Re di Roma

di Federico Cirillo

Illustrazione di Tern Pat

Non prende. Niente da fare.
Come dentro la B1, come dal profondo ventre di Sant’Agnese Annibaliano, anche qui a Re di Roma non prende il telefono.
Questo vuol dire smettere di, nell’ordine:

  • eliminare la sottoscrizione ad una mailing list che mi perseguita da anni con offerte di lavoro nell’ambito del settore “creativo”;
  • smettere di far caricare la pagina google “come cancellarsi da una miling list” (sì lo so, ho scritto male, ma la grande G ha capito lo stesso);
  • doverla smettere di polemizzare all’interno di un gruppo WhatsApp.

Fortuna che ho un po’ di musica dall’offline di Spotify, così posso applicare qualsiasi colonna sonora al mondo circostante, affrescato con le espressioni imbarazzate e smarrite dei passeggeri improvvisamente privati dei loro giga: meraviglioso.

Tom Waits non ha fatto in tempo ad arrivare nelle mie orecchie con il refrain di Downtown Train che qualcosa, qualcuno, mi spinge con la schiena verso la parete della metro, facendomi anche sbattere contro il giornale del tipo che da quando sono salito era sulla stessa pagina. Mi giro di scatto e noto che, quasi fosse un Mar Rosso nel pieno dell’azione che l’ha reso famoso, la folla si è aperta per far da cornice ad uno spettacolo primordiale.
Il letto del fiume di gente è infatti occupato da due ragazzi, alti, palestrati e pieni di tatuaggi che si spintonano, strattonano e scalciano, come due gladiatori all’interno dell’arena.

Ho ancora le cuffie e non riesco a sentire cosa si sputano addosso, faccia contro faccia, fronte contro fronte, pugno contro pugno.
Me lo posso immaginare facilmente però: un insulto alla Mamma (Nun t’azzardà manco a nominalla, hai capito)? Un’offesa alla Squadra del Cuore (ah zozzo!)? Un biasimo o una polemica nei confronti dei metodi di allenamento di uno dei due (e quelli li chiami porpacci? Ah secco)? Uno sguardo di traverso di troppo (aoh, ma che cazzo te guardi)? Un apprezzamento non richiesto alla ragazza dell’altro (ah coso, ma nun lo vedi che è a’donna mia? Abbassa quell’occhi si nun te voi ritrova’ cieco!)?

Non lo so, ma con la voce di Tom nelle orecchie, tutto diventa così surreale: i “mortacci tua” sono sostituiti da “Will i see you tonight”, le bestemmie che si lanciano contro da “On a downtown train”, i “nun me tocca’” dai “Every night, It’s just the same, You leave me lonely”, e così via.

A Termini si aprono le porte della metro e i due, che ancora non hanno finito di menarsi selvaggiamente, tra un pugno e un calcio si avvicinano pugnacemente all’uscita.
Decido di capire: che cazzo è successo?
Tolte le cuffie, dalla nuvola di botte che i due energumeni hanno creato esce fuori quello che non ti aspetti:
«Servo Tullio!» urla uno dei due, tenendo per la gola l’altro e pulendosi del sangue dalla bocca. «Anco Marzio!» risponde l’altro con la voce rotta e sfiatata mentre cerca di sferrare l’ennesimo pugno che, visto il braccio, abbatterebbe un toro.

«T’ho detto Servo Tullio, Servo Tulliooo!» fa in tempo a gridare il primo, nell’attimo esatto in cui il destro del secondo gli atterra sulla guancia, accompagnato da un «Anco…Marziooooo!! Era Anco Marzio!!», e la spinta è così forte che, finalmente, i due precipitano insieme fuori dal vagone.

«Assurdo» penso ad alta voce, rivolgendomi ad un ragazzo vicino che, come me, ha assistito a tutta la scena «Ma che cazzo è successo? Perché litigavano? Che c’entra Servo Tullio?»
«Ma boh» risponde il ragazzo in tuta mentre si aggiusta gli occhiali da vista.«Hanno iniziato a litiga’ a Re Di Roma su chi fosse stato il secondo re di Roma, appunto. ‘Na cosa tira l’altra, non si sono trovati d’accordo, ed ecco che l’hanno risolta nel modo più peripatetico possibile: se so’ presi a pizze».
«Assurdo» commento mimando un “no” non la testa e guardando verso la porta della metro ancora aperta sulla banchina di Termini «Ma come se fa a litiga’ per una cosa del genere? Quei due, poi? Mah. Che poi si sa»azzardo con tono saccente,«il secondo Re di Roma è stato Tarquinio Prisco, era facile».

Non l’avessi mai detto. Il mite ragazzo dagli occhiali spessi gira di scatto lo sguardo verso di me, e un lampo di follia e rabbia repressa gli illumina gli occhi. Carica corpo e braccia, digrigna i denti e con ira funesta, improvvisa e inaspettata, mi spinge fuori dalla carrozza e anche io mi ritrovo eiettato sulla banchina, culo per terra e faccia sorpresa.

«Ma che cazzo dici a’scemo: era Numa Pompilio!» mi urla il ragazzo, proprio mentre le porte si chiudono e il treno riparte direzione Battistini.

Rimango così: fermo per terra, a fissare il treno che mi scorre davanti. Riprendo il telefono in mano e mentre la voce nelle cuffie si dissolve in un “All my dreams fall like rain”, sempre da terra controllo rapido su google, sempre con gli occhi sgranati e con il cuore che mi batte a mille. Il telefono adesso prende. Tom Waits ha smesso di cantare. La mail è rimasta è in bozze.

Il gruppo ha cinquanta nuovi messaggi. Google rapidamente mi dà la risposta: cazzo, aveva ragione.