Un cimitero

di Andrea Leone

Illustrazione di Salvatore Pontone

Di ritorno da Pisa, da un concerto dei Gambiotronics.
Concerto che mi sarei volentieri risparmiato, se non fosse che a questo genere di eventi elettro-etnici-alternativi schizzano alle stelle le probabilità di incontri fruttuosi con l’altro sesso. E che fai, allora? Non ci vai? Ma si sapeva già come sarebbe andata…

Ecco: e dopo tanto sforzo e sudore e zero godere, ecco che è pure cominciata la parte più dura della giornata, quella da solo, nella notte. A parte tutto, mi sento relativamente tranquillo, anche se il solo dirmelo potrebbe tranquillamente scatenare il panico e il ruggito del mio cuore… Mi vedo bene né di inquietarmi né di rasserenarmi troppo: mi mantengo come immobile, una bella statuina. O quantomeno mi sembrava, perché tra questi pensieri al di sotto del pensiero, me ne viene in mente uno, uno assurdo proprio, che sale, sale… sale tra i viscidi intrecci, fino a farsi solo e in primo piano.

(Siamo a una rotonda, intanto, alla quale prendo a destra: i Monti Pisani sono da quella parte, sono la mia direzione).

Ed eccola la stronzata sopra cui m’involo: la Morte deve sapere dove sei per coglierti.
Se sei in aereo la Morte sa che sei lì, conosce il biglietto. Se sei in treno pure. Se sei a lavoro anche. In ospedale è normale che lo sappia. Ma se io fossi sempre in viaggio? se io mi fermassi solo, d’ora in poi, invece di tornare a casa, per fare rapidamente e unicamente benzina, e poi via! Ripartire immediatamente, senza mai una meta

Per mangiare, sì, fermandomi solo ai chioschi per la strada, pagando dal finestrino, inventandomi una qualche scusa, scusandomi per il disturbo… E per dormire? Beh, l’importante è NON METTERE I PIEDI A TERRA. Come un barone rampante… Per qualche strana legge fisica ancora mai comprovata, considerando una velocità media annuale, comprese le soste (meglio se invisibili dal cielo), di forse 10km/h, si potrebbe davvero pensare di vivere intanto quanto la macchina. Poi cambiarla, e così via, per l’eternità, o almeno fin quando la criogenesi non abbia fatto passi da gigante, tanto da non essere più fantascienza…

Tutto questo avveniva nella mia mente, mentre la macchina e il mio assopito senso dell’orientamento mi avevano gettato totalmente fuori strada; ed ora mi stavano conducendo per una redola di campagna, sterrata, tutta devastata di buche. Buche assai fonde, come di enormi tentacoli che si fossero abbattuti di punta sul duro terreno estivo. Formando enormi crateri. Tenevo d’occhio il cruscotto, conscio che lì, alle brutte, ci sarebbe stata un’arma da usare (la solita): una boccettina di EN (sempre a portata di mano).

Cercavo, adesso, in mezzo allo sballottamento generale, il modo di invertire la rotta. Ma la strada era stretta, di poco più larga di una macchinetta come la mia. Niente spiazzi laterali, nessun modo insomma di fare manovra. Ingranare la retro? Troppo rischioso, impossibile il solo pensiero di ribaltarsi nel campo sottostante… No, meglio proseguire. Di certo più avanti c’è uno slargo, qualcosa per farla questa maledetta manovra e uscire da questa maledetta T che di sicuro era indicata, maledettissimo me… Calmo, calmo… Vedrai che con una bella manovrina si sistema tutto.

Più avanti, sulla destra, nel campo sottostante, un casolare abbandonato, senza il tetto, affogato da un esercito di edere appena screziate dalla pallida luna che ancora non avevo notato, ma che a guardarla non è che prometta bene, a guardarla… Buono, buono cuore…

C’è una curva più avanti. Alla mia sinistra un muro, un muro di mattoni, che più avanti stonda e scompare insieme al viottolo, spalancando d’improvviso su un buio tale che i fari dell’auto si limitano a indicare più che a illuminare.

(Ma dove cane sono finito? Che c’è ora? Che c’è?!)

Ho già ormai la mano sul cruscotto…

Dietro la curva, immerso nella più nera oscurità, più in basso, i lumini: centinaia di lumini occhieggianti, che ondeggiano.
La fine della strada, senza uscita, senza scampo.

Un cimitero.