Giggetto

di Giulio Iovine

Illustrazione di Diaz

Mia madre, notoriamente di poche parole, nel congedare me e i miei fratellini tenne fede alle sue abitudini, e si limitò a raccomandarci di trovare una buona posizione.
Era l’unica cosa che importasse.
Fatto quello, il resto veniva da sé.

«Tanto nel giro di cinque o sei anni sarete tutti morti di vecchiaia», concluse, e volò via.

Volammo via pure noi dal nostro ramo, in cerca di fortuna. Non so in quanti riuscimmo a scampare i fatali cinque minuti dopo l’uscita dal nido, ne muoiono così tanti.
Io ebbi fortuna, perché atterrai quasi subito sulla schiena di Giggetto: da allora vivo lì.

Il nome “Giggetto” gliel’ho dato io, perché non ho idea di come si chiami e siccome non ci ho mai parlato, né mai lo farò, conveniva trovargli un nome da me, altrimenti mi sarei trovato in difficoltà a riferirmi a quello che è, di fatto, il centro della mia esistenza.
Non sono mai più sceso da Giggetto e non me ne allontano mai – in linea d’aria – per più di mezzo metro.

Giggetto è un dinosauro.
Nella fattispecie un sauropode: a occhio e croce, probabilmente un diplodoco.
Credo abbia passato la cinquantina ed è nel pieno della sua maturità. Dalla punta del naso, attraversando collo, dorso e coda, conta circa trentadue metri per ventuno tonnellate; in ogni caso è più grosso di me che misuro, se proprio stiro le mie alucce, una decina di centimetri e peso pochi grammi.
Non credo affatto di essere l’unico pterosauro – ce l’avete presente? Quelli con le ali e i peli? Ottimo – a vivere stabilmente sulla schiena di un sauropode gigante; ma pochi tra i miei conspecifici possono vantarsi di vivere in groppa a uno come Giggetto.
Chiamatemi scemo, ma secondo me Giggetto non è un diplodoco qualunque.

Anzitutto, Giggetto cammina un sacco.
Non sta mai fermo. A bordo della sua schiena ho fatto il giro del continente quattro volte.
Il fatto è che ha bisogno di mangiare, stellina, perché a dispetto della stazza ha il metabolismo alto ed è erbivoro, e sappiamo tutti che le piante, per farle fruttare, devi mangiarne a carrettate.
Giggetto cammina lento ma sicuro, senza esitare, attraverso le grandi pianure. Nella stagione secca si infila per le foreste, abbatte gli alberelli più incerti, ficca la testa nel sottobosco e aspira come se non ci fosse un domani felci, muschio, radici, tuberi e cicadee. Se ha caldo, sale in montagna e io prendo il fresco grazie a lui. Poi quando arrivano le piogge scende verso i fiumi, ingoiando podocarpi, fronde di ginkgo, araucarie, pigne. Quando ha finito, passa al bosco o alla radura accanto. Cammina, cammina fa il giro del continente con me in groppa.
Molti dei suoi compagni fanno branco: lui, che è un boss, viaggia da solo.

Siccome è un giramondo, prende su ogni sorta di parassita, insetto o invertebrato che si trovi nei paraggi, e che si posa sulla sua pelle sperando di deporci le uova o succhiare il sangue.
Ma qui intervengo io, anche perché devo pur mangiare.
Ogni giorno, mentre Giggetto avanza dondolando, delicato nel suo enorme peso, io perlustro il suo corpo, sorvolandolo con le mie ali corte ma rapidissime, e una dopo l’altra faccio strage di queste bestiacce. Quando viene la stagione degli amori e Giggetto gonfia le sue borse golari colorate per impressionare le femmine e rimorchia di brutto perché è pulitissimo, il merito è sostanzialmente mio. Senza nulla togliere, naturalmente, al fascino maschio di Giggetto, cui più di una diplodoca ha ceduto al primo sguardo. Quando arrivano all’atto vero e proprio può diventare un bel problema, perché Giggetto, per montare deve alzarsi sulle zampe posteriori facendo un treppiede con la coda, appoggiarsi sul dorso di lei, e operare di buona lena; sentiste i barriti di questi due “zozzoni”.
Il tutto dura non so quante ore e io devo appendermi alla sua schiena (ora verticale) per non cadere.
Poi la fregola finisce e si ricomincia a viaggiare.

Ogni tanto qualche carnivoro è abbastanza incosciente da cercare di mangiarsi Giggetto.
Mi ricordo la prima volta: mi presi uno spavento che non dimenticherò più.
Era l’inizio della stagione secca, verso sera, e Giggetto stava scendendo dalla cima di una collina al fiume, per la sua bevuta quotidiana. Io, come al solito, me ne stavo comodo comodo sulla sua schiena, da cui si vede sempre un bel panorama e – se non ci sono alberi di mezzo – anche molto in là. Mentre Giggetto aveva la testa tra le onde e le zampe a mollo, bevendo a larghe sorsate, mi sono accorto che da tre quarti posteriore gli stava venendo incontro, passin passino, nientemeno che un allosauro. A suo credito, grosso abbastanza da poter aspirare a Giggetto se si fosse davvero impegnato. Preso dal panico per quello che era evidentemente un agguato, ho cominciato a svolazzare e squittire attorno alla testa di Giggetto, in un patetico tentativo di avvisarlo: lui non ha dato segno di avermi notato.
Intanto l’allosauro si avvicinava al punto debole di Giggetto, la zona prossimale della coda, dove c’è il muscolo che lo fa camminare. Ha aperto la bocca, un orrore quasi verticale di denti, pronto alla sciabolata. Ma ecco che la testa di Giggetto, venti metri più in là, si volta delicatamente a guardarsi indietro, e io mi rendo conto che Giggetto sapeva, perché due secondi dopo tira un calcio all’allosauro con la gamba destra. Un bel calcio, che sbilancia il carnivoro e quasi lo fa inciampare. Cade addosso alla cosciona di Giggetto, il quale si divincola e lo fa scivolare a terra. Altro calcio mentre tenta di rialzarsi, ma stavolta Giggetto si becca un morso sul polpaccio, e una brutta ferita.
L’allosauro fa per allontanarsi a distanza di sicurezza, ma Giggetto, che non l’ha presa bene, scuote la coda a frusta all’impazzata e lo becca in piena faccia (pam!), slogandogli la mandibola.

E niente, l’allosauro se n’è andato con il muso storto e Giggetto, finito di bere, se n’è tornato in collina col polpaccio sanguinante.

Ma la ferita è guarita senza infettarsi.
Un po’ perché Giggetto ha un sistema immunitario niente male, un po’ perché il sottoscritto è rimasto attaccato alla sua gamba per una settimana, oscillando come su un’altalena, a mangiarsi tutte le mosche che si avvicinavano.

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