Espiazione

di Laura Bortot

Illustrazione di Margherita Martini

Però se immagino tutto, proprio tutto, nei minimi particolari, poi non succederà nulla di quello che desidero, la realtà prenderà un’altra strada, oppure non ci sarà poesia…

L’aveva vista subito, seduta in treno accanto al finestrino, lo sguardo smarrito al di là del vetro su quel binario dove poco prima, nonostante la tettoia, si era rovesciata una pioggia violenta. Le luci tremolavano e annegavano in pozze d’acqua impreviste, lo scalpiccìo consueto moriva a tratti in alvei più profondi e impercettibili correnti sommergevano ruote di trolley in corsa, per poi tornare a spegnersi in piccole infossature che le cullavano fino ad addormentarle.

Percorse il vagone cercando con gli occhi il numero del suo posto.
E sperò di averlo prenotato di fronte a lei.
Non era proprio di fronte, ma condividevano lo stesso piano di appoggio.
Un segno del destino, pensò.

Sistemò la valigia sulla cappelliera sopra i sedili – che meraviglioso nome, cappelliera, si portava dietro immagini antiche, abitudini e oggetti remoti, senza distinzione di classe, il viaggio come uno sporgersi verso un nuovo orizzonte che, appunto perché ignoto, richiedeva che ci si presentasse al meglio delle proprie possibilità, come quando ci si metteva il vestito buono per andare alla messa della domenica.
E quindi il cappello, segno di rispetto, eleganza, compostezza.

Si era seduto e per prima cosa aveva guardato il proprio riflesso nel finestrino, per fortuna non troppo sudato, scapigliato e confuso.
Poi, spostando uno alla volta gli altri riverberi – ombre, impronte e schegge di luce – aveva individuato il profilo di lei: i capelli raccolti in una coda da ragazzina, il naso irregolare, che si protendeva con una certa impudenza bucando il vetro, la bocca sottile, non sensuale, no, ma con una dolcissima propensione a incurvarsi in un sorriso estemporaneo, sul filo di chissà quale pensiero, o emozione, o ricordo. In quei brevi attimi anche gli occhi sorridevano, eppure lo sguardo rimaneva sperduto, lontano, come incapace di incidere, di lasciare traccia di sé.
Cosa vedeva? Cosa ricordava? Si rese conto di provare un’assurda gelosia, di quelle che lottano contro fughe e vaghezze di chi si ama, vicoli in ombra e albe grigie difficili da leggere. Perché in quegli anfratti potrebbe nascondersi il seme di un desiderio randagio.

Si bloccò. Stava galoppando con la fantasia quando la realtà era una sola: era seduto di sbieco a un metro di distanza da una ragazza che non conosceva e che stava guardando fuori dal finestrino. Punto. Il treno si mosse cigolando. Lo sfondo scuro del binario si dissolse in un bianco lattiginoso graffiato dai profili frastagliati degli edifici, e da geometrie incerte di pantografi e voli trasversali di uccelli, come strappi su una tela sporca.

Ma dopotutto era solo questione di tempo.
Se lui vedeva lei, lei vedeva lui, e quindi probabilmente intuiva la direzione del suo sguardo. Era una conversazione silenziosa quella che stavano intavolando, e poi uno sguardo te lo senti addosso, lo percepisci anche senza incrociarlo. Non voleva essere invadente, indiscreto, la sbirciava quasi di sottecchi, a momenti alterni, solo che quando si posava sul suo profilo rimaneva incagliato, e doveva obbligarsi a scollare l’immagine per tornare sulla pagina di un libro che teneva aperto davanti a sé. E invece di leggere le parole e comporre un pensiero lineare, a un certo punto la vide girarsi, fissarlo intensamente per un attimo, accennare un sorriso. Anche lei sentiva la magia di quella vibrazione silenziosa, ne era sicuro.

E allora, e allora… e allora lui avrebbe continuato a sollevare lo sguardo ogni volta che lei si girava, e a innamorarsi del suo profilo riflesso sul finestrino, e poi magari si sarebbe alzato per andare in bagno e le avrebbe chiesto di controllare le sue cose, per cortesia, e tornato a sedersi l’avrebbe ringraziata e si sarebbe informato sulla sua destinazione, e il discorso sarebbe caduto inevitabilmente sugli studi che stava facendo, e anche lui avrebbe raccontato di sé, dei suoi sogni, dei suoi progetti, e le avrebbe domandato se ne avesse anche lei, di sogni e progetti, e a un certo punto avrebbero riso e si sarebbero divertiti a immaginare qualche follia per il futuro, e lui si sarebbe reso conto che non sentiva più il bisogno di risultare interessante, o misterioso, perché chiacchieravano ormai sereni e disinvolti, lei sempre un passo indietro, senza svelarsi troppo, lui appena un po’ più curioso; e avrebbero cominciato a parlare di come stavano in quella città in cui studiavano, che non era la città in cui erano cresciuti, e magari non era neppure la stessa città in cui studiava lui, ma pazienza, sarebbe sceso comunque con lei alla stazione, facendo finta di essere arrivato e di dover prendere un autobus per andare all’appartamento che condivideva con altri studenti, e siccome era buio le avrebbe chiesto se si sentisse tranquilla ad andare a casa da sola, e lei avrebbe detto di sì, con un altro di quei suoi meravigliosi sorrisi e lo sguardo che scivolava di lato, e allora lui le avrebbe detto che forse potevano vedersi per un aperitivo uno di quei giorni, e lei avrebbe detto sì volentieri, e quindi lui avrebbe dovuto prendere un treno per arrivare in tempo all’appuntamento, e sarebbero stati seduti a un tavolino a parlare, e avrebbero bevuto più di un aperitivo, e si sarebbero visti ancora, sarebbero andati al cinema insieme, e lui a quel punto le avrebbe confessato che studiava in un’altra città, non lontana, questo no, venticinque minuti di treno, e lei sarebbe scoppiata a ridere e gli avrebbe dato del pazzo, e allora… allora lui le si sarebbe avvicinato piano piano, e con l’indice le avrebbe scostato una ciocca di capelli sulla fronte, e poi avrebbe dolcemente percorso quel profilo che aveva osservato in treno la prima volta, e le avrebbe sfiorato le labbra, e quasi senza rendersene conto si sarebbero baciati, e un’onda di calore li avrebbe avvolti, e l’attimo sarebbe rimasto sospeso come un aquilone incredulo investito da correnti opposte. E poi il pensiero di vederla due o tre volte alla settimana lo avrebbe svegliato la mattina e addormentato la sera. E avrebbe contato le ore come un ragazzino, avrebbe riempito i vuoti con messaggi brevi, mi manchi, ti stavo pensando, ancora un giorno, vorrei dirti tante cose… E tutte le parole che avrebbe letto in quel tempo senza di lei avrebbero acquisito spessore, la densità della nostalgia, del desiderio. E con l’arrivo della primavera avrebbero fatto lunghe passeggiate lungo l’argine, il sole avrebbe proiettato le loro ombre sul prato e i loro corpi si sarebbero rincorsi per gioco. E camminando vicine le loro mani si sarebbero sfiorate, e poi toccate e poi cercate.

Ma il punto era che lei non si era mai voltata verso di lui, aveva continuato a guardare al di là del finestrino e a smarrirsi in un cielo che gocciolava grigio e informe. Il punto era che purtroppo ormai tutta quella felicità era già stata scritta, e quindi non poteva diventare una storia d’amore, la sua storia d’amore.