Il guasto

di Lucia Maddalena Tissi

Illustrazione di Elonora Loiodice

Siamo in piedi, in camera da letto, l’uno di fronte all’altra, come duellanti. In mezzo ci sono loro, annerite, le stringhe sfilacciate come capelli decolorati male, un odore di gomma bruciata che si infiltra nelle narici e si attacca ai polmoni.

«Le ho bruciate» dichiara, con tono strafottente.

«Che cazzo dici?»

«Le ho bruciate» ripete.

«Hai bruciato le mie scarpe da trekking?», lo trafiggo con gli occhi, i pugni serrati, le unghie che infilzano la pelle, «Perché?»

«Senti, è una storia lunga, ma è stato meglio così».

«Hai bruciato altre cose mie?»

«No, solo quelle. Tranquilla».

Tranquilla una sega.
Sta di merda.
È completamente di fuori.

Esco tirandomi dietro la porta e una valigia in cui ho stipato i vestiti sparpagliati nei cassetti e nell’armadio. Sulle spalle uno zaino, pesante. La schiena si curva. Sono un animale da soma. Nello zaino ho ficcato i miei libri, a casaccio. Lì dentro Omero incontra Kafka che parla con Anaïs Nin che si inebria dei fiori di Baudelaire mentre la Szymborska racconta la poesia delle piccole cose. Un guazzabuglio di secoli e sensibilità. Parole intrappolate nelle pagine e ora nel mio zaino che odora dell’erba del prato su cui abbiamo fatto il nostro ultimo picnic, «con le spighe tra i denti, persi a fissare le nuvole». Ho portato via tutto quello che ho trovato di mio, in fretta. Altrimenti bruciava ogni cosa.
Il “nostro” lo lascio a lui, se vuole farne un falò.

Entro nell’ascensore e ignoro la sua voce che urla qualcosa.
Un insulto, di certo, o una recriminazione.

Pigio su zero e raggiungo la mia auto parcheggiata storta accanto a un marciapiede sollevato dalle radici di un albero senza foglie. Scaglio zaino e valigia nel bagagliaio. La schiena si raddrizza. Metto in moto e sgommo. Dietro di me il solco di una storia di un anno. Non so dire se sia stato amore o paura della solitudine.
È stato. Punto e basta. E ora non è più.

Viale Piave è deserto. È l’una di notte di un lunedì. Lungo il viale molti semafori lampeggiano, sfumati dalla nebbia. Non funziona nulla a quest’ora, nemmeno nella città dell’efficienza. Il piede preme sull’acceleratore, la mente sul passato.

Le ha bruciate. Le scarpe da trekking. Quelle che abbiamo comprato insieme esattamente un anno fa, da Decathlon, per il nostro primo fine settimana in montagna. Per accompagnarlo sulle vette che a lui piacciono tanto e a me fanno paura.
Bruciate. Polvere tu sei e in polvere tornerai.
All’improvviso il grumo della rabbia per quella furia piromane si scioglie in dolore. Il motore sussulta e anche il mio respiro. Decelero e accosto.

I fari ondulano l’asfalto rigato dalle rotaie del tram. Spengo il motore e i fari, e accendo le lacrime, con le mani avvinghiate al volante. Le ha bruciate. Inizio a singhiozzare come una bambina.
Un pianto inconsulto e nessuna voce né carezza di madre a consolarmi.
Asciugo le lacrime con un fazzoletto abbandonato da chissà quanti giorni in una tasca del giubbotto.

Rimetto in moto. Il motore scoppietta, di nuovo.
Un odore di gomma bruciata si infiltra nelle narici, dal cofano un fumo bianco tremola la notte.
L’auto non riparte. Il pianto, invece, riparte, più forte. La rabbia esplode nelle mani che picchiano il volante e nella bocca che bestemmia.

Afferro il cellulare e compongo con dita tremanti il numero del carro attrezzi. Aspetto nell’abitacolo. Intorno, la città dorme.

«Testata del motore bruciata, signorina». La sentenza.

Pago e seguo con lo sguardo appannato il carro attrezzi che porta via la macchina, fino a che la nebbia degli occhi non si salda con la nebbia della città. Tiro la valigia per la maniglia e mi sistemo lo zaino sulle spalle. La schiena si curva. Sono di nuovo un animale da soma. Riprendo il fazzoletto per asciugare qualche lacrima di rabbia incagliata sulle labbra.
Sa di gomma, bruciata.