con la nonna e lei assentì con la testa: per educazione, prima di toccare qualsiasi cosa, chiedevo il permesso.
Presi un bicchiere dal pensile e dell’acqua.
«Ti faccio l’orzata» disse a lui, e a me: «Prendi pure i uafer».
Non si capiva la ragione, ma d’estate a casa sua erano immancabili i wafer stantii tenuti in frigo.

Mio zio bevve d’un fiato, prima di continuare il racconto: «L’ho sentito in piazza. Dice che ha preso male la curva degli stramurali e si è cappottato con la macchina».
«E come sta?» chiese la nonna.
«L’hanno portato all’ospedale».

Michele lo conoscevo, suo figlio era un mio compagno di classe.
«Ma è vigile?» domandai allo zio ma, prima che lui potesse rispondere, intervenne mia nonna, con la sicumera dell’anziana saggia che corregge la gioventù: «No! Ha sempre fatto l’ortolano!»

Quell’involontario sketch era passato di bocca in bocca e, a ogni ricorrenza, veniva ripetuto da uno qualsiasi dei commensali: era uno dei copioni condivisi di quella tragicommedia intitolata “memorie famigliari”.

Mi muovo sul sedile.
Provo a chiudere gli occhi, mi forzo per tentare di dormire. Ma nulla; non mi resta altro che giocare con uno degli elastici che porto al polso.
Quand’è successo?, mi chiedo.
Quand’è che sono invecchiati?
Quest’estate, quando sono tornata per i cinque giorni di autonomia che ho prima di mostrare segni di insofferenza, li ho trovati tutti più acciaccati di come ricordavo: mio padre si lamentava per il mal di schiena, mia madre per i denti e la nonna era stranamente inappetente. Non aveva rinunciato però al suo piacere: il vino. Al pranzo di Ferragosto lei era a capotavola, e io al suo fianco; le avevano versato soltanto due dita di rosso allungato con l’acqua: lei mi ha dato di gomito e si è fatta passare la bottiglia, con gli occhi lucenti di furbizia.
Cosa mi sto perdendo?
È una domanda che mi faccio da un po’, ma non l’avevo avvertita mai con l’urgenza di questo viaggio interminabile nella notte, accartocciata sul sedile di un autobus che sta tagliando l’Italia. E che vorrei sorpassasse a sinistra, ma pure a destra, che passasse sopra o sotto, che si mangiasse l’asfalto, i camion, le auto, che bruciasse gli autogrill.

Purché arrivi in tempo.

La prima telefonata l’ho ricevuta intorno a mezzogiorno: era la nonna.
Mi aveva fatto una videochiamata, voleva salutarmi e chiedermi com’era andato il viaggio, ma teneva il cellulare troppo vicino alla faccia, di lei vedevo soltanto la dentiera.
Ho provato a dirle di allontanarlo, ma non capiva, allora mi sono innervosita e l’ho liquidata, dicendole che ci saremmo sentite presto.

La seconda era una chiamata, invece, verso le quattro, da parte di mia madre: «Tutto bene il viaggio?»
«Al solito» le ho detto. È restata in silenzio.
«E voi tutto a posto?». Ancora silenzio.
«Oh, allora?» le ho chiesto.
«Ascolta, la nonna non si è sentita bene».
«Come sta?».
«L’hanno portata all’ospedale.»
E io, ora come allora: «Ma è vigile?»

Ho sentito dall’altra parte un singhiozzo represso: «Fa l’ortolana» e poi, quasi sussurrando: «Torna».

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di Giulia Lievore

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

Entro in metropolitana e il leggero profumo di cotton-candy, che arriva dalla borsa in plastica, scompare. Sono le sei e mezza di sera, tra una settimana è Pasqua e la M1 che passa per il Duomo è da un po’ che non la vedo così piena. Le uova e la cioccolata, fine e marrone, che stanno sopra la mia testa sono sostituite da spalle, braccia e gambe in cerca del loro posto.
Non ci sono facce, a stento ci si guarda negli occhi.

Vedo un palo, mi ci butto, lo stringo forte con la mano destra e subito altre due mani fanno lo stesso. Una sopra e una sotto, devo stare attenta a non sudare o rischio di scivolare e toccare la mano di uno sconosciuto. Al limite della visuale concessami dal cappello in crochet, lo vedo.
È ben più alto di me, il metro e ottanta lo supera di sicuro, da sotto il basco escono dei riccioli biondi e la sua guancia è perfettamente sbarbata. Con la spalla gli tocco l’avambraccio che è morbido e soffice avvolto all’interno di un coprispalla lungo e squadrato color verde menta.
Potremmo essere una bella coppia, penso.

Con quel braccio mi cinge, mi protegge dagli urti degli sconosciuti, mi offre una delle sue cuffiette e ascoltiamo insieme un album tutto fronzoli e musichette di John Mayer fino a scendere alla nostra fermata. Prima di arrivare a casa ci fermiamo a comprare una bottiglia di vino,  l’indiano del mini market ci saluta per nome e ci augura una buona serata. Lui pela le patate e io scaldo l’arrosto, beviamo il vino da calici in vetro e facciamo finta di discutere se passare la Pasqua dai suoi o dai miei, è solo un’altra scusa per fare l’amore, ormai lo facciamo sempre. 

Usa le cuffiette con il cavo, non quelle bluetooth, è un artista e non è mai stato interessato alle implementazioni tecnologiche e alle lunghe file fuori dagli store minimalisti del centro. Da qualche anno nel suo comodino tiene un diario dove la mattina, appena sveglio, appunta i sogni che riesce a ricordare. Una volta trasferiti nel cottage ristrutturato che sua zia bretone gli ha lasciato in eredità, avrebbe letto quel diario al nostro primo figlio.
Nello Yorkshire piove spesso ma non mi importa, mi ha comprato degli stivali in gomma color vermiglio e trovo che la pioggia sia attraente, anche se, ammetto, sono più le volte che la guardo da dietro la finestra. Non lavoro, a quello ci pensa lui, non me l’ha neanche dovuto chiedere, è stato così e basta. Provo a scrivere romanzi che non riesco mai a finire. Bevo in continuazione tazze di tè caldo dolcificato con del miele e scrivo storie d’amore ambientate in Sud America, Italia, Russia, Brasile e Australia ma sono tutte uguali perché parlano di lui.

Qualcuno mi spinge, da dietro, i miei blue jeans sono spessi, devo ancora fare il cambio armadio, ma riesco comunque a sentire una protuberanza che è indubbiamente la zip, con la punta metallica, della patta di un uomo. A fatica, riesco a girare la faccia, alzo un po’ il mento per aumentare la visuale.
È un vecchio, non mi guarda, ignora il risentimento nelle rughe del mio volto; non mi guarda ma il suo pube è appoggiato alla mia chiappa destra. Mi fa ribrezzo, vorrei spingerlo via ma non riesco, con un braccio mi tengo al palo e con l’altro reggo la borsa: l’ennesima candela che mi sono ritrovata a comprare. Per un attimo penso se tirargli uno scrollone con il bacino ma cambio subito idea: il suo sesso sarebbe ancora più attaccato al mio sedere. Riesco a immaginarmi il suo stomaco in subbuglio, sento i suoi pensieri allietarsi grazie al profumo dei capelli che ho lavato prima di uscire. Mi pare quasi di respirare l’odore rancido e acre del suo alito, filo d’aria inquinata che mi sfiora la guancia.
Voglio piangere e alzo gli occhi, grandi e umidi, alla ricerca del mio salvatore, del mio futuro marito. 

Non mi guarda, mi ignora mentre fa zapping tra una storia e l’altra di Instagram, vedo una palestra e delle grosse tette; poi forse un tramonto.

Sarebbe dunque andato a finire così, il nostro matrimonio?

Dopo il primo figlio sono più sola di prima, il cottage è troppo grande da pulire e oltre alla casa e al bambino devo badare ai cani, l’ho pregato di non prenderli ma l’ha fatto comunque. Mai una volta che li porta fuori lui. Gli stivali in gomma hanno smesso di essere allegri nel loro rosso vermiglio ma sono costantemente ricoperti di fango, scuro e grumoso. Dormiamo in stanze separate e ci incrociamo solo la mattina per la colazione, sembra una casualità ma non lo è.
Mi sveglio presto per salutarlo e, anche se continuo a indossare il pigiama, mi sistemo viso e capelli come se dovessi uscire anch’io.
La sera, a cena, non c’è mai.

Siamo vicini solo quando abbiamo ospiti, mi bacia spudoratamente davanti a tutti, mi cinge il bacino da dietro mentre taglio generose e geometriche fettine di filetto alla Wellington, il suo preferito. Una volta salutati gli amici, mi ritrovo nuovamente sola a riempire la lavastoviglie.

Scopiamo una volta al mese, quando invito la mia migliore amica a passare con noi la domenica.
Lei non ha figli, si sporge sul bancone in marmo dove lui sta riempiendo bassi e pesanti bicchieri di Bloody Mary, vi posa i seni e i capezzoli le diventano turgidi e abbaglianti, come due piccoli fanali di macchina.

Quando andrà via faremo l’amore, durerà poco e io lo chiamerò mettendo la Y alla fine del suo nome proprio come fa lei. Mi lascia sul letto, macchiata, e va in doccia. Non ho voglia di lavarmi. Sul comodino ci sono dei kleenex, mi pulisco l’ombelico, piego il fazzoletto e lo metto dentro al cassetto.

The next station is Loreto.

Scendo.

Con il secondo marito, forse, andrà meglio.

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Stazione Termini, mezzogiorno in punto.
Il caldo è insostenibile, ma comunque mi trascino all’interno dell’edificio. Dovrei mangiare qualcosa, ma, francamente, non ne ho la minima voglia. Sono ancora frastornato da ieri sera. Vorrei dire che è stata l’anima di Trastevere a stordirmi, ma, oggettivamente, è più probabile si sia trattato delle birre bevute al Callisto.

La testa rimbomba per la sbronza e io mi siedo su una panchina.
Un caffè a portar via nella speranza che mi rimetta al mondo. Do qualche sorsata; comincio a stare meglio: riesco a ragionare.
Il pensiero mi va subito al tabellone delle partenze. Manca ancora un’ora al mio regionale per Jesi. Di lì a casa, poi, ne avrò per altri 20 minuti almeno.

Il mio secondo pensiero è fulminante.
Tasto la tasca anteriore del mio zaino sdrucito e riconosco la sagoma del libro che mi ero portato per “ingannare l’attesa”. L’espressione mi ha sempre infastidito: la trovo irrispettosa. Come se il tempo che ci scava addosso i suoi segni potesse farsi imbrogliare con degli espedienti così ingenui.
Purtroppo, mi ricordo che quel libro l’ho finito durante il viaggio di andata. Niente trucco; niente inganno.

Rifletto sul fatto che non sto leggendo quasi nulla ultimamente. La cosa è abbastanza rara. Sono sempre stato molto disciplinato, e la lettura, anche se da comodino, ha sempre fatto parte di una precisa routine, creata ad hoc per convincermi di dominare il tempo attorno a me.

Ad ogni modo, il libro che mi ha portato a leggere di nuovo dopo tempo è stato La metamorfosi di Franz Kafka. In realtà, la vergogna provata al pensiero di non averlo letto in 23 anni di vita è stata un movente più che sufficiente.

La storia, proverbiale, è semplice e assurda.
Gregor Samsa, un giorno, semplicemente, si sveglia nelle spoglie di uno scarafaggio. Chiuso nella sua camera, a poco a poco, prende coscienza della sua condizione e così fanno i suoi cari. Non c’è accettazione, tuttavia: solo la consapevolezza di un anatema abbattutosi senza motivo su una famiglia borghese qualunque. Gregor muore solo, in mezzo al cibo fetido, l’unico che soddisfi la sua fame di blatta, e circondato dai miasmi emessi dal suo corpo ferito.
La banalità di una tragedia qualsiasi, accaduta ad un uomo qualsiasi, nel modo più assurdo possibile.

Questo libro mi colpisce, o meglio, mi disarma.
Una vita da impiegato, a svolgere il proprio compito, per poi morire intrappolato, inviso a chiunque per una colpa che non si è commessa. La cosa più sorprendente, però, è la lucidità del protagonista. Le nozioni di vita basilari che egli cerca di applicare all’assurdità della sua condizione. Mi torna in mente Don Chisciotte, col suo cuscino usato a mo’ di scudo, sopra una cavallo macilento, eppure convinto di essere un cavaliere. C’è una discrasia dolorosa fra le nostre possibilità e le contingenze in cui ci ritroviamo incastrati, cioè la nostra vita. Kafka lo sa bene, e ce lo sbatte in faccia con tutta l’eleganza di una piroetta prima del fendente decisivo; un inchino dopo lo sparo dritto al cuore. Guardo in basso: sull’orologio sono le 12.42. Il tempo è volato. Forse anch’io, come tutti, sono riuscito a ingannarlo per davvero. Corro al binario trafelato. Salgo nel vagone circondato da uomini in camicia e giacca, a tracolla una ventiquattr’ore. Me li immagino come rumorosi scarafaggi che ticchettano con le zampe sul sedile e si barcamenano per stare in piedi. Davanti il dovere, dietro pure: troppo concentrati su uno scopo per capire che non dipende da loro il fatto di volerlo raggiungere.

In realtà, non credo di essere completamente diverso da loro. Mi sento, però, avanti di una mossa: se dovessi svegliarmi in quelle condizioni, sarei in grado di accorgermene, ma non farei il minimo sforzo per cercare di capire.  

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Stavolta mi sono trattato proprio bene.
Sono persino riuscito a prenotare un posto in business class a un prezzo ridicolo, quasi un premio per tutti i chilometri di ferrovie di stato che ho percorso col culo su un cigolante regionale. La destinazione è Foggia. Meglio: la destinazione è il Gargano, Foggia è la tappa obbligata per arrivarci, l’unica con una stazione di arrivo. Il viaggio è piuttosto breve.
Dovrei cavarmela in tre ore partendo da Ancona.

Il treno si ferma ronzando alla stazione di Pescara e una fiumana di persone assalta lo sportello più vicino, in un’insensata gara a guadagnarsi la prima boccata d’aria abruzzese. Un dettaglio mi colpisce, fra la folla. Qualcuno ha lasciato dietro di sé la scia di un profumo fortissimo. L’odore è delicato ma inconfondibile, come lo schiaffo di una mamma troppo indulgente. Con la scusa di andare in bagno mi avvicino al portellone, sperando di trovare una traccia più persistente. Niente da fare.
Come sospettavo, l’odore si spegne proprio in corrispondenza dell’uscita.
Lo sportello mi si chiude in faccia inesorabile, definitivo.

Torno a sedere disilluso e francamente seccato. Sicuramente quello era un profumo femminile, agrumato e fresco. Non sono mai stato un grande esperto. In genere associo le fragranze alle persone, e le persone ai ricordi, perciò il profumo per me è sempre stato veicolo secondario di sensazioni più forti: la delusione di una ragazza che si allontana; l’abbraccio di un amico in una serata ebbra; il tono perentorio di mio padre prima di andare a teatro: vestiti bene!
Stavolta è l’opposto. Mi resta solo una fragranza ‒ che, com’è ovvio, non riconosco ‒ senza nulla a cui associarla.
È come in Sotto il sole giaguaro di Calvino.

L’ultima raccolta di racconti di Calvino non è finita, ma il progetto rimane geniale: cinque racconti per cinque sensi.
All’appello mancano solo il tatto e la vista.
L’olfatto, non a caso, è il primo: tre storie diverse per la medesima trama. Bisogna trovare una persona di cui si conosce solo l’odore, invertendo la gerarchia sensuale della conoscenza. Poi l’udito, con la storia del re prigioniero della sua corte, e infine il gusto, viaggio culinario in un Messico spietato e tribale, come i templi aztechi e i loro sacrifici umani. Quando lo lessi, mi spiacque molto non poter immaginare come avrebbe fatto Calvino a confrontarsi con gli altri due sensi, soprattutto con la vista. Ricordo altrettanto bene, però, l’impressione suscitata dalle parti concluse. In particolare la prima, sull’olfatto, mi aveva consegnato una frustrazione unica. Dove decadono gli altri sensi, le altre conoscenze, rimane solo una traccia d’odore. Poche distinte note olfattive che costruiscono una personalità di volta in volta diversa, in ogni luogo e epoca, come testimoniano le ambientazioni dei tre racconti. Inutile dire dell’inconcludenza di ogni ricerca.

Mi rendo conto che sono caduto anche io vittima della fascinazione dell’odore. Anche io, di fronte allo sportello appena chiuso, avevo cominciato a ricamare su quelle note una persona fisica che non avrei mai trovato. E anche a trovarla, l’immagine non avrebbe mai soddisfatto l’idea di quel profumo, decisa e spregiudicata. In effetti, si può dire lo stesso per un sacco di cose, ma ormai è tardi per pensarci. Lo sportello si sta aprendo anche per me. Siamo arrivati a Foggia in ritardo (con un regionale non sarebbe mai successo) e mi tocca scendere nella calura estiva del Tavoliere, che un po’ mi ricorda i colori sbiaditi del Messico di Calvino.

Come da rito, appena sceso dal treno accendo una sigaretta.
Il fumo del tabacco ottunde il mio olfatto; si prende tutta la mia capacità di odorare il mondo che mi circonda, di conoscerlo. Poco male però, perché davanti alla stazione posso solo sentire il puzzo dello smog e del piscio che chiazza i muri esterni dell’edificio. Forse, varrebbe comunque la pena di smettere di fumare. Ma poi ci ripenso: i profumi significano ricordi, e i ricordi, specie se belli, sono pericolosi.

Spengo la sigaretta alla bell’e meglio e la butto via sperando che non prenda fuoco il bidone. Devo salire sul bus che mi porterà a Vieste. Anche qui il portellone si chiude, ma l’odore che mi pungola è quello del sudore stantio dei miei compagni di viaggio, al quale io mischio quello del tabacco appena bruciato. Penso che su quell’autobus l’odore agrumato del treno non lo avrei nemmeno sentito. Penso che su quell’autobus la donna del mio pensiero non sarebbe mai esistita.    

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Ultima ora di treno. Sono in piedi dalle quattro di questa mattina e forse, dopo un aereo e due autobus, sto per arrivare a destinazione.

Non pensavo che ritornare da Berlino sarebbe stato così complicato, eppure mi sembra di viaggiare da giorni. Ad ogni modo, guardando fuori dal finestrino, seduto sul mio sedile pagato poco “perché-l’ho-preso-un-mese-prima”, ritrovo un senso di benessere.

Ho sempre pensato che i treni fossero un mezzo di trasporto privilegiato, anche più degli aerei.
Oggi me ne sono reso definitivamente conto.

Gli aerei mostrano le cose dall’alto; la vista è affascinante.
Allo stesso tempo, però, tutto è molto innaturale, tutto così distante.
Quel mondo non mi appartiene. Non mi è dato di guardare le cose tutte insieme, con una prospettiva completa, in viaggio come nella vita. Il treno, invece, è come un microcosmo che si muove in un mondo che posso abbracciare naturalmente, col mio fallibile sguardo di viaggiatore. Nelle cabine ognuno vive la sua vita, all’esterno della carrozza, pure. Il treno passa stazioni, paesi sperduti, periferie gremite con parchetti troppo vicini alle rotaie, e nel frattempo trasporta persone attraverso questi scenari. Tutto mi si offre nella sua interezza umana, non prospettica, eppure mi è precluso, con tutto il fascino che questo divieto comporta.

Penso che un autore ha dato corpo alle mie divagazioni: Boris Pasternak nel Dottor Zivago.
Il treno è la promessa di una nuova vita a Varykino per la famiglia del dottore, eppure, prima di tutto, è la macchina che trasporta attraverso il tempo e lo spazio della rivoluzione d’Ottobre. I vagoni sono stipati di storie più che di persone, e ogni passeggero si trova a passare attraverso le macerie della Storia che si sgretola, sotto i colpi di un avvenire più incerto delle idee che lo hanno profetizzato.
È tutto in quel fetido vagone, fra le urla dei bambini e i discorsi sconclusionati di uomini e donne incapaci di capire cosa accadrà. Il dottore sta in silenzio e, quando non riflette, guarda fuori, pensando a Lara.
Il treno è anche il mezzo che ricongiunge il protagonista alla donna che ama più di quella che dovrebbe amare, anche se lui non lo sa. Tutta la vicenda si racchiude nella locomotiva scricchiolante che divide il romanzo in due parti. Il treno è l‘unico mezzo per unire la storia privata di Zivago e la Storia che la comprende, con l’intento di soffocarla.
La Rivoluzione e l’amore aldilà di un unico finestrino che si muove lentamente, fra paesi diroccati e stazioni dismesse.

È la mia fermata, finalmente.
Scendendo gli scalini, comunque, sento che mi dispiace essere arrivato.
Sono esausto, ma mi metto a fantasticare sulla possibilità di una vita trascorsa passando accanto alle cose, troppo vicino per toccarle. Rifletto sulla possibilità di scorgere infiniti scenari, scorrendo via talvolta a passo d’uomo, talvolta in velocità, affidandomi a un conducente di cui non conosco neanche il volto, ma che so capace di portarmi a destinazione.

È inutile, questo treno proseguirà anche senza di me.
Posso solo guardarlo partire. Mi ha risputato nel macrocosmo delle macchine parcheggiate a chilometri di distanza per non pagare la sosta prolungata. Salgo in auto e metto in moto. Non ho per niente voglia di guidare, ma nel mio solitario abitacolo comincio un viaggio fatto di traffico e tensione, senza possibilità di distrazione.
Penso che non posso permettermi un autista.
Poco male: un treno ogni tanto costa meno.  

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di Antonio Sutera

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Ora di pranzo.
La mia abitudine è di mangiare poco e presto, in un caffè molto buono ma discreto.
Il luogo è frequentato solo da noi pochi, persone di gusto e di rango; qui mi conoscono tutti.
Sì, mangio da sola, lo facevo anche prima che mio marito morisse: quando si ascoltano chiacchiere tutto il giorno, fa piacere avere dei momenti di silenzio per sé.
In altri posti la gente fa così tanto baccano! Ma deve essere entrato qualcuno. Tutti si sono voltati verso l’ingresso, dallo sconcerto è chiaro che i nuovi arrivati non devono essere del solito giro. No, non sono qui per mangiare. Li intravedo mentre si dispongono ai lati del mio tavolo, abbastanza da farsi notare. Di qualunque cosa si tratti, il tempismo è degno della peggiore maleducazione. Il locale sta tutto con il fiato sospeso, le forchette mezz’aria. Passa ancora qualche momento e mentre spezzetto una brioche (il medico mi ha detto di fare bocconi molto piccoli), si decidono infine e si piazzano davanti a me, ostruendomi la vista degli altri tavoli. 

«Buongiorno, signora». Sto ancora masticando, buon dio.
Sono maleducati e hanno anche fretta. Non sarei certo scappata a stomaco pieno: è terribile per la digestione. Finisco il boccone, sospiro e mi alzo lentamente; poso il tovagliolo sul tavolo, faccio strada verso l’uscita. Lo sguardo degli altri clienti seduti è di compassione e di silenzioso supporto.
Questo breve tragitto è un oltraggio alla mia dignità che sembra non finire mai.

Fuori mi aspetta un sole forte che paro dietro le lenti scure.
La vettura è sicuramente quella, si capisce anche prima che aprano la portiera da dentro. Come se fosse un segnale convenuto, e forse lo è, i due mi lasciano andare da sola ed entro.
La carrozza è spaziosa, foderata in verde limone. Sembra di stare dentro un agrumeto dei paesi del sud. Anche le tende nere e spesse mi ricordano latitudini non mie. La chiusura dello sportello, da parte credo di uno dei due omoni in blu, mi riscuote. Passano alcuni momenti di attesa nel silenzio totale.
«Può partire!» grido al cocchiere. 
Mi sento di riprendere in mano il controllo di questa situazione iniziata male. Ma non parte, anzi un attimo dopo entra qualcuno. È un uomo maturo, alto, magro, con capelli e barba precocemente bianchi e lui stesso vestito di bianco, anche se di un bianco logoro, spento. Si sistema di fronte e dà due colpi col bastone allo schienale dietro di sé, sulla cornice di legno marrone scuro.
Adesso il viaggio può cominciare.

È un viaggio lungo, interrotto quattro volte dall’ingresso di altre tre persone e dall’uscita del secondo arrivato, poco prima della fine del viaggio, azione che considero una vigliaccata bella e buona. Insomma, arriviamo in quattro: io, il signore bianco, due ospiti.
Una è una bambina bruttina, di circa dodici anni e il vestito con gonna alle ginocchia. La seconda una signora sui sessanta. Ma andiamo con ordine.

L’arrivo del signore bianco non mi diede, come invece avrebbe dovuto, l’idea del rapimento; questo perché, nonostante sia chiaro che è lui il padrone della carrozza, e dev’essere anche ricco, da come è vestito, non ha detto una sola parola da quando è entrato, e un rapitore dovrebbe immediatamente vantarsi della buona riuscita del piano o del suo potere, tanto più in una operazione cristallina, alla luce del sole, come questa. Avrebbe potuto almeno minacciarmi di conseguenze vaghe e terribili lungo tutto il viaggio; ridere di gusto della mia impotenza, mostrare un’arma, anche solo per scoraggiare la fuga. Niente, la sua espressione è soddisfatta, ma proprio non intende parlarne.
Eppure sento che ci deve essere un motivo grosso dietro al fatto che sono stata privata di una parte del pranzo e interamente del dessert. Gli appuntamenti non sono così bruschi; si manda un invito con giusto anticipo. Mi sento sinceramente offesa, ma poiché è ragionevole che non mi sarà concesso scendere prima di arrivare a destinazione, devo trovare un diversivo. Per fortuna mi distraggo facilmente. Le tende sono di seta, morbidissime. Dietro di esse scopro un paesaggio traslucido disegnato sul vetro del finestrino: un paesaggio campestre dipinto a toni accesi e in modo grossolano. Il volto del taglialegna, ad esempio, è tutto indistinto. Le pecore lasciano intravedere, sotto il bianco troppo debole della lana, il vero paesaggio fuori, con l’effetto che le pecore sembrano avere viscere trasparenti e cangianti. Il disegno è abbastanza invadente da impedirmi di farmi un’idea delle vie che attraversiamo, ma senza dubbio siamo ancora in città.

Non troppo tempo dopo ecco la nostra prima ospite.
Il signore bianco ha aperto un orologio a cipolla piuttosto largo e piatto e battuto il bastone una volta.
La carrozza si è fermata all’istante.
La bambina è bassina, bionda più di me, con l’aria imbronciata. Anche da lei sembra che non possa aspettarmi una conversazione brillante. Ha in mano un taccuino da disegno e carboncini e guarda al vetro, forse per imprimere nella mente il rozzo paesaggio disegnato e ricrearlo sul foglio.  A sorprendermi è invece il secondo ospite, che ci lascerà poco prima dell’arrivo. Non si toglie il cappello entrando, e sembra esagitato e sorridente. Dopo due minuti di permanenza accanto al signore, decide di sdraiarsi sul fondo della carrozza, tra le gambe di tutti (quelle della bambina non arrivano che a metà sedile). Così rimane, col sorriso sul volto e le mani incrociate. Potrebbe anche sembrare che lo stiamo vegliando, messi così, ma il suo sguardo vivace passa da uno all’altra dei passeggeri, in modo proprio indecoroso.

È chiaro che sta per esplodere.
«Signorina» dice alla bambina, «Signora» dice a me. «Signore» dice con un sorriso ancora più largo al signore in bianco, che si guarda intorno con fare seccato. Passano due secondi di silenzio.
«Allora, dove andate?»
«Da dove viene lei?» contro chiedo io: «A che altezza è salito?».

L’uomo in bianco lo prende per un colpo basso e si mostra dispiaciuto, come avessi detto una parolaccia. Il signore sdraiato, invece, è raggiante. «Piacere, signora, sono felice che voglia parlare con me. Mi sembra che i nostri altri due compagni di viaggio cercheranno di evitarmi il più a lungo possibile». «Lo credo bene» ribatto io «sta tra i piedi a tutti quanti qui. Io stessa parlo con lei solo per dare fastidio al mio rapitore, sa, l’ometto in bianco che finora non mi ha dato lo straccio di una motivazione di quanto sta succedendo. Di lei, mio caro, mi importa poco. Della bambina, ancor meno. Ma non se ne abbia a male, piuttosto risponda alla mia domanda».

«Nessun’offesa» ribatte lui. «E se crede che io stia qui in basso a dare fastidio, giusto per rimanere in tema, ecco! No, sono qui giù per il motivo opposto: non farmi notare. Anche lei, non si preoccupi di guardarmi, o le verrà il mal di strada. Può fare finta che io non esista».
«La domanda, mio caro» insisto guardando il finestrino istoriato.

«Certo, certo. Ero uscito a comprare qualcosa, non ricordo cosa, mi scusi. Per conto di mia moglie e dei miei figli. Sa, sono impiegato in una media azienda, sono contabile, ma non l’unico, no. Ce ne sono altri. Comunque, il lavoro non manca lo stesso, anzi direi che vedo la mia famiglia assai poco. Ho spesso il timore che un giorno mi rinfacceranno…».
«Le assicuro di no, stia tranquillo. Quindi, cosa è uscito a comprare?»

«Patate, credo».
«Patate? Morite di fame in famiglia?».
«No. Oddio, non credo» risponde lui turbato.
E smette di parlare, ma sento che tra sé mormora qualcosa su dei bambini affamati.
«Non si turbi, la prego! Allora, non sono patate. Oggi è domenica ed era ora di pranzo. Si trattava di piante, ma non di patate. È uscito a comprare dei fiori». Azzardo.
Il suo volto preoccupato si chiarisce di colpo.
«Vero, signora! Lei ha del talento!».
«Può darsi» dico io. «Ma ora si concentri sul colore e la qualità dei suoi fiori, il posto dove contava di trovarli e ci lasci in pace». Funziona.
l’individuo rimane sul fondo della carrozza ma con gli occhi al soffitto, e sembra beato.

Devo avere qualità ipnotiche, penso.
Ma sono sempre stata molto convincente. 

Il viaggio prosegue nel silenzio, adesso. Noto con piacere che il signore in bianco sembra indispettito della mia chiacchierata. È il caso di rincarare la dose. Mi forzo quindi a fare qualcosa di insolito.
«Cara bambina, come ti chiami? Conosci il signore lì accanto a te?» dico melliflua.
La bambina continua a guardarmi col broncio.
«Ah, ho capito, è il tuo papà. Avete le stesse abitudini, vedo».
«No, signora, il signore non è mio padre. Non l’ho mai visto finora, ma come vede siamo tutti nella stessa situazione e non ne capirà di più finché non saremo arrivati».
Il discorsetto ha rianimato alquanto il nostro rapitore. Ha preso colore.
Consegna alla bambina un dolcetto a stecco ancora incartato che lei tiene in mano passivamente: è troppo impegnata a contemplare il paesaggio.
«Comunque, può sempre guardare fuori, non è tenuta a fissarmi tutto il tempo». «Mia cara, dal mio finestrino non vedo quasi niente, è del tutto decorato da queste figure parecchio rozze, se mi permette il nostro buon signore. Mi ascolti: lei sembra avere delle buone risorse. Londra è piena di artisti sfaccendati, sa? Potrebbe renderne felice qualcuno».

«Non saprei, signora, ma il mio è del tutto trasparente» si intromette la bambina. «Be’, ecco una buona notizia! Posso dare un’occhiata?».
Faccio per alzarmi, ma il signore in bianco mi punta contro il bastone e mi rimette al posto. Poi toglie con stizza il dolcetto dalla mano della bambina. In tutto questo ho quasi calpestato il secondo viaggiatore lì per terra, di cui ci siamo completamente dimenticati. «Scusi, lei, laggiù» dico.
Ma il signore è del tutto immerso in colori e forme di fiori.
Sarebbe molto utile sapere qualcosa di più sul nostro percorso.
«Signorina, mi puoi descrivere con precisione cosa vedi al finestrino?».

«Sono Margarethe, signora, e lei non si è ancora presentata. Vedo campi arati, pecore gonfie di lana, e lì giù c’è un paesino». «Quale paesino? È importante per capire dove andiamo. Lo riconosci?».
Ora si volta verso di me. «Sono tedesca, signora» mi dice gelida «Non so niente dei vostri pittoreschi villaggi». Il silenzio torna pesante, la bambina si immerge nella visione dal finestrino. «Grazie, comunque, cara» dico tra i denti.

Si sente dagli scossoni che il fondo stradale è cambiato.
Conosco questa strada, stiamo andando a ovest. Mi sembra una buona notizia, ho alcune amiche fuori Londra e mi sembra di riconoscere la prima parte del tracciato. Non siamo usciti molto dalla città, se è così. Dal finestrino il sole è ancora alto.

Dopo appena un altro po’ di noia insopportabile, ecco infine arrivare la nostra terza compagna. Una signora sui sessanta, gioviale. »Buondì” esclama entrando. L’atmosfera all’interno è quella che sapete. «Oddio!» esclama subito «Cosa ci fa lei laggiù? Si è fatto male?» dice rivolta sul signore in basso. «Non si preoccupi, signora, è una sua precisa scelta. Non lo guardi troppo, o le verrà il mal di strada.” intervengo io per evitare lungaggini.
«È ben strano, non si è neanche tolto il cappello» e poi, guardandomi: «Io sono Bettie, signora, e lei mi dà l’impressione di essere una gran dama.” «E lei, signora, mi dà l’impressione di essere l’unica persona in sensi di questo viaggio strampalato. Sono Anne. E mi dica, signora, dove è salita a farci compagnia, cosa di cui le sono profondamente grata? Forse dalla parti di Shifstenton?»

«Oh no, mia cara! Devo andare a Milbury street, qui a Londra. Sono salita a Battery.” «A Londra? Non siamo usciti dalla città?» Sono furibonda. «Bambina, perché mi hai detto che vedevi la campagna? Perché mi hai mentito?».
«Che accade, signora?» Dice Bettie «È solo una bambina impertinente, ne può trovare due così anche a casa mia».
«Signora» dico chiaramente «le sembra un viaggio normale, questo? Sono stata prelevata, dico prelevata, quasi di peso, dal mio ristorante, e mi ritrovo in questa compagnia, senza alcuna informazione, con quest’uomo muto come una tomba, il signore che vede qui sul pavimento, Dio sa perché, e una bambina tedesca. E saremmo ancora a Londra? Che razza di rapimento è questo, in pieno giorno? Lei non parlerà mai, eh?» Dico infuriata all’uomo in bianco.

«Signora, la prego. Da fuori questa sembrava una normale carrozza pubblica, non c’è motivo di allarmarsi. Non penso che ci sia di mezzo un rapimento».
«E perché non riesco a vedere fuori, se non per impedirmi di sapere dove stiamo andando?» quasi grido. La mia disperazione ha ammutolito tutti, mi viene quasi da piangere.
«Mi scusi, cara, per un attimo mi era balenato in mente che stessimo andando tutti in visita da una delle mie amiche, sa? Due mie grandi amiche abitano fuori Londra, verso Ovest. Poteva…poteva essere una bella idea, e avrebbe spiegato tutto».

«E in che modo, cara? Come potremmo noi quattro, dico io, il signore in bianco, la bambina, il signore peculiare qui sotto, essere con lei in una carrozza che la portasse in visita a un’amica, di cui noi nulla sappiamo?” “Perché sarebbe stato uno scherzo non male, mia cara!» dico con voce sottile.
«Il signore, qui, in bianco, sarebbe l’incaricato dello scherzo. Il signore in basso, lo vede da sola, è un attore consumato. Lei e la bambina potreste essere altri figuranti, oppure…una cuoca, delle parenti».
Bettie si era un po’ adombrata: «Mi scusi se le do della serva, ma il suo abito…».
«Non si preoccupi, lei è molto scossa, lady Moorgrove».
«Grazie per la sua comprensione. Come sa il mio nome?».

Ma non ci fu tempo.

«Grosvenor!» urla il signore sul pavimento: «Ecco dove scendere. Un mazzo di mughetto e tre rose. Signore!».
L’uomo in bianco batte una volta col bastone, la carrozza si ferma, vedo l’uomo stravagante uscire dalla carrozza, nell’aria polverosa e accecante. Poi lo sportello si richiude. La desolazione cala su di me.
Una vera vigliaccata, come vi dicevo.

Mi sento stanca, avvilita da questa colossale congiura.

«Bettie, da Grosvenor a Milbury non c’è molta strada. Tra poco scenderà anche lei».

«Oh, credo scenderemo tutti, signora».
«Non capisco».
«È per lei che siamo venuti».
«Per me?».
«Sì. La sua esecuzione. Lady Moorgrove, non può non saperlo. Le hanno anche trovato il veleno in casa. Povero suo marito! Tutta Londra verrà a vedere. A Milbury, alle tre».
«La mia…» guardo i miei compagni uno a uno.
La bambina stringe il suo taccuino da disegno.
Disegnerà me, lassù sul patibolo, per qualche giornale tedesco?

La mia esecuzione. Me ne ero completamente dimenticata. Sapete che mi perdo facilmente nei miei pensieri. In effetti sembra quadrare. «E perché il signore qui in basso, invece, è appena sceso?».
«Sarà un po’ matto, ecco tutto» mi dice Bettie con un sorriso.

«Millbury!» grida Bettie entusiasta.
Da lì in poi sento tutto ovattato.
Il bastone del signore in bianco, le mani che mi spingono fuori, non so più di chi, la forca che si staglia lassù contro il sole in un cielo assurdamente limpido.

Zoe - Circolare View More

di Eugenio Di Donato

Illustrazione di Zoe

Esco.
È umido.
Il cielo è denso di pioggia. È notte.

Salgo sulla novanta, è mezza vuota. Mi siedo e schiaccio il naso contro il vetro. Guardo fuori. Auto puttane lampioni, e la striscia d’asfalto nuovo, nero e fumante che si allunga sotto la città. Fa caldo, la camicia si incolla alla pelle, mi serra il torace e le ascelle, sembro un lombrico sudato. Boccheggio. Non lo volevo fare questo mestiere.
Non mi andava di arrampicarmi come una blatta assonnata e paffuta intorno alla città.
Peso 127 chili, e il caldo mi sfianca.
Faccio il portiere di notte. Hotel Varisco, largo Ignesis 22, l’ennesima rotonda.
Questa città ruota. Nessuna piazza o quasi.
Solo slarghi e un’infinità di rotonde. Nel mezzo qualche albero, panchine abborracciate e recinti per cani e per bambini. Mi allungo, premo il pulsante. Il bestione gommato stride, si flette nel centro, quasi si torce e all’ultimo si ferma. L’autista aspetta, lo sa che mi ci vuole un po’ per alzarmi e strisciare giù, sul catrame rovente. Mi fa un cenno con la mano. Faccio un cenno con il capo. Non ho collo, la mia testa è incernierata nelle spalle come un pomello.
Sono in strada. L’autista accelera e il bestione gommato riparte. Macina giri nella notte.
Circolare destra, circolare sinistra.

L’hotel Varisco è di terza categoria, un misto tra un motel e un albergo a ore.
Due stelle dice la guida della città.
Una e mezza, dico io.
Ma cambia poco. Sono in ritardo, e Mohamed è fuori che aspetta con la sigaretta in bocca. Ha visto la mia sagoma scura da ippopotamo. L’ho visto anch’io, vedo la sua pupilla annacquata mentre si dilata nello sforzo di accogliere la notte. Sorride beato, deve essere stata una giornata tranquilla.
Niente urla, niente casini nelle camere, niente cimici.
Mi stringe la mano e la mia scompare nella sua. Ho le mani sorprendentemente piccole per un uomo della mia mole. Sorride di nuovo e si allontana con il suo passo africano. Seguo il busto dondolare tra le auto, balza furtivo sulla banchina e si accende un’altra sigaretta. Si siede alla fermata, nel punto esatto dove sono sceso io. Mohamed continua a sorridere, ha un sorriso che sembra un ghigno. Muove la bocca solo a sinistra, la parte destra è indurita da una sottile cicatrice. Un ricordo d’infanzia su cui sorvola. Lo guardo, vedo il torace che si gonfia, il piacere della boccata e il fastidio del sudore che gli cola lungo le tempie. 20 decimi, sono un rapace. Non volo però, per lo più sto seduto nella mia torretta. Sta arrivando di nuovo il bestione gommato che cerchia la città, ne passa uno ogni venti minuti, rallenta, stride, si accorcia nel mezzo e all’ultimo si ferma. Scarica di tutto.
Lattine di birra, skate, radio, monopattini, bici pieghevoli, un passeggino e due donne con il velo nero e il vestito lungo. La baby slitta è pesante, le donne imbavagliate l’afferrano con mestiere e la depositano sulla banchina. È intasata di buste, di pacchi, di cibo. Mohamed le guarda perplesso. Due arabe sole nella notte fonda con un passeggino carico di cenci. Troppo anche per lui, troppo per chiunque abbia una madre o una sorella velata. Peggio dei cinesi.

Mi appollaio nella mia torretta: una poltrona di pelle lucida e reclinabile. L’ho barattata per il primo stipendio, lavorare di notte passi, ma stare scomodi no. Quando sono seduto incuto paura, lo leggo nelle pupille dei clienti, ci sono tre gradini e venendo dal basso non mi vedono. E poi d’improvviso, una volta sul pianerottolo, appaio io, un ippopotamo strabordante con occhi da falco. Capiscono subito che capisco. Il Varisco è uno spazio per tramortiti, gente che tira avanti alla giornata: balordi, alcolizzati, puttane.
Coppiette rancide e coppiette alle prime armi. Divorziati che non hanno un posto dove andare. Alcuni sono violenti, ma per lo più sono spaventati. Gente che per un paio d’ore non vuole rogne, la loro vita ne è piena. Piccoli furti, qualche rissa, patenti ritirate, spaccio, figli sparsi. Alcolismo.

La novanta stride, si ferma e riparte, si arriccia per tutta la notte, e per tutta la notte fino all’alba vomita nani, storpi, minigonne, tatuaggi, nere, asiatici, cinesi, pacchi, scatole, ragazzi. Alle sei è il turno dei peruviani, un plotone di formiche armate di spugne e scopini. Si intrufolano silenziosi e assonnati nei grossi edifici, nelle banche, negli showroom, negli hotel, e anche qui al Varisco. Puliscono. Esmeralda e Maria si trascinano dietro i loro marmocchi. Bivaccano sui divani lerci della hall, un po’ dormono, un po’ giocano con il telefono, un po’ mi guardano. Non frignano mai. Sono grassi anche loro.
Ingurgitano merendine e cocacola, e come le loro madri si fanno il segno della croce.

Sono le otto, faccio il giro dell’edificio, controllo i piani, prendo l’ascensore, aspetto Berardo. Un avellinese arzillo con la faccia scavata che fa il turno del mattino. È piccolo e magro, secco come un chiodo. La novanta inchioda, una bici le ha tagliato la strada. Berardo rimbalza, si attacca al palo e scende dal predellino imprecando. Mi preparo. Lo saluto con un cenno del capo e pesantemente mi avvio verso il bar dell’angolo. È l’ora del caffè. Mi attardo, la serranda è ancora abbassata ma Giovanni il proprietario è dentro dalle sei, una donna dai capelli sporchi e radi rovista nel bidone dell’immondizia, aspetto la novantuno, tra qualche minuto scenderà Catarina.

Catarina lavora al bar dell’angolo da un paio di mesi, è portoghese e ha il culo alto e sodo delle brasiliane, la coda di cavallo e un sorriso capace di ridestare uno zombie. Ambrata, con il corpo elastico di un felino si flette e tira su la serranda. Non mi ha visto, è arrivata dal lato opposto, aspetto qualche minuto prima di entrare, il tempo di farla sistemare dietro il bancone. Sono quasi sempre il primo cliente, anche se capita che qualcuno che scende dalla novantuno la segua come un cane al guinzaglio fino alla serranda. Il caffè Ibisco è un residuo della media borghesia del quartiere. Tavolini di fattura, buona pasticceria, niente tabacchi e niente slot machine. Apre alle otto e un quarto e serve gli uffici della zona, i colletti bianchi che cominciano la giornata alle nove, i pensionati e gli universitari squattrinati. Dopo le dieci appare qualche computer, facce assonnate, barbe, occhiali da sole e camice pseudo hawaiane. Sono rari però. Qui il fashion non attecchisce.
Non ci sono ville e la metropolitana è lontana.

«Bom dia» e si apre una colonna di denti bianchi.

«Il solito?» Accenno di sì con il capo e mi aggrappo al bancone per non cadere.

Bevo il caffè, ingoio due brioche vuote, lascio la mancia e mi volto verso l’uscita. Mi sta guardando, lo so che mi sta guardando. Tutti mi guardano, si spostano perfino, mi fanno spazio. Sono ingombrante. Mi avvio verso la fermata. Il bestione gommato stride, si torce al centro e all’ultimo si ferma. Schiaccio il naso contro il finestrino. Catarina non c’è, è dietro in cucina.
Il bestione gommato accelera.

Liliana Brucato - Girasoli View More

di Gius Petruzzi

Illustrazione di Liliana Brucato

Stamattina mi chiama quello schizzato di Berry e dice di mettermi il costume da bagno.
Lido Verde ci aspetta e sarà pieno così di tette e culi da strizzare.
Sollevo gli occhi al cielo.

Se solo bastasse questo a rimettere insieme i pezzi di me.
Gli rispondo che mi ci vuole tempo. Non è mica facile levarsi di dosso la sbornia del venerdì, e non è facile neanche togliersi dalla testa quella stronza di Diana. Maledetta.
Berry mi dice di muovermi, la statale 16 sarà nevrotica e per arrivare ci metteremo almeno un’ora. Dico ok e riattacco. Sbuffo.
Lo so, sarà un’altra estate di dolore.

Berry affonda il pedale.
La macchina corre veloce sulla statale adriatica.
Dal vetro del finestrino solo nastri colorati. Il nero della strada, il giallo del grano e dei girasoli, il blu del mare, l’azzurro del cielo.
Prendimi vento, trafiggimi, almeno per un minuto fammi dimenticare il dolore, questo mostriciattolo che salta divertito qui in petto. Non ho voglia di ascoltare i pensieri. Giro e rigiro la rotella del volume fino a far ronzare le casse.
Berry che te la ridi sempre, come fai, dimmelo.
Vorrei che la tua felicità fosse anche la mia. Ed è troppo facile, lo so, buttare giù birra su birra, gin su gin, ma serve un modo pratico e veloce per riempire gli spazi, colmare i vuoti, accelerare questo sangue freddo che s’affatica a scorrere.

Neanche mezz’ora di strada che Berry accosta alla piazzola di sosta.
Vuole fare un’altra striscia.
«Che cazzo fai…devi guidare», ma lui se la ride e piazza quella merda sullo schermo del telefono.
«Aspettami – gli dico – ho da pisciare».
Oltre il guard-rail i girasoli mi guardano.
Queste ridenti teste gialle mi mettono angoscia. Mi ricordano Diana.

Lei era un girasole dell’Adriatico e come tutti i girasoli dell’Adriatico non seguono il tramonto verso il mare.
Ma offesi gli voltano le spalle in attesa che proprio da lì, dal cobalto dell’acqua marina, arrivi l’abbraccio di una luce nuova.
Scusami cielo se anche oggi che sei così limpido, vedi queste lacrimucce bagnare l’asfalto duro; ti prego vento lasciale cadere sul terreno, fa’ spuntare una piccola gioia.

«Muoviti!» Grida lo schizzato dalla macchina.
La pipì è finita, le lacrime no.
Sfrego gli occhi e di nuovo via verso il mare. Dalla borsa frigo prendo una birra. Sono già alla quarta. Si deve far veloce prima che si scaldi. Mi sento brillo, sarà il sole su questa faccia scura, la musica a palla o quest’assurda ossessione.
Ho voglia di ascoltare Ciao amore, ciao nella versione di Tenco.
Ho proprio bisogno di te, Luigi. Ora.
Dimmi con la tua voce calda che tutto tornerà al suo posto, che ogni pezzo di questo corpo può ancora tenersi su. Come dici? Sarà proprio così?
E allora voglio volare, le sento le ali sulla schiena. Fuori dal finestrino è tutto più bello: quelli che prima erano girasoli ora sono un mare giallo. Ed io mi ci tuffo.
Ciao amore, ciao.
È tutto finito.

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Ultimo Indizio

di Stefania Coco Scalisi

Illustrazione di Anastasia Coppola

Quelle parole le risuonavano in testa mentre si rigirava nel letto, sperando di convincere il sonno a usarle la gentilezza di degnarla di un po’ d’attenzione.

Cosa poteva significare?
Era da quando aveva lasciato quel ragazzo delle consegne sotto l’albero un paio d’ore prima che ci pensava.
Castelli in quella città non ce ne erano, o meglio, c’era una specie di fortezza normanna, di quel solido color grigio pietra che a tutto faceva pensare fuorché al verde.

No, non poteva essere quello il castello verde dell’indizio: quella fortezza evocava saccheggi e catene, l’unica cosa verde a cui poteva associarlo era quello delle muffe delle sue celle sotterranee. Doveva concentrarsi su altro. Forse era il verde la chiave di volta dell’enigma? Forse erano i colori il grimaldello per scoprire la verità?
Fu a quella conclusione che giunse mentre finalmente le si chiusero gli occhi e il suo corpo iniziò a scivolare lentamente nel sonno dei giusti.

Quando la mattina si risvegliò, ci mise un attimo prima di capire dove fosse.
Aveva la bocca impastata e la fronte imperlata di sudore, complice il caldo innaturale e la massa di capelli che aveva dimenticato di raccogliere dietro la nuca. Un vero schifo.
Fu solo il bip del cellulare che riportò definitivamente la sua attenzione alla stanza e a quel letto.
Che fosse un altro indizio?
Con un fremito ingiustificato lo prese in mano e mise a fuoco il testo sullo schermo:

“Non dimenticate il vostro appuntamento per il vaccino. Ore 10.20, Unità Vaccinale Mobile, Piazza Federico di Svevia”.

Il vaccino! Come aveva fatto a dimenticarlo? Aveva preso quell’appuntamento settimane prima e ora, presa da quella smania, l’aveva totalmente rimosso. Forse era il segnale definitivo che quella storia le stava sfuggendo di mano, che doveva smettere di cercare quel bar segreto, che stava diventando pazza in nome di un cocktail.

Guardò l’orologio.
Erano le 9.30.
Si lavò rapidamente e nel giro di mezz’ora era già sulla sua vespa diretta verso il luogo dell’appuntamento.
La strada era piuttosto trafficata ma conosceva la città come le sue tasche e si muoveva sul motorino come uno scippatore in fuga con una borsetta.
Sarebbe arrivata in tempo.

E infatti, alle 10.10, era già davanti alla tendostruttura bianca e leggera, che spiccava nel suo candore in quella piazza sovrastata dall’enorme castello dietro di lei. Castello.
Quello era il castello normanno della città. Che fosse…?
Parcheggiò il motorino davanti l’entrata dell’unità vaccinale, in un angolino che sembrava aspettare solo lei, all’angolo con la macelleria Verde Pascolo. Castello, verde.

Ebbe un giramento di testa. E se..? No, non doveva farsi illusioni, non era così.
Non poteva essere così.
E se non fosse stato così, il suo povero cuore non avrebbe retto.
Scacciò quel pensiero dalla mente. Erano comunque le 10 del mattino e certamente un bar segreto non poteva aprire a quell’ora. Si mise in fila. C’era parecchia gente, ma tutti rispettavano il proprio turno ordinatamente.
Si entrava pochi per volta, ognuno secondo il numerino che aveva ricevuto al momento della prenotazione.

Alle 10.20 in punto, la chiamarono.
Compilò dei moduli piuttosto lunghi e dettagliati e dopo qualche minuto fu invitata a entrare per la sua dose.
Il medico che la accolse era un ragazzo piuttosto giovane, forse appena laureato, che tentò subito di metterla a suo agio parlandole un po’ del più e del meno.

«Allora, pronta per il vaccino?»

«Si, grazie. A dire il vero l’avevo proprio dimenticato. Se non avessi ricevuto un messaggio sul cellulare non mi sarei presentata».

«Ma davvero? Eppure non si parla di altro in questi giorni!»

«Sì, ma sono stata presa da altro. Una scemenza a dire il vero. Guardi se ci penso mi viene da ridere».

«Sono indiscreto se le chiedo di cosa si trattava?»

Lo guardò.
Era un modo di metterla a suo agio o era semplicemente un ficcanaso?
Rispose con un misto di riluttanza ed imbarazzo.

«Ma guardi, difficile da spiegare. Una specie di caccia al tesoro a indizi. L’ultimo era castello verde.
Ma davvero, non mi faccia dire di più che mi sento una stupida!»

«Come ha detto scusi?»

«Che mi sentirei una stupida»

«No prima. Ha parlato di una caccia al tesoro e un indizio, castello… »

«Castello Verde. Una cosa senza senso. È più di una settimana che perdo la testa dietro questi indizi. Sarà la solita scemenza tipo catena di Sant’Antonio e ci sono finita dentro».

Il medico si fece improvvisamente silenzioso.
Le fece la puntura in tutta fretta e le mise un cerotto.

«Mi segua».

«Prego?»

«Mi segua da questa parte. Deve compilare un ultimo modulo».

«Ok».

Fece per seguirlo.
Lo vide imboccare un piccolo corridoio e scostare una grossa tenda bianca.
Quel posto era molto più grande di quanto potesse sospettare.
Scostò anche lei la tende e all’improvviso le sue ginocchia cedettero.

«Alla fine ci ha trovati! Brava!».

Davanti a lei un piccolo bancone bar, pieno di bottiglie e bicchieri. E dietro al bancone, il medico di prima.

«Non era facile vero? Gli indizi cambiavano sempre perché ci spostiamo in continuazione. E poi non aveva senso farli troppo facili, sennò dove sta il divertimento?»

Lei fece di si con la testa, totalmente incapace di parlare.

«L’idea c’è venuta così, una mattina. Tutto è partito dal fatto che abbiamo un frigo in più che restava sempre vuoto. Poi come vedi- posso darti del tu?- di spazio ce ne è e di tempi morti pure. Di solito serviamo i drink quando gli appuntamenti finiscono. Ma se vuoi possiamo fare un’eccezione. Che ti servo?».

Continuava a fissarlo come un’ebete. Non capiva se per lo stupore o per la gioia.

«Un oldfashioned si può avere? Cioè a me piace quello col succo di mirtilli, però non so…»

«No mi dispiace. Noi possiamo solo servire cose classiche, sai, è pur sempre un centro vaccinale!»

«Certo, scusa. Va bene un oldfashioned classico allora?».

«Un po’ fortino a quest’ora ma ok. Però promettimi che non ti muovi di qui per almeno mezz’ora, in caso ti girasse la testa».

Annuì.
Lui le porse il cocktail.

«Fanno 8 euro, grazie!».

Pagò.
Lui le diede il resto.

«Ora devo andare. Tu resta quanto vuoi! E goditi il tuo drink. Te lo sei meritato».

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Colazioni Salate View More

di Stefano Tarquini

Illustrazione di Diaz


Il parcheggio buio sembra una fetta di groviera andata a male, con tutti i suoi buchi e crateri nell’asfalto.
Miriam li schiva con disinvoltura e guida via veloce, scomparendo nella notte assorta di provincia.

Nino se la guarda dallo specchietto retrovisore e la scia degli stop rossi rimane solo un ricordo, disegnato nell’aria pesante di un giorno nascosto nel silenzio soffuso di semafori dal giallo intermittente.

Ogni lunedì, Miriam è di riposo e la mattina fa tapis roulant.
Dopo aver fatto la doccia improvvisa una goffa messa in piega che le dura dieci minuti, ma che a lei piace lo stesso, e si trucca gli occhi mentre asciuga lo specchio dal vapore che ha riempito il bagno, con lo stesso panno in cui aveva avvolto i capelli in un turbante.
Mangia un boccone con Elvira, la sua coinquilina di buona famiglia, che potrebbe avere una casa tutta per sé ma preferisce così, un po’ per andare contro i suoi, un po’ perché ancora crede di essere veramente indipendente, pur essendo ricca.
Poi si fa mezza Roma in macchina per fare l’amore con Nino, che il lunedì fa solo pranzi ed ha la sera libera.

Lui si fa la doccia al Mulino, una vecchia pizzeria col forno a legna dove lavora da quando è ragazzino, in un piccolo bagno/spogliatoio improvvisato che non ha finestre, in cui Mario, detto Don Chisciotte, il vecchio proprietario dal cuore grande e dal baffo arrotolato ai bordi della bocca, scrisse, con un bianchissimo Uniposca su un piccolo specchio venti per venti: vietato cacare.

In realtà avrebbe dovuto scrivere vietato pippare, ma era stato un fottutissimo cocainomane, e quel bagnetto angusto aveva ospitato, nei vent’anni precedenti, la crema dei drogati e delinquenti della zona. Poi però aveva cercato di trasformare il Mulino in una pizzeria per famiglie, e in parte c’era riuscito, ma aveva lasciato tutte le cose com’ erano. Diceva che gli servivano per ricordare.

Lo specchio e la scritta erano ancora lì e tutti quelli che avevano lavorato al Mulino ci si erano fatti una foto: camerieri, aiuto cuochi, pizzaioli e cocainomani.

Le foto sono quasi tutte attaccate con una puntina alla parete dietro la cassa, ma nessuno dei clienti ci fa caso mentre paga o è in fila. Non sanno che posto sia quello, loro possono usufruire del bagno apposito al piano di sotto, dove si può aspettare il proprio turno in un ambiente confortevole, con un divano comodo, due candele profumate e la filodiffusione.

Oggi Nino le ha portato una busta di supplì fatti da lui.
Mangiare era un ottimo diversivo per tutti e due.
Miriam adorava parlare di cibo e di ricette, e si esprimeva quasi solo con modi di dire che poi diventavano una specie di loro linguaggio privato.
Appena conosciuti ad esempio, rispondeva ai messaggi porno di Nino con un secco: faccio finta di non aver letto, o, in caso di messaggi vocali, di non aver sentito.
Adesso lo usa rispondendo a messaggi di altro tipo, come parte di un codice tutto loro.

Oggi, per esempio, se n’ è uscita con una delle sue massime sulla prima colazione, il «pasto più importante della giornata».

«Uno dei periodi più belli della mia vita è stato quando il dietologo mi aveva prescritto la colazione salata: una fetta di pane bruscato col prosciutto crudo i giorni pari, col salmone i dispari, accompagnato da una spremuta di arance rosse senza zucchero. Che bei tempi, quelli!»

Secondo Nino, invece, il fritto una volta a settimana è come un elisir di lunga vita: riattiva il suo povero fegato ingrossato, torturato da una vita di eccessi. Le loro dritte approssimative sull’alimentazione corretta li facevano ridere così fragorosamente e con gioia, da non volere più smettere di farlo.
E a volte non lo facevano, se ne stavano lì a ridere e ridere, fino a non poterne più.

Miriam ha un Opel Corsa nera, con un vecchio adesivo attaccato sopra la targa, che non si ricorda neanche più dove l’ha preso: mortacci tua!
Lui arriva sempre prima di lei all’appuntamento e dà una pulita veloce ai sedili, sbattendoli alla buona e aprendo i finestrini per far cambiare l’aria.

Poi arriva lei con i suoi occhi luminosi.
A volte neanche si salutano, in pochi minuti si ritrovano mezzi nudi sul sedile posteriore, tanto hanno voglia di fare l’amore, e una volta venuti entrambi, si guardano negli occhi: «Ciao, sei proprio tu?».

Quasi sempre lo rifanno un’altra volta, ma solo dopo essersi cullati l’uno negli abbracci dell’altra e raccontati gli alti e bassi della settimana.

«Hai portato i supplì? Sìì!» E mentre infila la mano fino ai polsi nella carta unta che ancora fuma, Miriam gli racconta che la sera prima ha provato a fare pasta e fagioli per la prima volta.
Le era venuta disastrosamente buona, orgogliosamente fitta, ma sciapissima e con la cipolla tagliata troppo grossa. Elvira era di bocca buona e l’aveva divorata, dice, ma le aveva anche fatto notare quei particolari, e questo l’aveva un po’ divertita e un po’ offesa.

Nino stappa la bottiglia di acqua minerale con l’accendino, facendo rimbalzare il tappo oltre il tettuccio apribile da cui sta entrando la notte, scende e lo raccoglie subito per non lasciare tracce del loro passaggio.
Lasciare pulito ovunque è una cosa che si porta dietro da sempre, da quando era cresciuto con una nonna e due cani, e aveva dovuto imparare velocemente sia le buone maniere che a fare la lavatrice.

Da due settimane beve solo acqua perché la prossima deve fare le analisi per rinnovare la patente.
Esattamente sette anni prima, proprio quello stesso giorno, aveva avuto un brutto incidente e i carabinieri che erano intervenuti lo avevano sottoposto ad un alcol test molto positivo, facendolo entrare in un percorso amministrativo estenuante.

Lo racconta spesso: «Quando vado a fare gli esami al Pertini, in mezzo a tutti gli altri colleghi di sbornia, sono l’unico che ammette di aver bevuto davvero. Tutti gli altri inventano scuse con sé stessi, tipo: io stavo lucidissimo, io solo mezzo bicchiere, l’alcol test è fasullo, eccetera eccetera».
Lui non se ne vergognava, però se quella maledetta sera non avesse bevuto, sarebbe stato decisamente meglio.

Miriam è al terzo supplì e parla con la bocca piena.
Nino di solito la ascolta senza interrompere.
La loro storia è tutta qui: tanti bei ricordi e un odore di fritto che riempie la macchina.

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di Luca Cassarini

illustrazione di Anastasia Coppola

“Per quanto il mondo possa sembrarti assurdo, non dimenticare mai che offri un bel contributo a questa assurdità                                con il tuo agire o con il tuo astenerti.”

(Arthur Schnitzler, “Libro dei motti e degli aforismi”)

«Biglietto, prego».

Il controllore Antonio Prevosti era sempre lo stesso, da anni.
Decano dell’azienda municipale di trasporti in quella piccola cittadina di frontiera, assieme a cappellino e divisa d’ordinanza indossava sempre un leggero profumo a buon prezzo.
In quel momento attendeva che uno dei pochi passeggeri della corsa delle 10 e 23 esibisse il proprio titolo di viaggio. Teneva chino lo sguardo sotto una montatura di occhiali alla moda, dando ogni tanto leggeri colpi di tosse.
Abile nel suo mestiere, riconosceva a prima vista biglietti scaduti o tarocchi, ed aveva fiuto per quelli usati più del dovuto.
Non sembrava questo il caso, fortunatamente.

«Ecco a lei», annunciò il passeggero dopo una ricerca parsa infinita.
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Il viaggiatore, uomo sulla cinquantina, barba rada a coprirgli il viso, tornò a sprofondare nel seggiolino della corriera. Sapeva che il viaggio non sarebbe stato troppo breve, ma erano passati anni, se non decenni, dall’ultima volta che si era prestato ad un’esperienza del genere. Solitamente andava in macchina, tuttavia per un malaugurato incastro del destino la vettura era dal meccanico e lui aveva un appuntamento inevitabile, sicché aveva scrutato con rassegnazione l’orario dei mezzi pubblici che collegavano le sua città con la destinazione voluta.
Bestemmiando leggermente, aveva visto che ne passava uno ogni ora e mezza, per cui si era ulteriormente rassegnato a prendere il primo disponibile per poi aspettare, una volta giunto nella città di K., il tempo dovuto.
Un bar o una panchina della piazza non avrebbero fatto troppa differenza.
In fondo, era un tipo paziente.
Lo dicevano tutti quanti, ed era vero.
Con la sua stoica pazienza si sistemò dunque sul sedile, ed iniziò presto a sonnecchiare.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che di nome faceva sempre Antonio Prevosti, lo destò dal suo torpore.
Erano già arrivati? L’uomo sulla cinquantina, ma potevano essere anche poco più di quarantacinque, in quelle fasce d’età indefinite dove sfumano le differenze nette, guardò dapprima fuori, quindi verso il proprietario di quella voce. Per un attimo pensò di aver cambiato linea alla fermata immaginaria dei suoi sogni. Notò con sospetto che era lo stesso di prima, e si chiese come mai tornasse a chiedergli la medesima cosa. Forse se n’era dimenticato, oppure era la prassi dell’azienda. Per certi aspetti avrebbe voluto protestare, ma la richiesta era tutto sommato legittima e garbata, e contro la legge sempre meglio non avere grane.
Mai, e di nessun tipo.
Sbuffando leggermente, tirò fuori il suo biglietto.

«Ecco a lei».
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Cercò di cogliere punti di riferimento per capire quanto potesse mancare  all’arrivo, ma la strada era abbastanza omogenea nel suo imperterrito scorrere, i cartelli sfrecciavano troppo in fretta perché potesse leggerli bene, forse si sarebbero fermati da qualche parte e avrebbe potuto fare mente locale.
Era certo che sarebbero arrivati a breve, questioni di decine di minuti, al più.
Iniziò a guardare fuori dal finestrino cercando di cogliere qualcosa di interessante al suo sguardo, e che lo aiutasse a passare il tempo.
Tanto valeva arrangiarsi con quel che offriva il convento.
Ovvero, un paesaggio che scorreva sempre uguale a se stesso.
Rimase presto ipnotizzato dal viaggio.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che si chiamava ancora Antonio Prevosti, d’altronde c’era solo lui a compiere quella noiosa incombenza sulla tratta, stavolta lo prese veramente alla sprovvista. In effetti, si era incantato nel loop del viaggio.
Il rollio delle ruote sull’asfalto era sottofondo costante e, per certi aspetti, soporifero.
L’uomo, che poteva anche avere un’età quasi prossima alla pensione, stemperò la tensione in corpo con una dose d’ironia, canticchiandosi in testa: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più…?”.
Quanto tempo era trascorso? Mezz’ora, un’ora? A breve sarebbero pur dovuti giungere a destinazione, no?

Si azzardò a dire: «Scusi, ma…».
«Biglietto. Prego», ripetè il controllore, con la pazienza di chi ne aveva viste tante. Abbastanza nervoso, l’uomo glielo porse mezzo sgualcito e spiegazzato.
«A lei».
Il controllore impiegò un tempo infinito nello scrutarlo adeguatamente, su ambo i lati, onde evitare brutte sorprese. I cosiddetti portoghesi erano una costante nel tempo e nello spazio, leggende tramandate da generazioni di controllori.
«Grazie», disse infine allo stralunato passeggero, con un reiterato cenno professionale.
«…»
«Buon proseguimento di viaggio».
«…»

Non ci stava capendo più nulla.
Presto sarebbero arrivati a destinazione, ne era certo.
Gli pareva che il sole fosse stabile lassù in cielo, ma le giornate sembravano avere una durata immensa, d’estate.
E la strada somigliava ad una striscia di asfalto senza fine, dilatata dallo spazio e dal tempo.
Ad un certo punto sentì distintamente uno strambo rumore.
Si guardò veloce attorno, sulla corriera era rimasto solo lui.
Ignorava dove potessero esser scesi tutti gli altri, era sicuro non fosse stato l’unico passeggero a salire su quel mezzo, chissà quanto tempo prima, chissà dove.
Stava perdendo ogni riferimento spazio-temporale, in quell’andirivieni costante ed assurdo.

Antonio Prevosti, il medesimo controllore di poc’anzi, e prima, e prima ancora, sgusciò tutt’un tratto in mezzo al corridoio dell’autobus.
La sua faccia era ermetica come quelle dei tutori dell’ordine.

«Biglietto, prego» chiese puntiglioso, scandendo bene le parole.
Il passeggero, di un’età indefinita e abbastanza stravolto, per poco non si mise a piangere, o gridare.

Simona Settembre Una foto un peso View More

di Denise Ciampi

Illustrazione di Simona Settembre

L’odore di mais riempie la camera della posada, perfino il cuscino e gli asciugamani puliti ne restituiscono la fragranza.

Ho l’impressione di lasciare sulla biancheria un’impronta estranea, una traccia discordante con questi luoghi. Asciugandomi il viso, insieme all’acqua, cerco di depositare sul cotone anche il sogno di stanotte: l’immagine ancora nitida di un uomo che cammina su una strada polverosa barcollando verso di me e che, quando mi raggiunge, focalizza lo sguardo rivolgendomi una sola parola: «Gringa», dice.

L’uomo del sogno non aveva l’aspetto di un indigeno: il sole superava la protezione del cappello a falde larghe colpendo i suoi occhi azzurri, innervati di sangue dall’eccesso di alcol e di polvere. Incrociando il suo sguardo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a uno specchio, uno shock violento mi ha scossa dal sonno.

Scendo nel patio, trovo Luis immerso nella lettura di un quotidiano.
Senza avvisarlo della mia presenza, vado a sedermi anch’io sul divanetto che sta occupando.
Lo vedo recuperare rapidamente il suo ruolo di guida.
Ci siamo conosciuti a Firenze un anno fa, a un convegno organizzato dall’ONG per la quale lavora. Forse, quando mi ha proposto di collaborare a una ricerca sullo sfruttamento delle risorse idriche, neanche lui si aspettava che sarei venuta fin qui.

Abbiamo programmato interviste ad esponenti locali per raccogliere informazioni sulla rete idrica e sulla penuria d’acqua. Oggi però non si lavora, Luis dice che c’è un posto che devo assolutamente vedere.
Ripiega il giornale e mi trascina al mercato della frutta.
Compriamo frutta fresca da consumare in strada, l’uomo dal quale la acquistiamo riempie i bicchieri direttamente da un contenitore pieno di frutti già tagliati. Prima della partenza mi hanno avvertita di non mangiare cose di questo genere se voglio evitare la dissenteria, ma quando Luis mi offre il bicchiere mi trovo ad accettarlo con piacere. 

Cerchiamo un colectivo, ne rimediamo uno in pochi minuti.
In questi giorni ho visto girare per il centro di San Cristóbal dei furgoncini piuttosto moderni, questo è un modello più vecchio e la cosa non mi dispiace affatto. Aspettiamo all’interno del veicolo che il mezzo sia al completo.
Osservo i viaggiatori, mentre, finalmente, Luis mi svela dove siamo diretti.
San Juan Chamula: cerco il pueblo, così si chiamano i centri abitati indigeni, sulla Routard.
Colpisce la mia attenzione la foto di una chiesa bianca con la facciata profilata di verde.
“Riti pre-ispanici e sincretismo religioso”: scorro le informazioni sommariamente, mentre il mio interesse si concentra sulle persone intorno a me.
La festa dei colori, gli odori, le voci e, tra le altre, quella ormai familiare di Luis che mi parla di una montagna. Adesso il suo indice mi mostra il Monte Huitepec cercando di darmi dei punti di riferimento: «La chiamano “la montagna d’acqua”, è un monte sacro ai Maya. Ai piedi del Monte Huitepec c’è lo stabilimento della Coca-Cola, proprio sopra una falda che è la principale risorsa d’acqua della città. Lo stabilimento consuma tantissime risorse idriche e gli abitanti hanno acqua un giorno sì e uno no, per di più non potabile. La multinazionale paga pochi centesimi per ogni metro cubo e la gente rimane a secco».

Il colectivo comincia la sua corsa, gli ammortizzatori scassati fanno oscillare i cappelli degli uomini e le grandi sporte delle donne.
Una passeggera si piega a raccogliere un mango che le è caduto dalla borsa, il movimento mette in risalto il ricamo vivace della sua camicetta.

Lungo la strada scendono passeggeri e ne salgono altri.
Dal finestrino vedo una donna con lunghe trecce nere legate insieme da un nastro.
Quando sale sul mezzo mi accorgo che, nonostante il furgoncino in quel momento sia fermo, la borsa di tela che tiene tra le mani si muove.

Prende posto abbastanza vicino a me, ho modo di continuare a osservarla.
Mi attraggono i suoi lineamenti indigeni, che comunicano una quieta fierezza.
La sue mani sono segnate dal lavoro della terra.
Sento un richiamo provenire dalla borsa, la donna vi infila una mano svelando la presenza di una piccola gallina insofferente della sua prigionia.
Insieme al collo della gallina, il gesto della donna ha scoperto anche quello di una bottiglia di Coca-Cola.
L’etichetta della bottiglia di plastica mi ricorda il racconto di Luis, mi viene in mente che lungo la strada mi è capitato più volte di vedere piccoli spacci che espongono lo stesso marchio.

Anche Luis è stato attratto dal verso dell’animale: «La gallina viene con noi a San Juan Chamula», afferma. Resto in silenzio, aspettando che prosegua. «Nella chiesa che visiteremo si compiono sacrifici di piccoli animali. Si tratta di riti indigeni molto antichi, utilizzati per liberare dal male gli ammalati. Hai visto la bottiglia della Coca-Cola?».

«Sì, ma cosa c’entra adesso la Coca-Cola?».
«Anche quella è utilizzata per espellere il maligno. Una volta gli indigeni usavano una specie di grappa, adesso è stata sostituita dalla Coca-Cola: il gas fuoriesce dalla bocca e la persona si purifica. Ma adesso siamo quasi arrivati, ti renderai conto con i tuoi occhi. Un’unica raccomandazione: non fotografare le persone, secondo le credenze indigene quando si fotografa qualcuno gli si ruba l’anima».

Entrando nel pueblo noto un uomo di passaggio: indossa un cappello a falde larghe simile a quello del sogno.
Non riesco a incrociare il suo sguardo, devo limitarmi a seguire da dietro il finestrino la sua figura che si allontana nella strada polverosa.

Scendiamo dal colectivo che già siamo circondati da un gruppo di bambini.
Mi individuano facilmente come “gringa”: «Una foto un peso, una foto un peso…», una ragazzina mi offre una cintura colorata, mentre un bimbo ripete la sua triste cantilena.