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di Cristi Marci

Illustrazione di Anastasia Coppola

Sono pochi i romanzi che lasciano un senso di inquietudine mentre svelano l’enorme anima della natura umana. Una vita come tante di Hanya Yanahihara, edito da Sellerio, è uno di questi.

Quanto pesa l’a natura’animo umano?

Non sempre le parole si rivelano capaci di contenere il peso delle proprie esperienze, di trasformarle attraverso la fioritura di un nuovo dialogo e ancor più di fare del proprio vissuto una bussola in grado di portaci verso nuovi orizzonti e di allontanarci da quelle schegge con le quali troppe volte abbiamo corso il rischio di tagliarci. Spesso queste creature viventi rischiano di appassire ancor prima che possano sbocciare in nuove sorgenti luminose, rendendo il corpo l’unico mezzo attraverso il quale esprimere quanto di più intimo e doloroso risiede al suo interno, dove le radici del passato corrono il rischio di ledere un presente dal futuro incerto.

Spesso le numerose trame che abbiamo vissuto solcano, come onde spumose, la superficie della nostra pelle depositando cicatrici, rughe o perfino indelebili sorrisi debitamente mascherati dal volto della menzogna e da un silenzio che non cessa un solo istante di fare rumore dal profondo della nostra fragilità.

Storia di una lunga amicizia

Una chiave quest’ultima che pagina dopo pagina porta con sé tanti chiaroscuri quante sono le emozioni vissute sia dal protagonista, Jude, che dai suoi tre amici di lunga data: Willem, Malcom e JB. Quattro ragazzi legati da un’amicizia di lunga data risalente ai tempi del college e che tuttavia, in un’America sempre in movimento, deve fare i conti con le richieste imposte dalla vita e dalle nuove sfide evolutive; di fronte alle quali ciascuno sceglierà un nuovo modo di stare al mondo.

Yanagihara invita chiunque desideri leggerla a conoscere gli inviolabili confini della vulnerabilità umana, dove il tradimento e la fiducia nei confronti sia del prossimo che del proprio vivere, riflettono i capisaldi attorno ai quali prende vita una trama fatta di abbandoni, riscatto, amore e speranze.

Parole pronte a ghermire e al contempo a far risplendere corpi forti e deboli, raccapriccianti e rumorosi ma tuttavia perfetti nella loro fragilità.

Eppure, l’amore nei confronti della vita sembra sfidare prepotentemente il desiderio della morte, creando un equilibrio che sul filo del rasoio è sempre pronto a crollare. A dissolvere le numerose speranze che non cessano un solo istante di alimentare un cuore che, malgrado gli eventi, tiene ancora duro. Reclamando ancora un ultimo battito.

Per chi ama farsi leggere

Farsi leggere da questo romanzo vuol dire riconoscere e riscoprire un linguaggio psichico capace di diramarsi anche e soprattutto a livello corporeo, sulla cui superficie i segni del nostro tempo danno vita a porte che non vorremmo si aprissero più.

In questo romanzo il corpo si fa dunque portavoce di un vissuto dai numerosi risvolti, rispetto ai quali tanto l’amore quanto il desiderio di riscatto sembrano collocarsi al servizio dell’altro e mai a proprio favore.

Leggerlo pertanto vuol dire addentrarsi in quei distretti corporei e in quegli anfratti oscuri della propria anima, entro i quali la paura del passato non cessa un solo istante di bussare alle soglie del proprio cuore; dove le trame della propria esistenza rischiano di sgretolarsi per sempre.

Per chi ama tornare a vivere

L’infinito rapporto fra il trattenere e il lasciare andare riflette a pieno titolo la modalità attraverso la quale il protagonista, Jude, sceglie di lasciarsi guidare dai quei linguaggi del proprio vissuto pronti a delinearsi sulla sua pelle. Quello che si evince è una brutale forza magnetica pronta a ridefinire il concetto del limite, oltre il quale la pelle stessa, nonché la propria carne, rischia di lacerarsi fino alle sue radici.

Perché la vera protagonista di questo magnifico romanzo è proprio la pelle, in carne e ossa; un velo fatto di tessuti cicatriziali che altro non fanno se non evocare strade ormai battute, bivi dinanzi ai quali il dovere era l’unica forma di sopravvivenza; scelte pronte a mettere in discussione finanche il concetto stesso di speranza.

Al contempo l’autrice pone l’animo del lettore di fronte ad una scelta di non poco conto, la stessa che mi ha accompagnato lungo questo sentiero fatto di carta e parole; ovvero quello di scendere nel profondo degli abissi dell’animo umano, affinché la parola possa tornare ad essere l’unica arma con la quale abbattere un’oscurità sulla quale si rischia di costruire la propria identità.

Un romanzo denso di imprevedibilità, anche narrativa, nel quale ogni finestra di carta che si sceglie di sfogliare invita a posare gli occhi su un mondo sempre nuovo, del tutto sconosciuto, dove anche l’ultimo briciolo di silenzio è pronto a trasformarsi in un grido rinnovato: quello di tornare a vivere.

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di Laura Bortot

Illustrazione di Redazione

«È libero il posto, signorina?»

«Sì, certo, prego»

«Davvero un bel verde, quel suo maglione… »

«Grazie».

Scatta rapidissimo, il primo pensiero: questo vuole attaccare bottone.
Mi giro verso il finestrino, tanto per chiarire subito il concetto: non ho voglia di parlare.

Ma nei pochi secondi che mi sono serviti a rendermi conto della domanda e a formulare una risposta ho anche avuto modo di incrociare lo sguardo dell’uomo: due occhi azzurrissimi, quasi bianchi, spalancati sul mondo come se non restasse che lo stupore, e persi oltre il vetro, in un orizzonte opaco.
Subito sotto un naso storto e sottile, uno scivolo perfetto verso la bocca incerta tra un sorriso e un tremito. Sulla fronte un brizzolo di capelli scompigliati in una nuvola inquieta.

Non proprio il volto dell’aggressività.
Quindi mi rilasso, mentre il treno parte e le immagini al di là del finestrino se ne vanno, una dopo l’altra, dolcemente, e come sempre mi aggredisce quella sensazione di perdita definitiva.

«Davvero un bel verde… sì, sì, un bel verde… come l’albero, un albero di montagna, sì, sì, la montagna… ti ricordi l’albero… l’albero…».

Ruoto appena la testa per capire se stia parlando con me.
No, gli occhi continuano a guardare fuori, smarriti. Prendo dallo zaino il libro per segnalare ancora una volta che non c’è possibilità di conversazione.

«L’albero, l’albero verde, davvero un bel verde, ti ricordi? Non ricorda. No, non  ricorda… L’albero verde, davvero un bel verde… Dobbiamo raccogliere le foglie? Ma l’albero è verde… Davvero un bel verde…».

L’udito disobbedisce e abbandona il libro.
La vista procede nella lettura. Forse ha solo bisogno di parlare, forse è solo un po’ strambo, dopotutto sta viaggiando da solo, immagino sappia dove andare, dove scendere. Declama a voce alta ma non urla, le parole sfilano senza picchi, scorrono in alvei sicuri, solo che hanno bisogno continuamente di appigli, la ripetizione come una sorta di conferma, una saldatura per poter passare al pensiero successivo.

«Verde, vedi il tetto verde? È il muschio, vedi? Il muschio è verde, vedi? Non vede. Dobbiamo togliere il muschio? Io non lo so… Dobbiamo togliere il muschio? Io non lo so… tu lo sai? Non lo sai. Il tetto è tutto verde. Davvero un bel verde… Ma non lo vede».

Ci sono patologie lievi, suppongo. Si vive leggermente scollati dalla realtà, si cerca di ritrovare un contatto attraverso la parola, può essere? Magari è una fase, un momento difficile della vita. Magari si prendono delle medicine che creano un certo equilibrio, solo che brandelli di mente si incaponiscono, si ribellano e sfuggono comunque.

«Il tetto verde, davvero un bel verde, ma le finestre non sono verdi, no, quelle no, ti ricordi? Perché non parli? Non parli? Non vuole parlare. Non parla. Ma le finestre non sono verdi, no, no, quelle no… invece sì, quando si chiudono diventano verdi, sì, sì, diventano verdi… Dobbiamo chiudere le finestre? Non lo so, tu lo sai? Così le finestre diventano verdi…»

Di nuovo un impercettibile movimento del capo per sbirciare il suo viso.
Sorride, sta sorridendo, sembra felice, guarda lontano nel paesaggio liquido al di là del finestrino, e sorride. Un’improvvisa tenerezza.
Riprende subito, con lo stesso tono di voce, solo che ora cavalca le parole.

«Davvero un bel verde, quando si chiudono diventano verdi, quando si chiudono… quando si chiudono… quando si chiudono è buio, ma poi è mattina, la mattina non è la montagna, no, no, la mattina non è la montagna, la mattina è il mare, sì, il mare, l’acqua, senti l’acqua, senti il mare? Dobbiamo entrare nel mare? No, vedi il mare? Lo sai il mare? Lo sai l’albero? No, non lo sai. Senti il mare? No, non lo senti…»

La cavalcata si spegne di colpo collassando sull’ultima frase: non lo senti.
Collassa, sembra sul punto di spezzarsi, poi riannoda miracolosamente un filo.

«Il mare è verde».

Un sorriso lontano.

«Il mare è verde, davvero un bel verde».

Parole lente, che a quel punto mai potrei sporcare con un commento qualsiasi per riacciuffarlo, per non lasciarlo precipitare nel crepaccio aperto tra due realtà che gli franano addosso, trascinando con sé detriti di ogni genere.

«Senti che il mare è verde? No, non lo senti. Non senti l’albero verde? Davvero un bel verde… Non senti il tetto verde? Non senti le finestre chiuse verdi? Non senti il mare verde? No. Non ricorda, non vede, non parla, non sente…»

Mi manca il respiro.

«Davvero un bel verde, signorina».

Mi guarda. Si alza. E scende alla stazione.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Una biciletta, una gran voglia di crescere e un cuore ancora non pronto per farcela. La commedia umana, edito da Marcos y Marcos, definito romanzo di formazione, parla del passaggio all’età adulta non solo del maggior protagonista Homer, ma dei giovani dell’intera comunità di Ithaca, protetti – ma non troppo – da chi prima di loro deve soppesare dolori e sconfitte. Un affresco dell’America di provincia degli anni Quaranta che rimane impresso.

Quanto pesa una lettera?

Non sono discorsi di bilance, non per quelle che misurano in grammi ma per quelle che misurano lacrime e sorrisi. Non tutte le lettere hanno lo stesso peso. Questo il quattordicenne Homer lo impara fin da subito quando, nei pomeriggi dopo la scuola, comincia a lavorare come fattorino per l’ufficio del telegrafo.

Un romanzo con personaggi a tratti utopici dove il bene sconfigge il male grazie alla bontà d’animo. Bisogna avere la forza di sospendere il giudizio ed arrivare fino alla fine per non cedere alla tentazione di definirlo stucchevole, cosa in cui la prosa delicata e scorrevole di Saroyan non scade mai.

Chi bussa alla porta?

Arriva un momento nella vita di tutti, forse anche più di uno, dove ci si sente irrimediabilmente soli e smarriti. I personaggi di questo romanzo lo sembrano un po’ tutti ma ad alleggerire questo apparente peso è la solidarietà di una comunità mista che in qualche modo cerca di superare il difficile presente. Un orecchio teso all’uscio della porta alla quale può bussare un messaggero di morte o un annuncio di speranza per il futuro.

Siete pronti a farvi ipnotizzare?

Bisogna farsi ipnotizzare dal movimento dei raggi della bici, farsi cullare dal ritmo delle sbornie, delle canzoni di chiesa e mangiare tortine di mele e cocco fino ad arrivare alle ultime pagine.

Ithaca può anche sembrare un mondo ideale in cui comunicazione e comprensione hanno la meglio sui normali dissapori di comunità. La bravura dello scrittore è quella di darci questa illusione facendo in modo che, pagina dopo pagina, non solo lo stupore e la meraviglia del mondo infantile ma anche il dolore tenuto a bada diventino anche i nostri. Un’impalpabile leggerezza nonostante la cornice di dolore si slabbri sempre in schegge che lambiscono le figure dei vari ritratti.

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di Silvia Roncucci

Illustrazione di Redazione

I finestrini li apre subito dopo la fermata di Castellina.
È lì, infatti, che il fiume si torce in un’ampia serpentina e poi prende a scorrere dritto, parallelo alla ferrovia.  È lì, lungo l’Elsa, che hanno costruito una pista pedonale. Dovevano usare i fondi per dei lavori alla piscina, risistemare il campo da tennis.
Chissà come sarebbe andata se i progetti iniziali si fossero realizzati.

Al mattino Fausto scorge le sagome di nonni energici che spingono carrozzine, ragazzi svogliati che marinano la scuola, qualche podista temerario. Non tanto quanto quelli che si avventurano quando il cielo si infuoca, i ragazzacci forse l’hanno fatta franca o forse no, e i nonni con i nipoti sono al caldo da un bel pezzo. È allora, sul treno delle diciannove e trenta, tra Castellina e Poggibonsi, direzione Firenze, che Fausto vede spuntare una macchia fosforescente tra le forme incerte degli alberi. Il giallo schizza fuori dai cespugli, percorre la pista, in un attimo il buio lo inghiotte.
E quando accade il suo petto s’infiamma più di quel che resta del cielo: una striscia rossa lontana che la sera spinge via a fatica.

«Può chiudere, per favore?» chiede un passeggero.

«Cosa?» risponde Fausto.
Si riscuote, non lo aveva visto, oggi è più fuori asse del solito.
«Controllore, qui si gela!» dice l’uomo stringendosi nel cappotto.

È lui, Fausto, il controllore.
Potrebbe imporsi. Decidere una buona volta di far corrispondere la personalità che porta dentro alla sua figura imponente. “Tirare fuori il carattere” come qualcuno gli chiedeva sempre di fare. Oppure trovare una scusa. Un motivo tecnico per cui oggi, sul treno delle diciannove e trenta, direzione Firenze, dove il fiume si raddrizza e corre gareggiando con la locomotrice, nonostante l’autunno precoce abbia scalzato l’estate, lui deve assolutamente e senza lasciare spazio a obiezioni, tenere i finestrini aperti.

Non può dire che lo fa perché il suo pensiero stupidamente magico lo ha convinto che l’essenza di chi corre tra gli alberi con indosso un giubbetto giallo possa raggiungerlo fin dentro quel vagone.
Che accade spesso. Che è il loro appuntamento inconsapevole. Almeno per chi corre.

Fausto, quella sua abitudine di allenarsi sempre alla stessa ora se la ricorda bene. Come i dettagli di ciò che indossava: le mille fasce scaldacollo tutte uguali, gli auricolari sempre in giro per casa, i pantaloni termici con le strisce fluorescenti che Fausto definiva «inaccettabili» al di fuori dell’allenamento. Lo diceva divertito, ricevendo in cambio un broncio falso e un «ciao, a dopo» che vorrebbe tanto valesse ancora.

Invece ingoia le parole e rapido tira giù i vetri.
Il passeggero bofonchia qualcosa, si slaccia un bottone del colletto e chiude gli occhi alla ricerca di un sonno che, da come strizza le palpebre e continua ad accavallare e scavallare le gambe, probabilmente non arriverà mai.

Prima che il treno superi il fiume, Fausto si siede vicino al finestrino per vedere se riesce a scorgere un puntino giallo. Fissa il buio, le dita infreddolite dal contatto con il vetro, chiama a raccolta le buone stelle. Forse è destino che non accada, si dice, perché chi aspetta verrà in altri luoghi e tempi.
Ma la realtà risucchia la carrozza in galleria e non c’è prodigio che tenga.

Appena fuori dal tunnel sente il posto che occupa insopportabilmente stretto. Le gambe: deve sgranchirle. Scatta in piedi, si scrocchia la schiena, si passa le mani ancora fresche sul viso. Percorre il treno da cima a fondo. Sui sedili riposa la scia dei pendolari del sabato sera. Studenti che risiedono in capo al mondo e troveranno le madri ad aspettarli ancora in piedi. Impiegati arresi a straordinari che non gli varranno niente oltre lo stipendio ordinario. Badanti assopite, l’animo finalmente alleggerito dal lusso di lasciarsi trasportare. Se non fosse che lo prenderebbero per matto, vorrebbe chiedergli di loro, le loro storie, le loro vite per uscire un attimo da se stesso.

Tornando indietro ritrova il passeggero burbero.
Il sonno si è finalmente posato su di lui. Il riposo lo ha trasfigurato, i tratti rilassati non gli somigliano. Chissà dov’è che scende, se quella momentanea perdita di controllo gli ha fatto saltare la fermata.

Fausto si siede nello stesso scompartimento.
Manca ancora un po’ ad arrivare a Firenze, è ora di occuparsi delle scartoffie. Lasciarsi schiaffeggiare da una burocrazia di caratteri neri su carta dalla grana grossa. Forse all’arrivo gli amici disertati per un’esistenza a due staranno seduti ad aspettarlo allo stesso tavolo del bar. Le ruote della bicicletta abbandonata in garage attenderanno di essere gonfiate. Le illusioni al finestrino, i nutrimenti a pane e chimere, sono davvero scese prima della galleria.

La frenata al capolinea scuote il vagone e desta il passeggero. L’uomo si stropiccia gli occhi e dondola verso l’uscita, confuso. Saluta Fausto mentre gli passa accanto. Non è più quello che si lamentava, né quello che dormiva. È un altro ancora.
Chissà se anche lui ha avuto la stessa impressione appena balenata nella testa di Fausto: loro due si assomigliano.
La statura, la camminata ondeggiante.

Quell’aria comune di non essersi ancora del tutto riscossi dal sonno.

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di Rachele Fattore

illustrazioni di Anastasia Coppola

Edito da Rizzoli. Siamo a Tokyo nel 1996. Arata ha 28 anni e passa le giornate misurando i livelli di rumore del suo distretto.

Per chi è ammaliato dal fascino delle metropoli

Tokyo, circoscrizione S. Il rumore di autocarri, vetture e clacson sulla circonvallazione oscilla tra i 75 e i 78 decibel. Per l’ufficio di Tutela Ambientale non rientra nei parametri dei “rumori molesti”.

Arata è un ragazzo di ventott’anni che vive con lo slash metal nelle orecchie in una sorta di bolla sensoriale che lo protegge da tutto e tutti.

Quando gli abitanti delle case popolari chiedono che vengano fatti dei rilievi per valutare il disturbo della quiete causato dal canto di un gallo, Arata scopre che esiste un mondo di suoni parallelo.

Dare una forma all’ambiente sono col quale si entra in sintonia

Coperti dal frastuono della città ci sono suoni antichi che le orecchie dei cittadini, assuefatte al traffico e ai suoni artificiali, non sentono più. Per il protagonista l’incontro con il contadino diventa l’occasione per tracciare la mappatura di una realtà sonora invisibile.

Nel suo perlustrare la città alla ricerca di suoni, Arata ritrova un vecchio amico di università, Ikuo.

Musicisti nella stessa band, entrambi legati in modo viscerale ai suoni, ricercano una perfezione che non può appartenere agli uomini. Insofferenti, con relazioni in crisi, i due amici vivono appesi a corde tese che non appena vibrano rischiano di farli cadere nel baratro. Tra bar sotterranei e izakaya si ritrovano ad essere amanti della stessa donna, Mariko, sentimentalmente libera ma impegnata in un telephone club.

Anche lei ha un passatempo: afferra storie attraverso le onde radio che trasmettono, con distacco, ciò che avviene nelle case, negli uffici, negli hotel. Tokyo si trasforma così in un brulicare di suoni e di onde e in altrettanti orecchi più o meno indiscreti.

L’affanno di voler accordare uno strumento imperfetto

Seppur giovani, ad immaginarli i protagonisti sembrano già anziani e messi alla prova da scelta infelici. È alla sera che vengono raggiunti dall’eco delle giornate: il corpo stanco, incapace di muoversi, attende in affanno che esse si sedimentino e che vengano digerite dal con l’alcool. Ma, se di notte i suoni diventano più cristallini, non fanno altrettanto le azioni umane e così si rimane sconvolti nel vedere negli altri ciò che non si è disposti a vedere e riconoscere in sé stessi.

I sottili messaggi della narrativa giapponese

Hitonari Tsuji riesce, grazie alla sua esperienza di musicista e fotografo, a dar vita ad un’immagine realistica della città tanto che sembra di esservene immersi.

Tokyo Decibel è un romanzo che parla di non appartenenze, di ascolti clandestini, di persone disarmoniche che cercano la loro personale accordatura. Con un ritmo lento e una malinconia sottesa racconta di una città caotica in cui ci si può smarrire in un’illusoria bolla di suoni.

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di Lucia Sirna

Illustrazione di Redazione

Il treno partì velocissimo e io non curante dei passeggeri e compagni di viaggio seduti accanto guardavo fuori dal finestrino i fotogrammi confusi del paesaggio che si presentavano dinanzi al mio sguardo suscitando un caos ipnotico e mentale di emozioni indefinite e pensieri sconosciuti.

Allorché.
Un’immagine non definita apparve sul finestrino inserendosi indisturbata nelle scene e destabilizzando la mia attenzione.

Poi.
Un brivido gelido mi percorse la schiena come un serpente che striscia lungo un sentiero pieno di ostacoli.

Immediatamente.
Focalizzai l’immagine e avviai lo scanner, quindi, inviai i dati al mio cervello per essere elaborati.

Risultato.
Un passeggero di sesso femminile.

In breve.
Una visione celestiale di giovane donna che con i suoi ferormoni solleticò il mio istinto predatorio.

All’istante.
Il riflesso del suo viso mi ammaliò, mi soggiogò, mi penetrò l’anima e mi fece suo. Ευρηκα. Gridai nel mio intimo più intimo, ovvero, nell’intimissimo delle viscere profonde e profumatamente igienizzate e deterse.

La donna della tua vita.
Mi suggerirono voci provenienti da un luogo nascosto e buio.

Le viscere profonde.
La donna della mia vita.

Confermò la parte di me desiderosa di una relazione amorosa stabile.
Una moglie. Un’amica. Un’amante.
Osservai e scrutai.

La visione celestiale.
Capelli lunghi e ondulati. Viso tondo e perfetto. Occhi languidi e teneri. Labbra carnose e sensuali.

Sentivo profumo di donna.
Udivo parole di amore.

Un attimo. Uno sguardo e…mi innamorai di lei.
Una semplice sconosciuta.

Adesso.
Era giunto il momento.
Conoscere il suo nome. Vedere il suo dolce viso. Toccare il suo splendido corpo. Sentire la sua voce soave.

Armato di coraggio. Vincendo la timidezza. Sconfiggendo le paure. Curioso e innamorato.
Lentamente girai il capo e con lo sguardo cercai la mia amata.
La donna della mia vita.

Trovai.
Il viso sconosciuto di una passeggera. I capelli avvolti da una cornetta bianca. Il corpo ricoperto da un vestito lungo e nero. Un libro stretto tra mani ruvide.

Il mio sguardo iniziò a vacillare.
La mia mente entrò in uno stato confusionale.
Il punto fisso era andato perduto e tutto girava intorno a me.

Una vertigine. Un capogiro. Un mancamento.

Inaspettatamente.
Fui posseduto da un’ansia incontrollata e maligna.
Volevo un esorcista.
Il sogno di trovare la donna della mia vita si sarebbe potuto realizzare o dissolvere.

Infatti.
La speranza si sarebbe frantumata in tanti cocci come un bicchiere che cade sul pavimento.

Quindi.
La passeggera sconosciuta, guardandomi con un sorriso divino, immersa in un’aura mistica, si rivolse a me con parole di beatitudine e benedizione.

Disse.
«Il signore sia con te!»

O mio dio! Esclamai.
Un angelo. Pensai.

Allegro risposi.
«E con il tuo spirito».

Mentre un coro di voci bianche intonava: Alleluia! Alleluia!! Alleluia!!! Al-le-lu-ia!!!!!

Ero gaio. E gaia era lei. E gaie erano il coro di voci bianche. E gaio era il momento.

All’improvviso.
Sentì un rumore acuto perforare il mio timpano.
Un tonfo.

E poi vidi.
I cocci della mia speranza frantumati sul pavimento.
Il sogno perso.
L’illusione svanita.
L’amore deluso.

Un fruscio di parole mi ronzava in testa come un ritornello fastidioso di un tormentone estivo.
Il signore sia con te.
E con il tuo spirito.

Poi.
Impetuosamente chiesi.
«Mi scusi splendido fiore germogliato in un campo all’aperto e donna di altri tempi ma a quale signore allude al personaggio che indossava una veste nera con un collarino bianco che prima era seduto accanto a lei?» «Non conosco il signore – disse sorridendo – figuriamoci il suo spirito».

Immediatamente.
Risi di un riso blasfemo.

Risultato.
La visione celestiale infastidita andò via come una furia lasciandomi le sue ire funeste.

E con lei.
Il presagio di un amore eterno e indissolubile.

In breve.
Mi ritrovai sulla strada di ritorno dalla via di Damasco e realizzai le tristi circostanze che avrebbero flagellato per sempre la mia anima.

Dunque.
Rielaborai i dati e composi il puzzle della visione celestiale.
Ed ecco me stesso in una versione d’idiotismo certamente non linguistico.
Ma strettamente ed esclusivamente mentale.

Un vestito lungo e scuro. Un libro nero chiuso tra le mani. Indizi inequivocabili.

Una suora.
Ingenuo.
Labile.
Emotivamente instabile.
Alterato psichicamente.

Che importa.
Ribattei io al coro di voci ghost che intonavano un osanna di scherno e derisione.
Le emozioni provate in quegli istanti furono intense e reali.

Una suora.
Magari mi avrebbe fatto conoscere degli Angeli.
Nuovo Presagio.
Conoscere Angela o Angelo.

Moralismo.
Il presagio di un’emozione è reale anche se la realtà dell’emozione è nel presagio.

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di Rachele Fattore

Illustrazioni di Anastasia Coppola

Edito da Einaudi per la prima volta nel 2004, “Nebbia e cenere” mescola elementi come nostalgia, rimpianto, frustrazione, dolore.

Per chi è nato nella nebbia o ne subisce il fascino.

Un caffè abbondantemente corretto di prima mattina al bar Eden e via si parte. Rusco, un autobus malandato che soffre l’età e il freddo, trasporta i bambini nelle desolate terre di provincia. Bruno, l’autista, ha da tempo rinunciato alle sue aspirazioni e trova in quel suo lavoro il conforto della sua solitudine.

Bruno: trentotto anni e un concentrato di nostalgia e frustrazione. La vita a Lancimago ruota attorno alla scuola e al bar di Lucilla dove si discute di calcio, si fuma senza sosta e si fanno partite di biliardo. Tutti si trovano lì, compagni d’infanzia divenuti la colonna portante del paese: il medico, il carabiniere, l’autista. Ma quegli amici, a differenza di Bruno, si sono fatti una famiglia e quando la solitudine lo attanaglia e lui li cerca al bancone del bar senza trovarli, si rende conto di quanto sia stata inconcludente la sua vita e di quanto gli manchi Serena, la sua ex.

Il peso che portano i bambini.

Essere bambini sembra facile, ma nessuno più di Bruno capisce quante fatiche possano portare le spalle fragili dei bambini. Lui, che da piccolo era per tutti il fratello dell’indemoniata, capisce dal loro sguardo come possono aver passato la notte. Per Francesco, Chiara, Martina e Christan lui è uno zio, qualcuno di fidato con cui confidarsi nel tragitto da casa a scuola. Ognuno di loro, preso da un piccolo dramma, un desiderio, la voglia di fuggire, si avvicina al posto di guida e si scrolla di dosso un po’ di peso. Sanno di potersi fidare.

Illusioni e ossessioni degli adulti.

Ci sono scorci di una Bologna universitaria fatta di mostre fotografiche, feste e spensieratezza. E c’è la vastità della campagna padana per mesi avvolta dalla nebbia dove ogni cosa sembra dello stesso identico colore, dove non si vede l’azzurro del cielo, dove la vita si dilata nell’attesa del giorno successivo e con essa le ossessioni. L’illusione di un momentaneo ritorno al passato può trasformare l’euforia in amarezza.

Serena dopo mesi in una relazione poco convincente, lascia Bruno e quella campagna che la soffoca e si trasferisce in città. Bruno invece, mai rassegnatosi alla fine della loro relazione, con l’avvicinarsi del Natale decide di riprovarci e organizza un revival che, né è certo, la farà ritornare al suo fianco.

In questo romanzo l’atmosfera del paesaggio rispecchia in pieno la solitudine del protagonista; talvolta diventa complice delle vicende narrate. A tratti ironico e dolce, il romanzo scorre piacevolmente verso l’epilogo. Alcune sottotrame, funzionali alla caratterizzazione del protagonista, rimangono purtroppo aperte senza tuttavia togliere fascino al romanzo.

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di Simona Visciglia

Illustrazione di Paola Donnici

Sono un uomo metodico.
Noioso direbbe qualcun altro.
Sono sempre stato così.
Non perdo tempo, non giro per casa cercando le chiavi o mettendo in ordine le mie cose: tutto è dove dovrebbe essere.

Ho un piano preciso per vivere, basta attenersi a quello e mi avanza il tempo per rilassarmi, per il sudoku o per un buon libro. Sono un pendolare e sono un contabile, cos’altro avrei potuto fare?
E ho sempre calcolato ogni cosa, fino ad oggi.

Sono in tram, all’incirca a metà percorso tra il mio ufficio e la stazione.
Guardo fuori dal finestrino, senza mettere a fuoco: un’unica macchia indistinta per i miei occhi affaticati dopo ore al pc. Non penso a nulla in particolare, del resto so sempre cosa mi aspetta, non è necessario che mi soffermi a riflettere.

«Mi scusi…» una voce si insinua tra il mio silenzio interiore e il rumore monotono del tram che scivola liscio sulle rotaie, «Sa dirmi se ferma in piazza Libertà?».
Giro lo sguardo verso la persona che è seduta di fianco a me, una donna che sembra uscita da un romanzo di E. M. Forster, catapultata ai giorni nostri.
Indossa con disinvoltura un cappellino a cloche, color carta da zucchero; la gonna di lana dalla foggia un po’ sorpassata e il cappotto del colore delle campagne inglesi completano il quadro.
Ha uno strano accento, direi tedesco, per quel modo perentorio di scandire le parole.

Rimango un attimo interdetto, perché non so se il tram fermi in piazza Libertà: da anni il mio itinerario si snoda dalla stazione all’ufficio e viceversa, cosa ci sia prima o dopo è un mistero.
«Sa che non glielo so dire, signora – bofonchio – però, aspetti un attimo, diamo un’occhiata al percorso» e le indico il grafico con tutte le fermate, che fa bella mostra di sé appena sopra i nostri sedili.
E aggiungo, preso da un’immotivata agitazione: «Non viaggio mai su questa linea».
Mento spudoratamente, vergognandomi di questa falla nel mio sistema inoppugnabile di conoscenza del mondo.
Inforco gli occhiali e inizio a studiare il percorso.

Piazza Libertà, tre fermate dopo la stazione: «Sa che c’è, signora? Quasi quasi scendo a questa anche io». La città è sempre la stessa, eppure potrei definirmi uno straniero, ancor più della mia interlocutrice improvvisata.
«Facciamo un pezzo di strada insieme, se le fa piacere, se non le sembro inopportuno».
La donna mi sorride:
«Giovanotto, accetto volentieri e approfitto della sua gentilezza per chiederle un’altra cortesia. Le sembrerà strano, ma ho solo bisogno che mi indichi un palazzo rosso. Mi hanno dato questa informazione non sapendo che sono daltonica».

Emetto un uh come di fronte ad una rivelazione sensazionale e lei continua: «Per me le fragole sono verdi. E anche le ciliegie. Vedo tutto verde, un albero lo percepisco bene però. Con gli anni, poi, ho imparato a distinguere il verde dal viola, ma il palazzo rosso mi riesce un po’ complicato!».

Penso: invecchiando, un colore nuovo;
invecchiando, una strada nuova.
E se fosse tutto diverso, d’ora in avanti?
Nuovi colori, i viola diversi dai verdi. Fermate da scavalcare. Occasioni da prendere al volo.

«Ecco, guardi – torno in me, focalizzando lo sguardo sulla piazza e sull’unico edificio rosso-mattone – è senz’altro quello». La signora mi ringrazia con veemenza e, allontanandosi, mi fa cenno con la mano, scandendo un accorato Auf Wiedersehen!

E ora?
Continuo a pensare alla rivelazione di quel viola, che d’improvviso si è materializzato sulla retina della buffa donnina. Cammino, seguo la strada principale, ci sono negozietti di quartiere, un fornaio dalla cui porta fugge l’odore del pane caldo; un calzolaio, ne esistono ancora!
Una cartoleria che mi ricorda i tempi della scuola. Guardo tutto come se non avessi mai visto niente del genere prima d’ora, eppure nulla è cambiato e anche io, in fondo, non sono una persona diversa da quella che stamattina stava curva sul computer, nel solito ufficio grigio.

Grigio.
Che sia solo una questione di colori?

Proseguo ancora un po’: insegne luminose, voci indistinte, la sirena di un’ambulanza.
Arrivo alla fine del viale. All’improvviso mi sento uno stupido, mettermi a sragionare così.
Mi do uno scossone.  Riacquisto la vista, la gente è la solita gente. Il traffico anche è il medesimo, stesso frastuono di motori. Persino il vento non ha un suono diverso.

A quest’ora avrei dovuto essere già a casa.
Che mi sarà saltato in testa di perdere tempo con i palazzi rossi, gli alberi viola o verdi, le fragole, le ciliegie, piazza Libertà.
La fermata del tram è proprio là, dall’altra parte della strada, direzione stazione. Faccio ancora in tempo a prendere il treno delle 18.50.

Finalmente mi sento di nuovo sicuro, in pace con me stesso e con il resto del mondo.
Che poi, il resto del mondo che sarà mai?
In pochi minuti rifaccio tutto il percorso al contrario e finalmente ecco la fermata FS, quella giusta. Attraverso di corsa l’atrio principale, fin sotto il display delle partenze.
Ecco, il treno è in ritardo!

Mi siedo sulla panchina, l’unica sul binario da cui partirò.
Ancora pochi minuti e tutto sarà come è sempre stato.
Sono un uomo metodico e noioso, ma sereno in fondo.

Mentre mi ripeto queste parole come un mantra rassicurante, mi si siede accanto una persona.
Non la guardo nemmeno, sono troppo impegnato nell’osservare le lancette del mio orologio.
«Non ci posso credere!» la sento esclamare all’improvviso, che quasi sobbalzo.
Mi giro a guardarla, per accertarmi che ce l’abbia con me: una donna.

Resto interminabili attimi a fissarla.
Anche le lancette del mio orologio si fermano.
Si ferma il mio cuore, si ferma il mondo, si ferma l’universo.

Io che resto senza parole, lei che pronuncia il mio nome: «Giorgio… sei tu?»

Il mio nome sulle sue labbra. Il tempo scompare. O ritorna.
Il tempo in cui l’ho amata, il tempo in cui l’ho perduta.

Voglio girare il mondo, mi aveva detto quell’ultima volta.
E adesso l’ho ritrovata, dopo il mio viaggio, dopo i suoi viaggi.
Proprio qui, aspettando un treno che non avrei preso mai se oggi fosse stato come ieri o come sempre. 

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Eleonora Loiodice

La mia prossima fermata è quella di Cadorna, crocevia di colori tra il rosso e il verde.
Dove una moltitudine incalcolabile di persone sgomita per arrivare ognuna al proprio appuntamento.
Che sia reale o immaginario non ha importanza, perché ciò che conta davvero è correre, fino a prosciugarsi di ogni energia.

Milano è un vampiro.
Quando esaurisce le tue energie ti abbandona agonizzante in un vicolo e ti sostituisce.

È sempre stata questa l’impressione che mi ha dato la prima volta che ho solcato il suo cemento e posato gli occhi sui suoi immensi grattacieli.

Dietro gli immensi grattacieli alberga un’anima subdola, esigente, che ti promette una vita migliore in cambio di devozione assoluta.

Esige sempre di più, ogni giorno ti strappa un pezzo, ogni giorno ti chiede uno sforzo in più e intanto ti stordisce con le sue luci, le sue offerte e i suoi locali. La sua promessa che svetta in Piazza Duomo, che riecheggia in Galleria. Ciò che farai verrà sicuramente ricompensato, sei nel posto giusto, il Paese dei Balocchi.

Da quando sono venuto ad abitare qui, con la mia indole riservata e riflessiva, ho sempre resistito al fascino di questa stronza di città vedendo grigio e nebbia là dove gli altri vedevano luci e sogni.

Vedo la mia immagine riflessa con indosso una mascherina chirurgica, rinchiuso in uno dei tanti vagoni della metropolitana.

Nel ventre del mostro tecnologico mi sento al sicuro meno esposto al pubblico e a tutta quella patetica e odiosa frenesia sempre in agguato e pronta a cospargere nella tua intimità un liquido vischioso e nauseabondo. Semplicemente per contaminare la tua diversità.

Ogni volta che prendo posto su uno dei suoi sedili colorati mi piace osservare gli altri passeggeri, percepire la loro fragilità e solitudine nel momento in cui i loro occhi diventano meno vigili e sono vulnerabili e ridicoli.
Poverini non sono più in grado di guardare in faccia chi hanno di fronte, leggo la loro paura e la loro vigliaccheria.

Vanno al loro appuntamento, sono di fretta.
Inseguono quella maledetta promessa e indossano la maschera della superbia e dell’efficienza, ma qui, nel verme intestino tecnologizzato, io li vedo per quello che sono.

Osservo le micro-espressioni e i loro gesti, mi soffermo sullo sforzo protratto in tutto il corpo di mantenere una parvenza di sicurezza, di perfezione. Li vedo districarsi tra ciò che realmente hanno e quello che inseguono e che “non-a-vrai-ma-i”.

Una volta arrivato alla stazione di Cadorna le porte del mio vagone si aprono, vomitando una fiumana di vite con gli occhi incollati al proprio smartphone.

Sono qui da sei mesi e sento che per non sbroccare dovrei riprendere il volo, ma resto qui. Dove questa schizofrenia è la norma, la sua promessa mai mantenuta.

Ti è piaciuto questo racconto? Leggi anche quelli delle altre fermate!

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco


Guardo dei video sul cellulare in attesa del tram.

Si passa dal comico al drammatico.
Guardo una ragazza che mi racconta di uno stupro e mi chiedo quando ci sarebbe stata la battuta finale perché i tre video precedenti erano gag comiche. Poi faccio mente locale e mi sento a disagio.

Ripenso a quella volta in cui il presidente del consiglio, donna, madre e cristiana, dichiara pubblicamente che non solo lo Stato non poteva garantire la sicurezza alle cittadine intenzionate ad uscire, bere e divertirsi, ma non avrebbe neanche fatto alcunché per migliorare la situazione, stava a loro tenere la testa sulle spalle e gli occhi vigili.

I suoni e i colori del periodo natalizio diventano più forti, ma lo spirito del Natale si sente sempre meno. Forse perché uno ha smesso di credere prima a Babbo Natale, dispensatore di doni, poi a Gesù, dispensatore di giustizia, e infine anche al Dio Cornuto, annunciatore dell’inverno.

La verità è che da quando il respiro non condensa più a causa del caldo anomalo non ho più bisogno di riscaldarmi al suono della voce di Bublè o delle lucine intermittenti dei negozi.

Del Natale resta un ricordo legato all’infanzia, ai tempi in cui aspettavi di trovare, oltre il maglione, anche pokemon rosso sotto l’albero.

Non resta che la liturgia del pasto, il cenone del 24, quando la famiglia si riunisce a tavola per contare le sedie vuote. Qualcuno è morto anche quest’anno, un piatto in meno da preparare.

Nella mia città la vigilia è un tripudio di alcolismo diurno.
Un numero spropositato di esuli ritorna in patria per bere fino a sboccare in un clima di esuberanza e malinconia. Mi chiedo quante ragazze vorranno seguire il ritmo della festa sapendo che, se succede loro qualcosa, per gli altri, se la sono cercata.

Diamo sempre colpa alle vittime: guardiamo i film horror pensando che se avessero fatto quello o quell’altro, se non avessero fatto quella cosa o quell’altra, beh non ci sarebbe stato il massacro. Un modo per scaricare le responsabilità davanti all’impotenza e all’impreparazione che ti lascia il caos che si abbatte su di te.

Generalmente Natale è un buon momento per fare il punto sulla propria fragilità, impotenza e nudità. Magari davanti al silenzio di un posto vuoto.

Aspetto il tram, mi apro una birra ghiacciata e brindo alla crisi climatica, al precariato e al patriarcato, così bravi a lasciare posti vuoti durante le feste.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Alla banchina non c’è nessuno, solo io, in attesa.

Sono cresciuto con i miti greci e l’idea che l’unica cosa che conti davvero è farsi ricordare.
Se non potevo essere Achille sarei stato Omero.

Per ridimensionare il mio delirio di grandezza papà ci teneva a ricordarmi la seconda legge della termodinamica: nulla esiste per sempre e col passare dei secoli non rimarrà niente, neanche la sabbia del Colosseo; la Terra stessa scomparirà nei mutamenti dell’Universo, indifferente alle nostre pretese di grandezza.

Mio padre come Shelley in Ozymandias.

Il poeta mette alla berlina il delirio del Faraone, il Dio incarnato che vantava di aver fatto qualcosa tanto grandiosa da non poter essere eguagliata o cancellata. La parte più citata della poesia è l’ultima: “Ammirate, o potenti, la mia opera e disperate!”, vogliamo tutti dimenticare la prima dove, di questo “Re dei Re”, si dice che non si sa pressoché nulla e di lui, delle sue opere, della sua vanità, non resta che una mezza statua abbandonata al deserto.

L’entropia cresce, il tempo passa, il tram no.

Non sono in grado di razionalizzare la vastità dell’Universo e neanche il fatto che prima non esistiamo e dopo la vita smettiamo di esistere. Da giovane era causa di insonnia, attacchi di panico e urla notturne. Adesso non ho più né il tempo né la presunzione di razionalizzare certe cose e smetto di pensarci.
Nei sogni l’idea intrusiva della mia stessa scomparsa riemerge e mi pone davanti l’inevitabile condizione di essere consapevole che non esisterò più. Ammiro l’opera della natura, il meccanismo di quel che sono che rallenta e si spegne, ma non dispero, mi lascio andare ad una placida rassegnazione.

Al risveglio c’è il freddo, il lavoro e la pipì da fare.

Ogni mattina rimpiango di non essere morto nel sonno.

Aspetto il tram come si aspetta la morte: impotente, indifeso.

Qualche giorno fa mi sono svegliato e ho abbracciato la mia compagna.
Da lì a poco mi sarei riaddormentato, cadendo nell’incoscienza. Quell’abbraccio sarebbe stato inutile e privo di senso in quanto, il tempo di un battito di ciglia, avrei smesso di trarre piacere da quel gesto, del quale, lei, addormentata com’era, non aveva contezza. Ma andava bene così.
Prima non esistevo e, dopo la vita, non esisterò, quello che c’è in mezzo è una serie di azioni senza peso, senza conseguenza, senza importanza.

Negli ultimi istanti prima di tornare incosciente ho immaginato noi due diventare concime e poi alberi con radici intrecciate. E Va bene così. Meglio diventare alberi e poi niente che Omero.
Del resto, Omero non è mai esistito.

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di Silvia Cestoni

La vita

Nasce nel 1908 e fu da subito considerato un irregolare, un ribelle e un precoce come Carlo Bernari.
A 15 anni scappa di casa e a 21 approda a Solaria, rivista letteraria fondata a Firenze da Aldo Carocci nel 1926.
Il padre era ferroviere, spesso costretto a spostarsi per la lavoro: la famiglia lo seguiva e di questi spostamenti ci sono testimonianze in “Conversazioni”. Il padre pur non avendo studiato amava la letteratura, in particolare Shakespeare e Defoe, e leggeva al figlio “Sogno di una notte di mezza estate” e “Robinson Crusoe”: saranno testi che influenzeranno l’infanzia di Vittorini.
Frequenterà le scuole tecniche ma tra il 1923 e il 1924 interrompe gli studi, abbandona definitivamente casa e si trasferisce a Gorizia. Quindi si reca a Firenze dove entra in contatto con Curzio Malaparte, con il quale, in una prima fase, condividerà il pensiero politico e la fede fascista.
Malaparte lo farà entrare in varie riviste ( ad esempio “La conquista dello stato”) e in alcuni giornali: grazie a questa sua amicizia, incontra inoltre Enrico Falqui, critico affermato e dalle molte conoscenze, che lo introdurrà in riviste come “Italia letteraria”. Grazie all’amicizia con Falqui (che a differenza di Malapartenon era attivamente coinvolto all’interno del regime e delle azioni fasciste) e alla sua maturazione, Vittorini si allontana da Malaparte avvicinandosi alla rivista Solaria: questa rottura è sancita dall’articolo “Scarico di coscienza” in cui assume una posizione più moderata ma senza rinnegare il passato.  Vittorini critica però il provincialismo fascista e rivendica un panorama più ampio, di tipo europeo. Entrerà in Solaria come segretario di redazione e per guadagnare, inizialmente farà anche il correttore di bozze presso il reparto stampa, dove conoscerà un tipografo che gli insegnerà l’inglese. Si appassionerà così alla letteratura anglo- americana e ad autori come Anderson e Hemingway; sarà poi costretto a lasciare il lavoro per un avvelenamento da piombo.
Dopo l’esperienza a Solaria, troverà spazio presso le riviste “Nazione” e “Il Bargello”, dove Vittorini pubblicherà ogni settimana degli articoli, spesso violenti e molto critici: famoso è il pezzo uscito su “Il Bargello” a sua firma, dove di fatto “stronca” l’opera “Tre operai” di Bernari (nel quale riconobbe un’ impronta reazionaria).

Le polemiche e “Il garofano rosso”

Vittorini era un giovane pieno di ideali e ricco di grandi doti ma attorno a lui si scatenarono polemiche e delle rotture, a partire dal suo ingresso in Solaria. Egli causò, infatti, la prima chiusura della rivista con l’incidente de “Il Garofano Rosso”, cominciato a scrivere nel 1933. Il romanzo narra la storia di alcuni adolescenti fascisti in Sicilia, presentandola come un’avventura giovanile e un momento di crescita che si dipana attraverso l’azione politica, la quale si intreccia però con un’iniziazione sessuale presso delle prostitute in un bordello (Alessandro, il protagonista, si innamorerà di una prostituta). La censura interverrà per due motivi: 1) dal 1925 Giuseppe Bottai è il promotore del processo di regolarizzazione del Fascismo che attraverso una serie di leggi rendono il PNF un partito d’ordine; ciò imponeva un totale silenzio nei confronti di ciò che era accaduto negli anni dello squadrismo e il romanzo di Vittorini era incentrato proprio all’interno di quella fase, mettendo in luce più le azioni squadriste e offuscando il presunto valore ideale; 2) del 1929 è il concordato con la Santa Sede e il romanzo, nel quale non si parla di un amore puro che conduce ad una famiglia, ma di prostituzione e condotte considerate immorali, fu mal visto tanto che porterà al ritardo della pubblicazione (avvenuta solo nel 1948) e alla chiusura momentanea della rivista che poi chiuderà definitivamente i battenti nel 1936 a causa di un altro romanzo, “Lavorare stanca” di Pavese.

La guerra civile spagnola

La crisi ideologica di Vittorini arriverà con la guerra civile di Spagna nel 1936 per la quale si arruolarono molti nazisti tedeschi e fascisti italiani a sostegno di Franco. Vittorini entrò in una profonda crisi che lo coinvolge completamente e lo fece allontanare definitivamente dal fascismo. In questa situazione di crisi Vittorini scrive “Conversazioni in Sicilia”.

“Conversazioni in Sicilia”

“Conversazioni in Sicilia” si presenta in prima persona e si configura come un modo dell’autore di analizzare la sua crisi e di uscirne. Vi dominano dialoghi privi di senso, comprensibili solo se inseriti in una rete di allusioni. Racconta un viaggio tutto mentale, morale e psicologico che si presenta come un ritorno alle proprie origini, ovvero alla terra natale, la Sicilia. Proprio con il dialogo ci si confronta con gli altri, che si fa esperienza, anche se alla fine il protagonista non rivelerà come uscire da questa sua crisi.

Si tratta di un romanzo che risente molto dell’influenza della letteratura americana: la passione per l’America nasce proprio con Vittorini e Pavese che inaugurano il “mito dell’America” negli anni di poco antecedenti la guerra. Molti intellettuali, infatti, come Montale, Pavese, Bernari, cercheranno di emigrare in America ma non ci riusciranno. Essa viene vista come un “paese giovane”, a differenza dell’Italia appesantita dalla storia e dalle ideologie.

I dialoghi, gli spunti e le allusioni

Il romanzo si sviluppa attraverso i dialoghi; non succede nulla di particolare ma è comunque un romanzo veloce. La presenza massiccia dei dialoghi richiama la maieutica, quella tecnica che prevedeva la scoperta della verità attraverso la dialettica. L’opera è storia di incontri (l’arrotino Calogero, il venditore di panni Ezechiele, Demetrio, ecc) e di dialoghi allusivi. Un tema centrale è quello del mondo offeso: La delusione del protagonista si scioglie in un pianto mentre è circondato da tutti i personaggi che ha incontrato durante il viaggio, che ovviamente è impossibile che siano lì, ma sono percezioni e ritratti mentali con i quali si confronta.

Storia e struttura del testo

Il romanzo esce a puntate e non integralmente dal ’38 al ’39 su “Letteratura”. Uscirà in volume nel 1941 con il titolo “Nome e lacrime” presso l’editore Parenti e poi presso Bonsanti con  il titolo originale. Vi è annesso anche un finto reportage sulla guerra di Spagna scritto da Vittorini stesso; le illustrazioni sono di Renato Guttuso. Il romanzo è diviso in cinque parti più l’epilogo e in appendice troviamo il reportage dal titolo “La guerra spagnola”

Elementi del romanzo: un leitmotiv che torna spesso nel romanzo è quello della “quiete della non speranza”. Tutto il viaggio in treno dura solo mezza pagina e Vittorini gioca molto sulla funzione tempo. Il vero viaggio è in Sicilia e non quello verso la Sicilia: il racconto vero e proprio, infatti, comincia sul battello che attraversa lo stretto.

I personaggi: i personaggi che incontra durante il viaggio non hanno nome, come Con i baffi e Senza baffi, l’uomo delle arance, il Gran Lombardo. Sono tutti personaggi simbolici che porteranno a ricostruire l’infanzia del protagonista Silverio: è dunque un viaggio nella propria memoria.

Il genere umano offeso: dal discorso sul mondo offeso si passa a quello sul genere umano offeso e da questa considerazione si giunge a considerare se tutti, sia oppressori che vittime, siano uomini. La risposta è che le vittime sono più uomini degli altri ed è dunque una dimensione morale quella in cui si muovono i personaggi, quasi religiosa.

“Uomini e no”

Questo discorso sarà ripreso da Vittorini anche in “Uomini e no” che racconta l’esperienza della Resistenza a Milano. Questo romanzo si sviluppa su un binario manicheo, ovvero la divisione tra bene e male. Inoltre vi è sia una dimensione reale, che è quella della guerra, sia una dimensione simbolica. I personaggi, anche in questo caso, non hanno nomi e, ad esempio, un generale fascista viene chiamato “cane nero”, nome che indica l’appartenenza al genere bestiale e non umano. Nel finale vediamo un soldato che mira ad un tedesco e, mentre sta per sparargli, guarda i suoi occhi e, vedendo l’uomo, l’essere umano in quanto tal non riesce a sparare.

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di Silvia Cestoni

La vita

Nasce a Milano nel 1893 e muore a Roma nel 1973. Il padre era commerciante e la madre, di origine ungherese, era un’insegnante e poi direttrice. Fu molto legato al fratello minore Enrico, e la sua morte in guerra sarà per lui un grande trauma. Nel 1909 perde il padre che lascia la famiglia in miseria, anche perché quest’ultima cerca di continuare a mantenere un livello di vita agiato per dimostrare di non essere dei borghesi decaduti; inoltre il padre aveva fatto degli investimenti sbagliati e comprato una villa in Brianza (assai odiata da Gadda) per mantenere viva l’apparenza del benessere borghese. Fin dall’adolescenza Gadda ambisce ad essere uno scrittore ma sarà costretto dalla famiglia ad intraprendere gli studi di ingegneria, poi abbandonati per arruolarsi come volontario nella Grande Guerra presso il corpo degli Alpini. Gadda era un uomo metodico e rigoroso, con un’alta idea e grande stima della patria. Stima e illusione che perderà proprio a causa dell’esperienza della guerra dove vede l’incapacità dell’esercito italiano e l’eccessiva arretratezza. Sarà per lui una grande delusione, che tornerà nelle sue opere dove emergono numerose invettive e sarcasmi. Un grande trauma sarà per Gadda la disfatta di Caporetto, durante la quale sarà fatto prigioniero (che, allora, rappresentava un grande disonore che rasentava il tradimento) e portato in un campo di prigionia vicino Francoforte dove scriverà “Quaderni di prigionia” (che seguono “Quaderni di guerra”) che saranno pubblicati postumi e solo parzialmente. Al suo ritorno in Italia verrà a sapere della morte del fratello e questo sarà l’altro suo grande trauma. Nel 1919 intraprende l’attività di ingegnere viaggiano molto, anche in Argentina, ma la sua ambizione resterà comunque la scrittura. Tornato in Italia, il suo viaggio in Sud America sarà da ispirazione per la “Cognizione del dolore”.

Il mondo come caos

Gadda vede nel mondo un disordine a cui è possibile porre rimedio: il mondo è caos. Per Gadda il mondo è un pasticcio, un gomitolo, la vita è un “gliommero” ( una matassa ingarbugliata): l’uomo è immerso appieno in questo caos e quindi può averne una visione completa. Nonostante questo non deve mai smettere di cercare il capo della matassa (quest’idea del gliommero richiama il labirinto di Calvino dove l’uomo cerca una via d’uscita). La concezione gaddiana rappresenta il punto estremo della crisi.

“La Cognizione del dolore”, struttura dell’opera.

Il romanzo è composto da un saggio introduttivo del critico Gianfranco Contini, un’introduzione, la prima parte, la seconda parte e la poesia “Autunno”. Emerge una prima parte di stampo saggistico per poi entrare nel romanzo vero e proprio, di cui fa parte “Autunno”. Ma in realtà il testo è unitario: Reneè Genet scrive “Palinsesto” dove analizza la forma del testo, dicendo che quest’ultimo non è formato solo dal racconto. Egli parla di peritesto: ovvero gli elementi intorno al testo, come la copertina, l’indice, ecc; paratesto: esso non è solo ciò che integra il testo (come il saggio e l’introduzione) ma anche le note a piè di pagina e quelli che Gadda chiama i “chiarimenti indispensabili”; le note non sono parte del romanzo in senso stretto (nelle note troviamo anche citazioni da altri autori). Il romanzo è diviso in due parti: la prima e la seconda parte, ognuna delle quali è divisa in “tratti”

Intreccio e dimensione temporale

L’intreccio del romanzo non vede uno sviluppo rettilineo, ma neanche uno sviluppo spezzato da deviazioni, poiché non vi è solo una storia ma tante storie che si intrecciano. Spesso vengono fuori episodi del passato: il vero racconto si sviluppa in una profondità temporale in cui il passato ancora agisce sul presente. Il tempo è fondamentale e domina in verticale, corrispondendo alla memoria e all’inconscio.

Le prime pagine del romanzo

Gadda dà immediatamente delle coordinate temporali reali (1925 – 1933) e spaziali (queste ultime fantastiche poiché la vicenda è ambientata nel fittizio paese di Maradagal). Inizia spiegando che i cittadini potevano scegliere se pagare gli istituti di vigilanza notturni oppure no; descrive la difficile situazione economica; descrive le numerose malattie, come la Peronospora Banzavois (una malattia del granoturco). Dopo aver insistito su queste disgrazie cita la Brianza, alla quale il Maradagal somiglia molto: è infatti una parodia della descrizione positiva che fa Manzoni della Brianza. Inoltre, la descrizione di Gadda è allegorica: la pianta erosa è anche una pianta umanizzata e rappresenta il protagonista dell’opera, Gonzalo, colpito da numerosi mali. Viene poi narrato il conflitto tra Maradagal e il paese limitrofo Parapagàl, con un riferimento agli indios: è solo lì che capiamo che ci troviamo nel Sud America. Spesso emerge l’umorismo nero di Gadda: descrivendo la capitale Mastufazio egli descrive lo scenario dominato da una catena montuosa, quella del monte Serruchòn che richiama il Resegone manzoniano. Il testo è pieno di figure retoriche come la sinestesia, e spesso Gadda ironizza su se stesso

Il barocco linguistico e il significato della luce

Interessante dal punto di vista linguistico è l’utilizzo smodato da parte di Gadda di parole e immagini: è il “troppo pieno”, il cosiddetto Barocco gaddiano. Infatti, il racconto non procede, ma c’è soltanto un accumulo di parole, aggettivi, ecc.
Altro elemento importante in Gadda è la presenza della luce che, come dirà in seguito, rappresenta, affievolendosi, il cammino delle generazioni. La luce può essere vista come il simbolo della conoscenza (come nell’Illuminismo, ovvero l’illuminazione dell’oscurità e quindi l’eliminazione dell’ignoranza), ma anche come un avanzamento verso la felicità: qui invece, la luce recede  perché in realtà nulla cambia nella storia e il divenire è solo apparenza.

Aspettando il tram View More

di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Non posso permettermi di fare tardi, oggi, ho una convocazione.

Mi chiedo quando ho iniziato ad aspettare con ansia le convocazioni da bidello.

Nella mia vita ho fatto un sacco di scelte di cui mi assumo la responsabilità, come quella di prendere filosofia all’università.

“Non importa se per vivere raccoglierò merda di cane, io farò filosofia!”, dissi irritato a mia madre, diventando un bimbo grande e, ironia della sorte, pochi anni dopo la laurea, finii a lavorare al canile di Foggia. Al netto delle carriole di feci da svuotare nella fogna ricordo quello come il miglior mestiere mai fatto, c’erano i cani, lo sforzo fisico che fa sentire vivi, i cani, lo stipendio bassissimo, comunque migliore di quello da stagiste in banca, ma soprattutto c’erano i cani.

Alla fine però pensai che avevo bisogno di costruire qualcosa, di vivere autonomamente.
Non potevo restare a fare un lavoro precario al limite del volontariato. Fu allora che iniziai a prendere le supplenze per insegnare. Il primo anno la sorte decise di prendermi in giro facendomi fare da ottobre a luglio. Poi il tempo è tornato nei cardini e ho potuto prendere solo posti da Collaboratore Scolastico.

Arriva il tram difronte e non il mio.

È come quando stai per firmare il contratto da docente e spunta una persona in graduatoria sopra di te e ti soffia il posto. C’è sempre una persona prima di te. Vanta i titoli MIUR presi a UniTeLoVendo e non ha l’ansia di fare almeno 9 stipendi interi l’anno per campare. Resta a casa, bada ai figli, generalmente ha un coniuge che porta soldi. Quando arriva la chiamata si presenta, magari per quindici giorni, magari per un mese, non importa, l’ansia di pagare le bollette ricade su un’altra persona.

Per fortuna il bidello mi permette di essere chiamato da più scuole e bene o male fino a giugno ci arrivo sempre. Il lavoro è ottimo, migliore di quello da docente, devi solo essere a disposizione, respirare candeggina e fare sforzi fisici casuali.
Guardare un corridoio vuoto e ripensare ai tuoi errori. Riesco ad allontanare la follia leggendo, al netto delle urla disumane e delle richieste confuse e contradittorie che ti arrivano.

Ti prego tram, arriva, portami alla convocazione, ho un libro da finire e voglio essere pagato per farlo.

Francamente credo sia un lavoro pensato per persone con svantaggio socio-economico-culturale. Non c’è niente di nobile nei laureati che fanno i Collaboratori. Stiamo rubando il posto a persone che per diverse contingenze non hanno potuto studiare. Li battiamo alle chiamate perché sappiamo compilare un form on line e sappiamo leggere e rispondere alle mail. Quasi tutti gli under 40 sono laureati o avviati ad un percorso di studi. Io, con una laurea magistrale e un master in marketing, sono la norma.

Siamo qui perché abbiamo fame e la fame ti spinge a rubare e quindi eccomi a sgraffignare il posto alla madre single che non ha potuto inseguire i suoi sogni o al signore a cui non hanno diagnosticato la dislessia e non ha potuto continuare gli studi.

Guardo i binari e penso a chi, con dottorato all’estero, è finito ad insegnare ad adolescenti svogliati.
No, decisamente a me non è andata male.

*citazione da I Simpson S.8 Ep.07
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di Silvia Roncucci

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Nella mia città i mezzi pubblici odorano di proletariato.
Forse per questo li sento familiari, perché è da lì che vengo, dal popolo.
Ed è verso ciò che vedo dal finestrino appena l’autobus affronta la salita, vale a dire il cimitero, che sono diretta. Non che ci stia andando proprio ora, intendo che prima o poi ci finirò; anzi, vista l’età che mi porto in giro, se quel giorno fosse oggi stesso faticherei a nascondere la sorpresa.  

In garage riposa la vergognosa traditrice che stamani non ha voluto saperne di mettersi in moto. I telefoni che ho contattato non hanno strillato abbastanza da risvegliare l’interesse dei proprietari, tassisti inclusi. In casa ormai l’unica voce che sento è quella dei pensieri sfuggiti al borbottio interiore, e quindi, hop: non rimaneva che saltare sul primo autobus per scongiurare il rischio di mancare al mio appuntamento.

L’ho fatto con uno slancio goffo che per poco la tagliola della portiera non mi serrava tra i suoi denti.
Ora però queste vibrazioni sulla strada butterata, questo sobbalzare sul sedile a ogni curva come un nevrastenico a ogni soffio di vento un po’ più deciso, in fondo mi ravvivano, mi smuovono dopo giornate fastidiose, infiacchite dalle temperature subsahariane. Che non lasciano tregua neanche qui dentro, dove i finestrini si aprono cauti, indecisi se lasciar passare un soffio d’aria o respingere l’orda di calore per i pochi, audaci passeggeri.
L’autista sbaglia la traiettoria di una curva e per un soffio non vengo catapultata addosso alla signora sull’altro lato del corridoio. La sua lingua si scioglie velocissima al cellulare tra le vocali latine, la voce cerca di mantenersi sommessa ma l’idioma che parla non è adatto ai sussurri.
Piagnucola «mi amor» e quando riattacca informa una slava imperiosa davanti a lei che si tratta di suo marito, e chi sennò. Racconta che, da quando si trova migliaia di chilometri lontano da lui, dorme sonni fanciulleschi e che un uomo nei paraggi lo vorrebbe solo se fosse ricco da far schifo e generoso quanto basta. Però continua a chiamarlo «mi amor» e da come la guarda, forse anche la slava vorrebbe chiederle perché.

Io invece le direi che poco importa che con mio marito siamo stati generosi l’un l’altro se ora gli ettari occupati dal nostro appartamento sono invasi da scintillanti chincaglierie di cui, mi vergogno ad ammetterlo, non sopporto la vista. E che la sensazione che il letto sia di una taglia più grande non mi lascia riposare.

L’autista fronteggia la seconda delle tre colline su cui è adagiata la città e si ferma a metà per far salire un piccolo gruppo di anziani; da come traballano verso il fondo ho la certezza che almeno loro siano più vecchi di me. Sapevo che l’avrei vista far capolino da dietro la fermata: la casa.
Tre stanze affacciate sulla strada, Siberia d’inverno, i Tropici d’estate. Il giardinetto spelacchiato, l’innaffiatoio affranto in un angolo, il basilico in lotta contro una coppia distratta come noi. L’intonaco di un arancione accecante che concessi a mio marito purché se lo stendesse da solo. Entrando la prima volta per poco non inciampava nello strascico; dicono sia un classico, chissà quante spose tengono nell’armadio un abito bianco con su un’impronta numero 47. A quel trasloco ne sono seguiti altri tre, sempre più pretenziosi, sempre più alla deriva.
Come noi l’uno dall’altra, finché il tempo non gli ha fatto lo sgambetto.

L’autobus borbotta per ripartire, precipita in discesa, arranca sull’ultima salita: si vede che non se la sente di arrivare all’ospedale, però ormai ha preso l’impegno. Mi assicuro che l’autista abbia terminato le complesse operazioni di frenata prima di avviarmi all’uscita. Ora è la bionda imponente che parla al cellulare, la voce è un sibilo. Da come fissa il finestrino, l’altra donna deve trovarsi con la testa in Sud America.
Un uomo si avvicina alla portiera, mi riconosce, saluta con un sorriso incerto.
«Facciamo la strada insieme?» chiede.
Rispondo di sì, andiamo nello stesso posto.
«Stavo meglio seduto»  osserva dopo aver percorso qualche metro tra lamenti e sospiri.
«La capisco. Neanch’io cammino più tanto bene.»
«L’autista però era un po’ distratto.»

«Spericolato direi!»
Sorride, chiede da quant’è che mi dedico al volontariato, dice che si vede che ci so fare con i piccoli. Lavoravo come maestra? Quanti nipoti ho?
«Da due anni. Avevamo un’agenzia immobiliare. Niente figli, né nipoti. Per questo ho tanta pazienza: non l’ho sprecata con dei bambini miei!»

Ridiamo insieme, camminiamo fino alla biblioteca dell’ospedale.
I ragazzi stanno già aspettando.
Yasmine porta un foulard rosso a pois sul capo, Larysa uno floreale, nell’ultima fila la testa glabra di Luigi si intravede sotto il berretto dell’Inter. Glielo ha regalato il nonno, che oggi è arrivato con me.
Racconto a Luigi che lui mi ha riconosciuta subito, mentre io sono la solita sbadata.
Tutti gli altri mi rimproverano per il ritardo, ridacchiano, si divertono a dire che le mie sono scuse, che devo ammettere di essere una dormigliona, e io li lascio fare mentre cerco cosa leggere.
«Smettetela, è davvero colpa della macchina che non è partita!» spiego prima di cominciare. «Non avete idea di quanto ci ha messo l’autobus ad arrivare…una vita!»

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