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di Silvia Roncucci

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Nella mia città i mezzi pubblici odorano di proletariato.
Forse per questo li sento familiari, perché è da lì che vengo, dal popolo.
Ed è verso ciò che vedo dal finestrino appena l’autobus affronta la salita, vale a dire il cimitero, che sono diretta. Non che ci stia andando proprio ora, intendo che prima o poi ci finirò; anzi, vista l’età che mi porto in giro, se quel giorno fosse oggi stesso faticherei a nascondere la sorpresa.  

In garage riposa la vergognosa traditrice che stamani non ha voluto saperne di mettersi in moto. I telefoni che ho contattato non hanno strillato abbastanza da risvegliare l’interesse dei proprietari, tassisti inclusi. In casa ormai l’unica voce che sento è quella dei pensieri sfuggiti al borbottio interiore, e quindi, hop: non rimaneva che saltare sul primo autobus per scongiurare il rischio di mancare al mio appuntamento.

L’ho fatto con uno slancio goffo che per poco la tagliola della portiera non mi serrava tra i suoi denti.
Ora però queste vibrazioni sulla strada butterata, questo sobbalzare sul sedile a ogni curva come un nevrastenico a ogni soffio di vento un po’ più deciso, in fondo mi ravvivano, mi smuovono dopo giornate fastidiose, infiacchite dalle temperature subsahariane. Che non lasciano tregua neanche qui dentro, dove i finestrini si aprono cauti, indecisi se lasciar passare un soffio d’aria o respingere l’orda di calore per i pochi, audaci passeggeri.
L’autista sbaglia la traiettoria di una curva e per un soffio non vengo catapultata addosso alla signora sull’altro lato del corridoio. La sua lingua si scioglie velocissima al cellulare tra le vocali latine, la voce cerca di mantenersi sommessa ma l’idioma che parla non è adatto ai sussurri.
Piagnucola «mi amor» e quando riattacca informa una slava imperiosa davanti a lei che si tratta di suo marito, e chi sennò. Racconta che, da quando si trova migliaia di chilometri lontano da lui, dorme sonni fanciulleschi e che un uomo nei paraggi lo vorrebbe solo se fosse ricco da far schifo e generoso quanto basta. Però continua a chiamarlo «mi amor» e da come la guarda, forse anche la slava vorrebbe chiederle perché.

Io invece le direi che poco importa che con mio marito siamo stati generosi l’un l’altro se ora gli ettari occupati dal nostro appartamento sono invasi da scintillanti chincaglierie di cui, mi vergogno ad ammetterlo, non sopporto la vista. E che la sensazione che il letto sia di una taglia più grande non mi lascia riposare.

L’autista fronteggia la seconda delle tre colline su cui è adagiata la città e si ferma a metà per far salire un piccolo gruppo di anziani; da come traballano verso il fondo ho la certezza che almeno loro siano più vecchi di me. Sapevo che l’avrei vista far capolino da dietro la fermata: la casa.
Tre stanze affacciate sulla strada, Siberia d’inverno, i Tropici d’estate. Il giardinetto spelacchiato, l’innaffiatoio affranto in un angolo, il basilico in lotta contro una coppia distratta come noi. L’intonaco di un arancione accecante che concessi a mio marito purché se lo stendesse da solo. Entrando la prima volta per poco non inciampava nello strascico; dicono sia un classico, chissà quante spose tengono nell’armadio un abito bianco con su un’impronta numero 47. A quel trasloco ne sono seguiti altri tre, sempre più pretenziosi, sempre più alla deriva.
Come noi l’uno dall’altra, finché il tempo non gli ha fatto lo sgambetto.

L’autobus borbotta per ripartire, precipita in discesa, arranca sull’ultima salita: si vede che non se la sente di arrivare all’ospedale, però ormai ha preso l’impegno. Mi assicuro che l’autista abbia terminato le complesse operazioni di frenata prima di avviarmi all’uscita. Ora è la bionda imponente che parla al cellulare, la voce è un sibilo. Da come fissa il finestrino, l’altra donna deve trovarsi con la testa in Sud America.
Un uomo si avvicina alla portiera, mi riconosce, saluta con un sorriso incerto.
«Facciamo la strada insieme?» chiede.
Rispondo di sì, andiamo nello stesso posto.
«Stavo meglio seduto»  osserva dopo aver percorso qualche metro tra lamenti e sospiri.
«La capisco. Neanch’io cammino più tanto bene.»
«L’autista però era un po’ distratto.»

«Spericolato direi!»
Sorride, chiede da quant’è che mi dedico al volontariato, dice che si vede che ci so fare con i piccoli. Lavoravo come maestra? Quanti nipoti ho?
«Da due anni. Avevamo un’agenzia immobiliare. Niente figli, né nipoti. Per questo ho tanta pazienza: non l’ho sprecata con dei bambini miei!»

Ridiamo insieme, camminiamo fino alla biblioteca dell’ospedale.
I ragazzi stanno già aspettando.
Yasmine porta un foulard rosso a pois sul capo, Larysa uno floreale, nell’ultima fila la testa glabra di Luigi si intravede sotto il berretto dell’Inter. Glielo ha regalato il nonno, che oggi è arrivato con me.
Racconto a Luigi che lui mi ha riconosciuta subito, mentre io sono la solita sbadata.
Tutti gli altri mi rimproverano per il ritardo, ridacchiano, si divertono a dire che le mie sono scuse, che devo ammettere di essere una dormigliona, e io li lascio fare mentre cerco cosa leggere.
«Smettetela, è davvero colpa della macchina che non è partita!» spiego prima di cominciare. «Non avete idea di quanto ci ha messo l’autobus ad arrivare…una vita!»

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di Mattia Brambilla

Illustrazione di Eleonora Loiodice

«E tu l’hai mai visto un UFO?»
Disse raspando su col naso una pallottola di catarro e catrame.

«Non credo».
«Che vuol dire non credo? O li hai visti o non li hai visti».

L’intercity ciondolò affannosamente e si fermò.

«Non li ho mai visti, allora».
«Ma ci credi?»
«Non più di quanto creda agli angeli o a Dio».

Il vecchio stralunato avvicinò l’indice alle labbra come a dire di tacere: un leggero sibilo schiumò dalla bocca. Si guardò intorno circospetto, poi s’avvicinò al mio orecchio: «Non dire nulla, ché ti possono sentire».

«Gli angeli?»
«No,» aveva gli occhi allucinati, come due palle da pingpong, «gli alieni,» ed indicò al di là del soffitto.

L’avevo incontrato per caso alla stazione centrale. Era strafatto nei bagni e strisciava la sua pelle grinzosa di vecchio hippy sulle piastrelle lucide vetroresinate.

«Sta bene?»
«Mi stanno cercando».
«Chi?»

E aveva attaccato un delirio paranoide sulle cospirazioni governative, il Deep State, l’Arcangelo Gabriele, i rosacrociani, le sette aliene e sette alieni che l’avevano tratto con un raggio gravitazionale dal bel boschetto dove stava rintanato a fumare erba e a calarsi funghetti per trapanargli il cervello e giocherellare col suo budello.

«Lo fanno spesso, sai? Non solo con me, eh, è una cosa che fanno a tanti. C’è anche un sito,» e tirò fuori un cellulare, «guarda, siamo tutti abductees, è in inglese, lo sai l’inglese? Ma sì, sei giovane, guarda, tutti rapiti e scrivono le loro esperienze. Ti mando il link».

M’aveva seguito come un cane randagio che aveva trovato cibo, senza chiedere spiegazioni né indicazioni.

«Loro sanno tutto. Hanno sonde e agenti. Anche i cellulari,» e agitò il suo smartphone.
«Anche quelli?»
«Anche quelli».

Si guardò di nuovo intorno, strizzando gli occhi e nascondendo i denti marci dietro a un pugno stretto. «Anche questi qui… Tutti agenti!»
«Tutti?»
Mi guardò fisso e annuì con gravità, sussurrando: «Alieni».

Passò il controllore nel suo vestito stretto da impiegatuccio imbalsamato e chiese i biglietti.
Guardò me e il vecchio come si guardano due reietti: «Per gli animali c’è un supplemento». «Certamente» pagai i biglietti e il sovrapprezzo e quello sparì nel defilarsi dei sedili.

«Secondo me qui sono tutti alieni».
«E come fai a dirlo?»
«Lo si intuisce subito dalla postura, dalla flaccidità della pelle, dal taglio dei capelli, soprattutto dai capelli o dai cappelli, sai che hanno la pelle degli abductees, gliela strappano cellula a cellula, come delle bucce di banane, e se le infilano aprendo un buco in testa e mettendoci dentro le gambe come costumi di carnevale umani e se ne vanno in giro così per spaventare e per mimetizzarsi. La cucitura è quella che chiude e i capelli servono a nascondere la cicatrice. E poi hanno gli occhi strani, insolitamente anfibi».

«E io non potrei essere un alieno?».
Rise gracchiando come un querulo corvo: «Ma tu sei pelato!» Poi si indicò il cranio psoriasico: «I capelli, la cicatrice».

Gli altri passeggeri ci lanciavano occhiatacce gelide, con l’ordinaria ostilità che si riserva a compagni di viaggio indesideratamente fastidiosi. Una donna s’era presa le sue valige e s’era inoltrata per il vagone, giù, verso un’altra carrozza. Il vecchio la guardò passare e agitando le braccia mi sussurrò: «abbiamo beccato la marziana,» e poi, rivolto alla donna: «Via, sciò, in fondo al treno!» e rise ancora con una risata che partiva dai polmoni e finiva su, nello spazio profondo.

«E se ti dicessi» m’accostai a lui rompendo ogni barriera d’intimità «che anche io sono un alieno?» «Impossibile, impossibile,» continuava a ridere e ad agitarsi, «non hai la cucitura».
«È perché ci infiliamo dalla bocca».
«E no, caro mio, li ho visti con questi occhi: aprono un buco e si infilano dalla testa».
«Come vuoi tu».

L’intercity cigolò nuovamente e lo speaker annunciò la fermata.
«Alla prossima scendiamo» dissi.
«Va bene, va bene, alieno» e continuò a ridere sguaiatamente.

Il passeggero davanti a noi si voltò con uno sguardo ringhiante, mostrando canini aguzzi: «Oh, basta! Non se ne può più! Metta una museruola al suo umano».
«Scusi, signore, è che l’ho appena trovato, non è ancora addestrato».

Il vecchio ci guardava sbalordito, mentre il passeggero sorrise e accennò a una tregua: «È molto bello da parte sua prendersi cura di queste povere bestiole». Gli carezzò la testa, lo chiamò cucciolo, e chiese: «È di razza?»
«Caucasica, credo, ma dovrò fargli il pedigree».
«Ha già un chip?»
«Ad ascoltare lui sì».
«Bene, bene, così non scappa».

Lo speaker annunciò la fermata: «Il treno intercity Milano Centrale-Epsilon Eridani Prime è in arrivo alla stazione interspaziale Xenophor-9 con un ritardo annunciato di 16 minuti. Si ricorda ai gentili viaggiatori di prendere tutti gli oggetti personali e di lasciare pulito il posto a sedere. Grazie per la collaborazione».

Presi il mio umano e scesi dal treno.

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di Silvia Cestoni

La Sicilia di Sciascia

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, provincia di Caltanissetta, nel 1921.
La Sicilia sarà una costante sempre presente nelle sue opere e questo piccolo paese di montagna tornerà nel suo primo romanzo “Le parrocchie di Regalpetra”.
Sciascia, riferendosi alla Sicilia, parla di “similitudine”, ossia di uno stato mentale e una condizione esistenziale, di un legame ad una terra amata ma al tempo stesso detestata. Vivere in un isola vuol dire essere diversi, non essere congiunti al continente. La Sicilia è vista come  categoria mentale e anche conoscitiva: essa diventa specchio prima dell’Italia, poi dell’Europa, quindi del mondo.

Sciascia proviene da una famiglia modesta, prende il diploma magistrale e inizia la sua esperienza come maestro proprio a Racalmuto. Qui entra in contatto con ambienti intellettuali, scrive su giornali e riviste, conosce il giornalista Giuseppe Antornio Borgese e lo scrittore Vitaliano Brancanti, oltre a molti autori siciliani. Si trasferisce a Roma, entrando in politica e iscrivendosi al Pci, nelle cui fila sarà deputato regionale e poi comunale.

La politica e l’impegno sociale

L’opera “Le parrocchie di Regalpetra” rispecchia, negli intenti dell’autore, la delusione verso la politica e il partito in particolare. Sciascia resterà sempre orientato verso un pensiero progressista e di sinistra ma assumerà forti critiche nei confronti della politica nazionale e delle organizzazioni rigide dei partiti e questa sua vena lo innalzerà a scrittore con una vocazione civile e sociale.
Come autore resterà sempre molto legato ad Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini in particolare, la cui morte lo colpirà personalmente, tanto che “L’affaire Moro” (sua opera del 1978) ha come incipit una citazione di Pasolini tratta dall’articolo Il vuoto di potere in Italia, pubblicato sul Corriere della Sera il 1° febbraio 1975. Infatti, Sciascia fece parte della commissione parlamentare d’inchiesta relativa al rapimento di Aldo Moro, in cui redasse una relazione di minoranza che diventerà poi, appunto, l’opera “L’affaire moro”.

L’elemento storico

Sciascia non è solo un narratore ma scrive anche una serie di testi che rispondono alla sua vocazione della ricerca storica in archivi e biblioteche che lo porta a scrivere testi di cronaca e ricostruzioni di vicende storiche, rielaborati con una minuziosa ricerca di fonti d’archivio. Secondo Sciascia la storiografia ufficiale è viziata da una manipolazione ideologica: risponde alla necessità di confermare il potere dominante. La storia, dunque, è vista come manipolazione della verità e menzogna. Non si basa su affermazioni false, ma su fatti che vengono deliberatamente nascosti, avvenimenti dei quali si decide di non parlare, come dei documenti relativi a quest’ultimi. Il lavoro di storico e di filologo di Sciascia è quello di portare alla luce la verità attraverso i documenti verificabili.

La scomparsa di Ettore Majorana

Nascono così dei testi di difficile definizione dal punto di vista del genere letterario, come “La scomparsa di Ettore Majorana”, grande fisico che stava portando avanti esperimenti sull’energia atomica.
Un giorno, improvvisamente, lo scienziato sparisce: sembra che da Napoli si sia imbarcato sul traghetto per Palermo ma a lì non sarebbe mai arrivato. Si parlò di suicidio, ma non l’assenza di lettere o testimonianze lasceranno numerosi quesiti aperti. Sciascia conduce, così, tutta una serie di ricerche effettuando una ricostruzione della vicenda oltre a realizzare una sua inchiesta personale, arrivando ad una sua interpretazione dei fatti, dove la ricerca storica si unisce al genio narrativo e all’ intuizione. Sciascia infatti ha trovato tracce di un estraneo, rifugiatosi in un monastero di un paesino siciliano, da tutti noto come fisico e matematico ma che si dedica a lavori agricoli. Per Sciascia egli è Majorana che ha deciso di nascondersi al mondo dopo aver intuito l’orrore che la bomba atomica avrebbe sprigionato.
Le origini di questa fuga sono tutte tipicamente sciasciane, rappresentano, cioè, tutte le battaglie che l’autore porta avanti dall’inizio degli anni ’50. Del resto, egli afferma nella prefazione alla ristampa delle “Parrocchie”, che la letteratura non può non essere tendenza che si lega a questo o quel partito, ma deve essere promozione di coscienza civile, con funzione conoscitiva, ovvero di scoperta della realtà.

Lo smemorato di Collegno

Siamo di fronte anche qui a un fatto di cronaca, questa volta risalente ai primi anni ’20 e che per Sciascia diventa un occasione per discutere della “nozione di memoria”. Siamo a Collegno, piccolo paesino del Piemonte: nel 1926 viene trovato, nei pressi del cimitero di Torino, in stato confusionale, un uomo che vaneggia in preda a deliri e che aveva sottratto alcuni vasi funerari. Nessuno sa chi è, ha perso la memoria e viene portato in una clinica psichiatrica. I medici cercano di trovare elementi che portino alla sua identità e che possano dare delle risposte: l’unica cosa che sembra evidente è la natura colta dell’individuo. La sua foto viene pubblicata sui giornali e due donne lo reclamano come loro marito: una è una popolana, che lo descrive alcolizzato e sfaticato. L’altra è una signora dell’alta borghesia di Torino che che lo indica come professore universitario di matematica, uomo colto, conoscitore di lingue. Alla fine avrà la meglio la signora dell’alta borghesia e lo smemorato tornerà a essere un professore: ma il mistero rimane.

Il giorno della civetta e il “silenzio dei secoli”

Il 1961 è l’anno de “Il giorno della civetta”, che provocherà grandi polemiche soprattutto sull’esistenza o meno della criminalità organizzata, della mafia. Molti critici infatti sostenevano con convinzione che essa fosse stata già stata debellata durante il fascismo. Sciascia, invece, con il suo romanzo, tentò di mettere in luce non solo la connivenza tra mafia e potere, cioè tra mafia e istituzioni, ma anche tra mafia e potere economico. Il romanzo ebbe il merito di portare alla costituzione della commissione antimafia nel 1963, ma anche alla nascita di numerose inchieste parlamentari.

Romanzo realistico, in terza persona, avvicinato al realismo socialista. Viene trattato soprattutto il tema dell’omertà, atta a coprire, con il silenzio, azioni e atteggiamenti mafiosi. L’omertà non viene mai dichiarata esplicitamente, ma attraverso lo stile e la scelta del lessico da parte di Sciasia che utilizza similitudini, metafore e particolari termini. Ad esempio la camminata del venditore di panelle che non vuole testimoniare è riassunta nell’immagine di un granchio; mentre il bigliettaio del tram ha la “faccia smemorata” non ricorda i passeggeri, anche se li conosce tutti a memoria: è questo il “silenzio dei secoli” .

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di Davide Paciello
Illustrazione di Francesca Bosco

Fermata del tram. Attendo.

Quando sono soprappensiero o a disagio, le mie dita corrono sulla superficie del mio corpo in cerca di crosticine da grattare, palline di grasso da spremere, pelle morta da tirare.

Le dita si fermano all’orecchio e trovano un pelo. Lo tiro. Lo porto davanti gli occhi e lo guardo. Realizzo. Ho tirato un pelo bianco dal mio orecchio. È iniziata.

Passa sulla corsia del tram un ragazzo col monopattino elettrico, li odio quelli e non so perché.

Che fossi vecchio mentalmente e caratterialmente lo sapevo, ora si tratta di accettare il decadimento di tutto il resto.

È bastato un pelo bianco in un orecchio a farti notare che hai iniziato a raderti assiduamente perché la barba iniziava ad essere grigia. Quel piccolo pelo ha alzato il tappeto e ora ci trovi la polvere delle tue ossa che si sbriciolano.

Lo hai notato? In palestra è sempre un tantino più faticoso e ti sei detto, ma no, mi sono solo rotto il cazzo di spingere come farebbe un ragazzino. Eccolo.
Non hai più vent’anni e mente e corpo si stanno sincronizzando. Ora ti manca il tempo, la voglia e, soprattutto, il fiato. Continui perché l’unica motivazione che hai ora è: rallentare la caduta, fingere che non stia arrivando.

Cerco di distrarmi, ma vedo un ragazzino a sinistra e un anziano a destra.
L’anziano fa fatica a muoversi, ha un girello su cui si appoggia. Forse anche lui da giovane faceva boxe, ma ora eccolo lì.

Ogni giorno una ruga nuova solcherà il mio viso, tra una manciata di anni smetterò di sembrare un uomo maturo e inizierò ad apparire come il vecchio che sarò.

La pelle si appende e raggrinzisce inevitabilmente davanti ai miei occhi. Mi commisererò nudo davanti lo specchio e mi sembrerà che debba semplicemente cambiare abito, ma qui non sono previsti resi o negozi di corpi. Quell’abito sgualcito e strappato è tutto quel che hai.

La vista cederà il terreno alla nebbia e il mio mondo si popolerà di ombre.
I timpani saranno sempre meno efficienti, i suoni sempre più ovattati. Le parole dolci dei miei cari saranno distanti e confuse, ma sorriderò fingendo di averle afferrate tutte.

Perderò l’equilibrio in un mondo spento e confuso, i denti marciranno e verranno sostituiti con protesi, ma nel frattempo perderò il gusto del cibo.

La fatica che oggi sperimento a seguito di un grande sforzo diventerà compagna dei gesti più semplici. Non si tratterà di fare un km in più ma di arrivare senza aiuti alla fine della stanza.

Certo, uno può cicciare fuori storie straordinarie di ottuagenari a cui Capitan America spiccia casa, ma se è vero che non è mai troppo tardi per fare qualcosa è anche vero che non è detto che la si debba fare.

La mia volontà è schiava di bisogni naturali, si adatta e si deteriora a sua volta e alla fine quando ti piscerai addosso perché la prostata è andata proverai sempre meno vergogna. Quando arriverà la morte a porre fine all’imbarazzante peso che sei diventato per parenti e amici, sarai troppo rincoglionito per averne paura. Un lieto fine, tutto sommato.

Mi alzo e mi avvicino al bordo della banchina e il gesto mi sembra intriso di uno sforzo eroico, più che umano. Guardo fin dove la mia vista consente.
Questo tram non arriva.
La vecchiaia sì.

Di uomini, cani e ciambelle in metropolitana View More

di Flavia Catena

Illustrazione di Eleonora Loiodice

I respiri affannati di chi era appena salito appannavano i vetri.
Ben poco da vedere dall’altra parte: l’oscurità delle gallerie faceva risaltare solo i nostri contorni imprecisi, le chiazze di colore che s’incontravano, un cappotto con una sciarpa, un berretto con una mano guantata.

Eravamo compressi, così vicini da reggere, chi con gambe, chi con le braccia, il peso del corpo altrui insieme al proprio. Il nostro silenzio era un insoddisfatto bisogno di leggerezza; sembrava focalizzare le energie nella direzione giusta, sul pensiero giusto.
Il grido che risaliva dalle rotaie, il fischio del vento che entrava dalle porte tra i vagoni, le note sotto cui si accendevano gli schermi in mano ai passeggeri: ciascuno di quei rumori bastava a farci perdere l’equilibrio e la calma. Io resistevo senza sbilanciarmi, incastrata tra un uomo di mezza età, massiccio, e un ragazzo allampanato, un adolescente con in braccio un vecchio cane bianco, gli occhi coperti di lanugine e di paura. A tratti la zampa del cane mi sfiorava il cappotto; ci guardavamo. I suoi occhi velati e i miei si fissavano gli uni negli altri, e in quel momento le porte si aprivano, rimescolando corpi e suoni.

Alla fermata seguente mi disincastrai; l’uomo di mezza età finì spinto via dagli altri passeggeri in uscita, mentre quelli in entrata cercavano di prendere il suo posto relegando me e l’adolescente nell’unico angolo rimasto libero, tra il sedile appena occupato da una donna incinta e il finestrino.

La luce della stazione, oltre il vetro, venne presto annullata dal buio della galleria successiva; il treno sembrò accelerare prima che vi fosse entrato del tutto. Andavamo più veloci che mai, o forse era la nausea a farmelo credere. La zampa del cane non mi sfiorava più il cappotto, ma la gamba: il ragazzo si era accovacciato a terra, e sembrava cercare una via di fuga guardando attraverso gli spiragli che si aprivano tra un piede e l’altro. Ci finii anch’io in quella tana maleodorante, metri sotto terra e sotto muscoli flaccidi, sotto strati di stoffa e ombre.
Caddi, spinta avanti dall’ennesima accelerazione e dalla mancanza di appoggi.

Per dimenticare dove mi trovassi, chiusi gli occhi e contai le stazioni che mi separavano dall’arrivo. Ancora cinque. La voce che le annunciava dall’alto, voce di angelo meccanico, di donna e automa, mi sorprese a tremare nell’attesa di sentire il nome, quella parola unica, diversa da tutte le altre, scandita con più cura, a cui avrei connesso la mia vittoria.

Poi un soffio di vento mi ridestò.
Il cane stava per uscire; da dietro la spalla del padrone continuò a guardarmi fino a quando ebbe raggiunto la banchina. Di nuovo in piedi, gli dissi addio, e lo vidi aprire la bocca. O forse fu la donna che mi trovai accanto a farlo. Decine d’immagini si sovrapposero tra loro in un singolo istante.
Di lei, non vedevo altro che due labbra sottili, linee marcate di corallo. Mordeva qualcosa, un biscotto, una mela; non avrei potuto dirlo per certo, perché si voltava nel farlo. Dietro la cornice della sua valigetta di pelle, un bambino, senza imbarazzo, senza neanche guardarsi intorno, addentava una ciambella: un boccone, e la nascondeva in una scatola di plastica rossa, un altro boccone, e ciò che ne restava finiva di nuovo nella scatola.

Non appena anche la donna dalle labbra sottili scese dal treno, io mi spinsi avanti, abbastanza che a tendere il braccio avrei potuto toccare la porta. Tre fermate, due, ed ecco giunto il mio turno.
Un’anziana sollevò il suo bastone, una ragazza aprì lo scialle che l’avvolgeva, e vidi tutte le stelle che vi stavano stampate dentro come su un cielo notturno. Superai entrambe. Le mie dita si aprivano già verso il mazzo di fiori sul cartellone di una campagna pubblicitaria, il mio piede destro aveva toccato la banchina. Ero fuori, ero quasi fuori.

Accadde allora che un gruppo di ragazzi mi trascinò indietro, un detrito sotto il flusso della loro eccitazione, e il treno ripartì carico fino all’ultimo centimetro quadro, e non più silenzioso. Ai rumori metallici, allo scampanio degli avvisi, allo stridore dei freni, si unì un concerto di schiamazzi, canti, versi animaleschi che contagiò la folla prima composta facendola esplodere. Stazione dopo stazione, il treno che non sapevo più dove andasse e quando si sarebbe fermato, raccolse dieci, venti, trenta nuovi passeggeri, ma non ne lasciò andare neanche uno.

Scoprii allora che quasi tutti avevano una scatola con una ciambella nascosta sotto la giacca, nello zaino, in borsa, e tutti la mordevano, una briciola alla volta, rumorosamente come se fosse dura di giorni, pietrificata dal tempo. C’era anche un levriero dall’altra parte del vagone, grigio e con gli occhi d’ambra, che sembrava addentare un osso, o forse mordeva la caviglia della donna accanto a cui si trovava, e la donna invece di gridare, rideva. Pochi minuti dopo ridevano tutti, persino la voce registrata, la voce d’angelo, di automa, la voce che annunciava la nostra condanna.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Da quanto tempo sto aspettando il tram?

Il ritmo della mia vita non dipende da me, ma dal lavoro, dai tempi di produzione, dai mezzi pubblici, dal traffico.
Lavoro 36h la settimana e dovrei dormirne 67.
Il resto del tempo dovrei viverlo, ma c’è la palestra che serve ad essere più produttivi e più a lungo, c’è la spesa, la pulizia della casa.
Il tempo per i miei affetti, per i miei svaghi, le mie velleità quando lo trovo?

Sì, lo so, Charlie Chaplin lo dice meglio.

Il consiglio che ti danno è sempre lo stesso: ama il tuo lavoro e privati del sonno.

Per chi non lo sapesse la privazione del sonno è la prima tecnica di manipolazione applicata dalle sette in cui ti convincono a farti abusare sessualmente prima di spedirti a scannare persone a casa loro.
E sì, lo so, Charlie lo sa fare meglio.

Il tram è in ritardo, altro tempo che mi stanno rubando.

Ansia, stress, burnout, disturbi della socialità, perdita dell’empatia, depressione e suicidio. Tutto questo e molto altro è il magnifico mondo del tardo capitalismo.

Durante il master in marketing un milionario imprenditore genio ci ha raccontato di un ragazzo che aveva preso sotto la sua ala protettiva per mandarlo a crescere in un’importante azienda in Portogallo.
Dopo qualche anno scopre che il pupillo non aveva ancora cambiato lavoro, non aveva avuto particolari scatti di carriera né ruoli dirigenziali significativi. L’oscuro signore dei Sith, cioè il milionario, allora, gli procura subito altri colloqui in altre parti del globo. Il ragazzo, alla fine, parla chiaro e dice al mentore che guadagnava abbastanza, finiva di lavorare alle 17 e se ne andava a surfare tutti i pomeriggi.
Era ormai passato al lato chiaro del capitalismo.

L’imprenditore genio, iperattivo come solo certi cocainomani, raccontava questa storia con disprezzo: non poteva crederci che qualcuno rinunciasse alla carriera e a fare più soldi per restare in un posto dove aveva amici e affetti e tutto il tempo per godersi la sua passione.

Il tram ritarda ancora.
Io qui, fermo alla banchina, mentre tutto il mio tempo scorre via.

Da piccoli gli anni duravano eoni e quando sei in viaggio fai così tante cose che cinque giorni diventano una vita. La quotidianità, invece, si consuma nella ripetizione come un fiammifero al fuoco.

Il sole sorge e tramonta.
L’anno passa e io aspetto il tram.

Guardo oltre l’orizzonte immaginario nascosto dalla banchina difronte e mi figuro l’oceano durante il lungo tramonto portoghese, io e la mia compagna che ridiamo.
Le onde sono ottime per il surf, ma io non surfo.

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di Silvia Cestoni

Landolfi, l’unicum

Landolfi è un autore dai vari generi, ma al tempo stesso uno scrittore che non si può inserire in nessuna tendenza, e questo spiega la sua scarsa fortuna con lettori e critici. Alcuni critici l’hanno amato, mentre altri l’hanno ripudiato, considerandolo solo un calligrafista. Landolfi è un unicum, sia come autore che come personaggio: sicuramente appartiene alla linea del fantastico, la quale non a caso non è né un genere né una scuola. Nei suoi testi troviamo punte di magia e di realismo che lo avvicinano al realismo magico di Bontempelli, ma anche lo strano e il meraviglioso, è stato anche avvicinato al Surrealismo insieme a Delfini e Buzzati: tuttavia, nel Surrealismo non c’è una precisa ricerca di stile come quella di Landolfi perché nel surrealismo la forma è casuale.
In Landolfi nulla è casuale, ma tutto è invece progettato e costruito. Nelle sue opere c’è sempre un doppio livello: una realtà da cui poi si slitta in una dimensione altra.
“La pietra lunare” è il suo primo romanzo: prima aveva scritto una serie di racconti, tra i quali uno dei meno fortunati è “Maria Giuseppa”, oltre ad un tentativo di romanzo fantascientifico “Cancro regina”. Tutta l’opera di Landolfi è un’autobiografia, la quale diventa poi letteratura vera e propria.

Lo stile

Lo stile di Landolfi sarà esaltato e condannato: infatti, il suo è uno stile alto, “letteratissimo”, che attinge alla tradizione rifacendosi anche ad un linguaggio arcaico ed è frequente l’uso di parole rare, deformate, e popolari:

  • Parole rare: “tempo soggiuntivo” (ovvero congiuntivo); “la di lui fantesca” (fantesca oggi non si usa più); “menomo stupore” (minimo stupore); “avvero dire” (a dire il vero); “la spasa” (un cestino); “pretestava” (ovvero portare a pretesto)
  • Parole plebee: “barbugliava e balbutendo” che sono delle varianti di “balbettare”; “stronfiava” (russare); “pidocchiava” (con riferimento ai capelli sporchi del cugino)
  • Figure retoriche: “voce soffice e un po’ rauca” (voce soffice è una sinestesia); “capelli invioliti” ( ovvero la luce lunare crea riflessi blu e viola); “lenta oscurità luminosa” (lenta oscurità è un’ipallage perché la lentezza non è nell’oscurità; oscurità luminosa è un ossimoro); “vasta marea della sua luce” ( vasta luce è una sinestesia; marea della luce è una metafora)
    Spesso domina il contrasto luce- ombra, che è una componente barocca, e il tema della vastità. Il linguaggio di Landolfi è preciso, e la precisione è un elemento congeniale anche a Calvino.

La pietra lunare

L’opera più famosa di Landolfi è “La pietra Lunare”, del 1939.
All’inizio dell’opera abbiamo una descrizione zelante in cui vengono riportate le chiacchiere di alcuni paesani sciocchi intenti a criticare una serva. Si tratta degli zii e dei cugini di Giovancarlo, il protagonista del romanzo. Uno degli zii ad un certo punto dirà di aver visto una croce nera proiettarsi in mezzo al giardino, e questo sarà il primo elemento di inquietudine: infatti, Giovancarlo guarda in quel punto ma vede invece due occhi felini che lo fissano. Questi occhi escono poi dall’ombra mentre entra nella stanza Gurù, una giovane bellissima e sensuale che fissa Giovancarlo, il quale è attratto da lei ma al tempo stesso la respinge. Infatti, osservandola noterà che essa ha dei piedi di capra.
Comincia così a chiedersi se zii e cugini se ne siano accorti, ma non sembra poiché tutti la trattano con affetto e normalità. Gurù dirà di essere venuta lì per stare con Giovancarlo e lui è ancora più scioccato, in quanto non conosce questa ragazza.
L’ambientazione è nel palazzo signorile di Pico, appartenente allo stesso Landolfi. Giovancarlo cercherò a più riprese di far notare i piedi di capra ma tutti lo guarderanno sgomenti, come se stesse delirando, e allora si chiede se non si tratti solo di una allucinazione.
Cambia l’ambientazione e si passa successivamente alla descrizione di Giovancarlo. Qui scopriamo che il protagonista ha un vizio, ovvero quello si spiare tutti dall’alto del suo palazzo. Questa componente voyeuristica indica una certa repressione del personaggio. Egli vedrà un giorno un palazzotto in rovina, dove un tempo vi abitavano dei fratelli banditi e assassini che erano stati il terrore della zona: ora vi abita una loro discendente, una ragazza bellissima, pura e virtuosissima che ha la caratteristica di guardare sempre per terra. Proprio per questo suo eccesso di virtù e di mistero in paese si comincia a vociferare che sia una strega, anche perché la sera la si sente cantare nenie ambigue. Questa fanciulla è ovviamente Gurù e Giovancarlo la riconosce.

Creatura lunare

Chiede alla sua serva Giovannina informazioni su di lei e una vecchia di paese gli rivelerà che è una creatura lunare, ovvero che di notte si trasforma in una diabolica fanciulla amica del diavolo. Con la scusa di farle ricamare delle camicie la farà venire in casa sua e inizierà così la loro relazione, spesso tormentata: infatti, di giorno Gurù è una fanciulla dolce e virtuosa, ma di notte diventa un’amante scatenata. Emerge, dunque, il tema del doppio e della metamorfosi. Viene raccontato poi un episodio i cui i due si uniscono ad un gruppo di banditi, forse fantasmi degli antenati di Gurù, e uno di essi mostrerà a Giovancarlo come decapitare un prigioniero con un coltellino. Segue una scena cruenta, con il sangue che sgorga e zampilla e la testa che rotola giù dalle rocce.

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di Giulio Iovine

Illustrazione di Elisa Antonietta Daniele


Al primo soffio di tramontana, alle dieci del mattino, lo charvolant partì dalla chiesa sventrata nei dintorni di Lisburn, dove il dottor Pocock l’aveva costruito, e s’incamminò cigolando sui resti della vecchia autostrada, verso sud.
Non pareva altro che un carretto di fortuna con quattro ruote ampie e a raggi di metallo, come una bicicletta d’altri tempi; pure, in quel nuovo mondo dove non c’erano più motori, né benzina, né elettricità, né cibo per i muscoli, lo charvolant era la vita.

Era al traino di tre aquiloni di forma rettangolare, gonfiati dal vento come arterie dal pulsare del cuore.
Il dottor Pocock controllava la vela anteriore e le due laterali con una coppia di leve; al volante, sedendogli accanto, stava Madeline; e al fianco di lei, la vecchia.

La vecchia era un imprevisto.
Madeline si era presentata all’appuntamento con Pocock, come si diceva una volta, con il suo +1.
Per non farla cadere fuori dallo charvolant, Madeline era costretta a tenerle il fianco con il braccio destro.

«Venticinque all’ora», annunciò controllando il tachimetro.
«Fra mezz’ora deve venire la bora da nordest», rispose il dottor Pocock.
«Soffierà per tutto il giorno. Basta e avanza per arrivare fino a Newry».
La vecchia, muovendo in cerchio la testa, disse qualcosa come gn gn blrb gn.

«Quanto ci hai messo a costruire questa chicchetta?», chiese Madeline.
«Poche settimane. Ero bravissimo a montare i mobili IKEA, prima del disastro».
«Fatico a credere che stiamo filando così, solo grazie al vento».
«Credici. La contea di Down è la regione più ventosa del vecchio Regno Unito».
«Se non è culo questo».
«Non posso darti torto».

Lo charvolant, intagliato con amore nel legno, provvisto di ruote di metallo sottile e di un sedile per due, non aveva un chilo di troppo; e correva spinto dalla tramontana che si abbatteva sulle vele anteriori.
Né veloci né lenti, i tre passeggeri attraversarono la contea di Down, verde e umida dopo le piogge di aprile. Al di là delle colline a est, a Madeline pareva di sentire il ruggito del mar d’Irlanda; a ovest, il luccichio del lago Neagh sotto le nuvole. Il vento alle loro spalle gli fischiava gelato sulle nuche.
Madeline dovette mettersi un foulard.

«Manovri male con una mano sola», commentò Pocock.
«Non posso metterle tutte e due sul volante. Mi cadrebbe la vecchia».
«Ripetimi dove l’hai trovata».
«Una casa di riposo abbandonata. I Famelici hanno mangiato tutti tranne lei. Credo perché era chiusa in bagno».
«Non parla proprio?».
«No, poveretta, credo sia demente da molti anni».
Il dottor Pocock guardò i movimenti incessanti della testa e il ciucc ciucc delle gengive sdentate, e quello sguardo che non si posava su niente, e concordò in silenzio.

«A Newry hanno cibo e acqua», disse poi, mentre lo charvolant sobbalzava sopra una buca nell’asfalto. «Ma sono razionati. La vecchia non sarà la benvenuta». «Non possiamo lasciarla morire», ribatté Madeline: «Non è colpa sua se è inerme».
«Non è il momento storico giusto, per gli inermi», riprese Pocock.

La vela centrale si gonfiò all’improvviso per uno schiaffo del vento, e lo charvolant accelerò.

«Un bambino è inerme quanto un vecchio», rispose Madeline «ma se avessi soccorso un bambino anziché una vecchia, non ti saresti lamentato. O sì?».
«Un bambino non ha metà cervello mangiato dall’ischemia».

Mentre Madeline attaccava un pippone sul fatto che la fine della civiltà umana non era una scusa per replicarne i viziacci peggiori e che, anzi, proprio la congiuntura attuale era ideale per dedicarsi con rinnovata cura all’infanzia e alla terza età perché il valore della comunità nello sfacelo eccetera eccetera, Pocock si accorse dallo specchietto retrovisore che avevano alle costole due Famelici.
Grazie al cielo, non molto veloci, per via della fascite necrotizzante che gli aveva mangiato le articolazioni (oltre a bollirgli il cervello dieci anni prima, quando tutto era iniziato); ma comunque Famelici e cioè – per definizione – testardi. Non riuscivano a raggiungere lo charvolant, che ora filava a trenta chilometri l’ora ma gli tenevano dietro, sbracciandosi e urlando, le mandibole orribilmente estroflesse.

Se ne accorse anche Madeline: «Se rallentiamo siamo fottuti».
«Deve venire la bora».

Ma la bora tardava, la tramontana cominciava a singhiozzare e lo charvolant rallentava.
Le tre vele che si rattrappivano alle estremità. I Famelici guadagnavano terreno.
Il dottor Pocock allora chiese a Madeline: «Scusa, reggimi un attimo le vele. Ho un’arma sul retro».

Madeline staccò dalla vecchia il braccio per prendere il controllo delle vele, mentre l’altro braccio stava sul volante. Pocock, che a Lisburn non aveva trovato nemmeno una fionda, spinse la vecchia giù dallo charvolant.
Il suo corpo grasso rotolò sull’asfalto, la testa che si muoveva senza senso sul collo.
I Famelici le furono addosso e cominciarono a mangiarla viva.
La vecchia non parve accorgersene e continuò a dire gn gn blrb gn.
Madeline avrebbe urlato, se non che lo charvolant, con settanta chili in meno e improvvisamente spinto da un soffio di bora, schizzò in avanti traballando e gemendo.
Le sue vele tese e lisce come gusci d’uovo, diretto a Hillsborough, Dromore, Banbridge e infine Newry, in quello che un tempo era stato l’Ulster, e ora era solo Irlanda.
La vita che continua fatica ad avere pietà di quella che si è fermata.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Mi siedo alla banchina del tram.
Fa caldo e ho paura di sudare e puzzare, cerco di non pensarci.

Domenica scorsa ero al parco per beccarmi con un amico che, a sua volta, si doveva beccare con un amico e così via. Alla fine mi ero ritrovato in mezzo ad un nutrito gruppo misto di ventenni con cui, dall’alto dei miei trent’anni, non sentivo alcun bisogno di entrare in confidenza.

Stappai una birra per giustificare il mio esser uscito di casa, ma non me la godetti: gente della mia età spuntò con chitarre e persino un sax. Immediatamente si sparse la puzza di Wonderwall nell’aria.
Un tempo avrei amato queste cose, ma ora vedevo solo degli adulti che da ragazzini sognavano di essere rock star mentre ora nascondevano il disagio di non ricordare più accordi e movimenti delle dita.

Guardo l’ora.
Il tram è in ritardo e una versione giovane di me è seduta al mio fianco.

È il me che non scopava e che amava le jam improvvisate, le bevute con sconosciuti e i film impegnati. Alza lo sguardo dalla sua lettura, la Nausea di Sartre, e mi fa: la vita finisce a trent’anni.

Una frase che mi ripetevo spesso sperando che a 30 anni sarei stato un adulto autonomo e invece mi trovo schiacciato tra la precarietà, lo sfruttamento e la consapevolezza di non aver combinato un cazzo nella vita.
Tuttavia è vero, la vita finisce a trent’anni.

Ho viaggiato abbastanza per sapere che i posti sono più belli in foto, ho amato abbastanza per sapere che l’amore è più una questione di tempismo che di spirito.
Le cose che dovevo scrivere le avevo scritte, i cibi prelibati assaggiati e le bevande scadenti bevute.
Tutto si era compiuto nell’inconsapevolezza.

Scruto i binari in cerca del mezzo, ma niente.

Ecco a che servono i figli, a riprovarci, a ricominciare da capo.
A guadagnare altri 13, 14 anni di novità prima che ti dicano: «non sono te, il tuo fallimento è irreversibile, ma il mio è ancora da vedere; ora tocca a me fallire e lo farò meglio».
Sarebbe comunque bello avere una prole o quanto meno una certa sicurezza economica per adottare un cane prima di essere troppo rincoglionito per occuparmene.

Vedo un tram all’orizzonte, spero sia il mio e mi metto in piedi, mi giro come a cercare il giovane me.

«La vita si è allungata – mi dice – ma qualitativamente non è tanto diversa: l’infanzia scorre lentamente, è densa, ricca di scoperte, poi tutto diventa veloce e ripetitivo».

Mi osservo: il suo futuro è il mio presente ed è orribile come lo temevo.

Il tram si avvicina, lento, ma inesorabile.
Forse dovremmo vivere fino ad un massimo di quarant’anni, una vita breve vi eviterebbe la disillusione.
Ci sposeremmo da adolescenti per amore e faremmo figli per gioco.
A 20 anni saremmo giovani adulti pieni di energie che lavorano per sostenersi e finanziare le proprie passioni. A 30, stanchi e sazi, ci ritireremmo in qualche concilio di anziani del villaggio o a vita privata per dedicarci ai nipotini dei nostri, impreparati, figli adolescenti.
Infine, a 40 anni massimo, ci congederemmo dalla vita in maniera dignitosa senza starci troppo a pensare.

Non è il mio tram che arriva.
Spero di non fare tardi a lavoro.
Potrei campare altri 60 anni e li passerei tutti a lavorare.

Un giorno mi sveglierò e mi chiederò cosa ne ho fatto della mia vita e mi resterà solo un grande tempo sprecato a sentirsi come Antoine che guarda il mare alla fine de “i 400 colpi”.

Stasera mi vedrò un film dove de Sica scorreggia e incolpa Boldi davanti una tipa priva di caratterizzazione…e vaffanculo alla Nouvelle Vague.

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di Silvia Cestoni

Di famiglia di origine nobiliare, proveniente dalla toscana ma trapiantata a Roma, Ottieri nasce e si forma proprio nella capitale e, almeno inizialmente, aderirà al partito fascista.
Questa esperienza è raccontata nel suo primo romanzo “Memorie dell’ incoscienza”, del 1954.
Sarà poi la guerra a portarlo alla maturità. Lascia Roma e la sua casa da borghese privilegiato e se ne va a Milano, in cerca di lavoro nell’industria, come operaio.
Qui si avvicina a gruppi sindacali e politici, per poi iniziare a lavorare nella fabbrica di Olivetti ad Ivrea.
È proprio lì che Ottieri si rende conto che l’attività politica e sindacale non è sufficiente per “andare verso la classe popolare“. Nel romanzo egli racconta proprio questa sua incoscienza giovanile oltre al suo superamento.

Scriverà poi anche una sorta di diario, “Taccuino industriale”, pubblicato in parte sul numero del “Menabò” del 1961, dedicato tutto a letteratura e industria. Del 1957 è “Tempi stretti”, mentre del 1959 “Donnarumma all’assalto”, due romanzi molto diversi tra loro.

Tempi Stretti (1953)

Ottieri, sposa la figlia di Bompiani e con il suocero pubblica il suo romanzo industriale, “Tempi stretti”, in cui racconta il lavoro in fabbrica (una metallurgica e una tipografica).
Scritto tra il 1953 e il 1955, pubblicato nel 1957, riesce con Einaudi nel 1964 dove una nota dello stesso autore dice che “non esclude di poterlo riscrivere”.
Romanzo dotato di una forte componente descrittiva-saggistica, la cui narrazione si apre con il gennaio 1950, nel corso di una riunione sindacale all’inizio dello sviluppo industriale a Milano. Il protagonista è Giovanni Marini, che richiama un po’ il percorso di Ottieri dall’incoscienza alto-borghese giovanile alla coscienza politica della scelta di vita di lavorare in fabbrica.
Le fabbriche citate sono due: la Alessandri, azienda tipografica familiare e artigianale, basata sulla produttività e la competenza operaia (in crisi), dove lavora il protagonista, e la Zanini, grande industria metallurgica in cui lavora Emma, la protagonista femminile. I due si incontrano a casa di Paolo, un uomo che li ospita dietro un pagamento di una pigione. Nasce dall’incontro un amore difficile.
Gli anni Cinquanta sono quelli del passaggio dalle piccole aziende alle grandi concentrazioni industriali (dal modello della Alessandri alla Zanini rimanendo nello schema narrativo del romanzo) con fabbriche che, trasformandosi, cercando di ricalcare il modello americano.

Nel romanzo emerge, da un lato, un’immagine del “capo-padrone” che mantiene un rapporto diretto con gli operai, ma predilige l’aspetto economico rispetto a quello umano: non licenzia, ma non ammette neanche errori né attività sindacali.
Ben diversa la situazione della Zanini (la fabbrica concorrente), organizzata con la presenza di tanti padroni e l’assenza di un rapporto diretto. Ottieri mette per iscritto dunque il momento del passaggio di trasformazione dell’industria: l’aumentare della produzione, man mano che gli operai si impratichiscono, porta il capo reparto a studiare e analizzare dettagliatamente i tempi e, in base a quanto si produce, avviene un cambia di stipendio. Ciò provoca un’ansia da produzione e frenesia negli operai con i tempi che diventano sempre più stretti e che alimentano incidenti, l’alienazione e l’angoscia.
Il tempo libero è un altro tema trattato da Ottieri: è misero, soprattutto per Emma, la protagonista femminile, che esprime l’amore in luoghi squallidi e conserva in sé una speranza di miglioramento che si riduce tutta nella “fuga” verso il matrimonio: quasi un ritorno ad una condizione pre-industriale.
La delusione permea il protagonista femminile ed Emma rappresenta appieno quella “tristezza operaia da cui guarire con la partecipazione politica”.

A confronto

È possibile fare un confronto tra questo romanzo e “Tre operai” di Bernari nel quale, ad esempio, torna il tema triste della domenica. Anch’esso è come in Bernari, un romanzo di formazione. dove il punto di vista prevalente è tra narratore esterno, emergente nelle descrizioni, e l’interiorità dei personaggi.
C’è un duplice piano tra ciò che si dice e ciò che si pensa e l’interiorità di Emma viene fuori tramite la narrazione e il discorso indiretto libero.

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di Ottavia Marchiori

Illustrazione di Serena Borioni

Le auto schizzano come schegge e il rombo dei loro motori riempie tutto lo spazio, arrampicandosi lungo i muri grigi di Galleria Garibaldi.
Affretto i passi sulla striscia consumata di marciapiede davanti a me cercando di trattenere il più possibile il fiato per non inalare gli scarichi insalubri del traffico che si lascia inghiottire veloce sotto il tunnel per poi sbucare dall’altra parte del centro città.

Cammino con le spalle ricurve, lo sguardo basso: non voglio che la gente si accorga dei miei occhi rossi, dei miei sforzi per domare il groppo che mi si è infilato in gola.
Ma è una preoccupazione immotivata: a chi mai può importare di come mi senta io in questo momento?

Quando il semaforo del passaggio pedonale che taglia a metà la galleria vira al verde, attraverso la strada e prendo l’ingresso all’ascensore di Ponente che porta a Castelletto. Al di là della porta automatica non c’è nessuno, provo sollievo per questa temporanea solitudine.
Tra le pareti tinte di giallo chiaro sotto la luce severa dei neon, riecheggia solo il rumore dei miei tacchi che scandiscono una cadenza regolare sul marmo decorato da volute tondeggianti. Premo il pulsante per chiamare l’ascensore e aspetto, rovistando nel mentre il fondo della borsa per cercare un fazzoletto con cui limitare il tracollo del mio mascara. Ho bisogno di lasciarmi il caos della città alle spalle, ho bisogno di un attimo di pace.
E so di poterlo trovare alla fine di questa salita.

Le porte dell’ascensore si aprono sugli arredi eleganti in legno lucido perfettamente levigato.
Il viaggio dura solo una manciata di minuti ma tutte le volte che metto piede qui sopra, ho l’impressione di essere altrove, proiettata in uno spicchio di passato in qualche modo non ancora concluso.
Questo luogo suscita la mia riverenza: mi emoziona vedere la cura di chi lo tiene in vita, gli sforzi per preservarlo dallo scorrere del tempo.
Le porte si aprono: sono arrivata a destinazione.

Fa decisamente caldo per essere maggio e io che per l’appuntamento mi sono voluta vestire di tutto punto per fare buona impressione, realizzo di aver esagerato. Tutto troppo aderente, troppo accollato, troppa stoffa. Mi sento soffocare.
Tolgo la giacca, me la metto sotto braccio, arrotolo le maniche della camicia fin sopra i gomiti.
Così va meglio.

Sotto le chiome dei pini marittimi mamme con i passeggini chiacchierano sulle panchine.
Turisti con gli zaini in spalla e le mani a taglio a coprirsi gli occhi dalla luce del sole, gettano sguardi sorpresi ad abbracciare il panorama sulla città fino a incontrare il riverbero del mare.
Il canto parossistico delle cicale si dipana nell’aria del pomeriggio intrecciato al profumo persistente della resina che cola dai tronchi. Una donna con gli occhiali da sole dalla montatura bianca e una maglietta a righe azzurre che le scopre le spalle arrossate, armeggia attorno al vecchio cannocchiale, accanto all’ingresso invetriato dell’ascensore di Levante, cercando di inserire una moneta.
Qualcuno dovrebbe avvertirla che sono anni che quell’affare non funziona, meglio lasciar perdere.
Lo stesso consiglio che dovrei seguire io stessa: lasciar perdere.

Il problema è chiaro: ho fatto un grossolano errore di valutazione.
Ho caricato di eccessive aspettative questo incontro.
Mesi e mesi a scambiarsi messaggi senza nemmeno una telefonata. Non so nemmeno che suono abbia la sua voce. Sarebbe bastato questo a dovermi mettere in guardia. Le sue risposte elusive alle mie domande, le sue domande sparute sulla mia vita, lasciate cadere senza slancio di tanto in tanto, tutte le cose che ho detto precipitate nel vuoto del suo disinteresse.

Laggiù al porto, dietro al profilo dei Magazzini del Cotone, la massa poderosa di una nave da crociera si allontana lentamente verso il largo, lordando l’aria trasparente con sbuffi di fumo scuro. Mi rendo conto che il mio ruolo è stato quello di spettatrice passiva e pateticamente entusiasta dei suoi monologhi, l’ennesimo specchio in cui potersi rimirare ricevendo approvazione.
È stato lui a proporre di incontrarci oggi e a me non è sembrato vero avere finalmente occasione di conoscerlo. L’ho aspettato per due ore al tavolino di un bar dalle parti dell’università, su da via Balbi. Ho ordinato un Asinello che ho centellinato fino a che sul fondo è rimasto solo del ghiaccio liquefatto mentre mandavo messaggi rimasti senza risposta. Ho fatto i salti mortali per avere il pomeriggio libero, ho fatto fatica a farmi concedere il permesso in ufficio. Per cosa? Cos’è questa messinscena?

Ho provato a chiamarlo: irraggiungibile.
Un gruppo di bambini gioca a pallone mentre la spianata si lascia inondare placidamente dalla luce intensa del tramonto come fosse un bicchiere di aranciata dolce.
Le cicale hanno smesso improvvisamente di cantare, sembrano ammutolite dallo spettacolo che si sta svolgendo in questo istante. Tutto è immerso in una dimensione onirica, con la città distesa come un drappo d’oro ai miei piedi, i tetti dei palazzi affastellati l’uno sull’altro e l’orizzonte del golfo che cinge lo sguardo fino a dove lo si riesce a spingere.

Sento vibrare il cellulare nella borsa.
Lo ignoro.
Chiudo gli occhi e lascio che il malumore si stemperi nei raggi obliqui del sole mentre i versi di Caproni mi disegnano arabeschi nella mente: «Quando mi sarò deciso / d’andarci in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto».

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di Silvia Cestoni


Renata Viganò nasce a Bologna nel 1900: fu una scrittrice precoce, anche se per ragioni economiche intraprenderà il mestiere di infermiera.
Con il figlio molto piccolo seguirà il marito, capo di un gruppo garibaldino e lei stessa sarà una partigiana. Raggiunge il suo successo con il romanzo “Agnese va a morire” ma continuerà sempre a scrivere della sua esperienza partigiana.
Tra le sue opere si ricordano: “Una storia di ragazze” (1962), “Matrimonio in brigata” (1976) e un saggio, “Donne di resistenza” (1955), che sottolinea il grande contributo che le donne hanno dato alla Resistenza. L’autrice scriverà poi un articolo, “La storia di Agnese non è una fantasia”, pubblicato sull’Unità nel 1955, per rispondere agli attacchi della critica, la quale aveva affermato che la Viganò stessa si era travestita da contadina nel suo romanzo.

Agnese va a morire (1949)

“L’Agnese va a morire” esce nel ’49 presso la casa editrice Einaudi: siamo in un momento in cui il Neorealismo ha iniziato la sua fase discendente, perchè la sua componente utopistica comincia a colorarsi di elementi pessimistici. L’opera esce in un momento di grande depressione di conflitto socio-politico., ed è come se l’autrice volesse richiamare gli intellettuali a riflettere su ciò che era stata la guerra e raggiungere ,in un certo qual modo, un’unità nazionale. Si tratta di un romanzo tipicamente neorealista: la Viganò stessa era stata una partigiana (con lo pseudonimo di “Contessa”) e il marito, comandante di un gruppo garibaldino, fu catturato dai nazisti.

Nota finale

Nella nota finale dell’opera l’autrice sottolinea che il personaggio di Agnese non è inventato (anche se aveva un altro nome nella realtà).
Quello della Viganò è un romanzo di formazione, anche se quest’ultima avviene in un età più che matura per la protagonista, la quale passa da una concezione di tempo circolare ad una di tempo lineare.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Francesca Bosco

Aspetto il tram in piedi.

Il professore di Storia e Filosofia che sostituivo era figlio del ’68, o propriamente o spiritualmente: ci teneva che andassi con lui alle manifestazioni per la pace.
Probabilmente era cattolico, aveva quella cosa che noi materialisti postmoderni avevamo perso: la fede. Pensava che una forte adesione alla marcia, dal centro di recupero per tossicodipendenti fino alla base militare dell’aeronautica, avrebbe fatto la differenza nelle decisioni politiche internazionali. L’evento fu un fallimento, erano pochi, nessuno si è accorto di loro.
Il disinteresse dei giovani e della cittadinanza a quella manifestazione la trovò una cosa inspiegabile, un po’ come io trovavo inspiegabile il nesso tra una marcia e la pace.
Tuttavia, mi misi nei suoi panni e capii il suo sconforto quando vide fallire un vecchio strumento di coesione e partecipazione iniziando a credere che ormai neanche la guerra ci faceva più orrore.
La sua generazione si lavava le mani dal sangue camminando insieme per strada e facendosi i pom…complimenti a vicenda.
La mia era così disillusa che si lavava le mani direttamente nel sangue.

Faccio sopra e sotto sulla banchina, come se questo gesto potesse far comparire il mezzo.

Ogni tanto dico a mio padre che la sua generazione è stata l’ultima a poter sperare in un futuro migliore del passato. Lui, puntualmente, mi fa notare che malattie, guerra e catastrofi ambientali sono una costante delle vicende umane.
Forse a noi è toccata, in più, la plastica e la crisi climatica.
Più che altro la sua generazione vedeva il futuro, lo sognava e lo immaginava migliore del presente, noi, invece, stiamo sprofondando nei futuri distopici da film anni ’80.
Abbiamo perso la facoltà di immaginare qualcosa di diverso o migliore.

Penso al pazzo di Nostalghia, “qualcuno deve dire che costruiremo le Piramidi, non importa se le costruiremo davvero”. Qualcuno deve dire che una passeggiata fino ai confini di una base dell’areonautica porterà alla pace, non importa se non succederà.

Faccio un profondo sospiro e decido che il tram sta arrivando.

Stasera tornerò a casa, mi toglierò i vestiti cuciti dai bambini birmani, farò una doccia fredda per risparmiare il gas, la farò in fretta per prepararmi all’emergenza idrica; mangerò del cibo che sa e contiene plastica e vedrò un film su una piattaforma streaming internazionale che non paga le tasse nel mio Paese.

Chissà se c’è Fuga da New York di Carpenter.

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di Apolae

Illustrazione di Davide Dade Bertaccini


Il meta viaggio dei mezzi sguardi all’interno del più grande viaggio sui mezzi ingombri, ebbe inizio perché la signorina occhi-azzurri-sporgenti mi indicò, irritata, con le french fresche d’estetista e il bracciale tintinnante. Con quell’unghia puntuta e policromata intendeva comunicarmi, senza mezzi termini, che dovevo tener su la mascherina anche io, come facevano tutti gli altri: «Faccia la cortesia!».

Quell’occhiuto stizzire incontrò il debole annuire di anziano occhi-castani-gonfi, che pur senza fiatare aveva stampata lampante, nella mezza porzione di faccia, un’ unica frase da aggiungere: «E che siamo noi, scemi?». Il tutto mentre me ne stavo appollaiato sulla sbarra gialla dello spazio per disabili, mentre la mamma occhi-verdi-rotondi bisbigliava con gli sguardi cauti alla bimba occhi-castani-piccini: «Hai visto, amore, che signore cattivo?» e la tirava piano a sé, col braccio intorno alla vita, qualche centimetro più lontana dalla mia malvagità.

Dunque, tirai su la chirurgica logora, tenendo la destra aggrappata al corrimano perché l’autista occhiali-da-sole aveva il piedone pesante e già due volte avevo rischiato di sbattere contro il giovane occhi-rossi-larghi, tuta sportiva e cuffiette, divorato dallo schermo del telefono e pertanto ignaro: altrimenti sai che anatema romanesco ciancicato mi avrebbe lanciato contro, invocando i miei avi.
Senza contare che la tipa occhi-azzurri-sottili era proprio dietro di me e, manco il Baresi di Usa ‘94, mi marcava strettissimo, attaccata quasi alle caviglie: se le fossi andato a urtare anche solo con il malleolo, si sarebbe affannata a darmi del maniaco, invocando sicuramente fallo da rosso.

Quella mattina nel fondo del 36 era tutto uno schiamazzo, con una cricca di pischelli occhi-vispi svaccati nell’ultima fila di posti a scambiarsi battute che capivano solo loro per prendersi in giro – «Leo baitalo prima di failare, nabbo epico!» -, accompagnate da sguaiate urla, schiaffi su colli già viola di succhiotti e il tutto davanti alla signora occhi-neri-stanchi rimasta in piedi, storta e ferma, con le buste dell’alimentari appese alle dita che piano piano assumevano sempre più il colore di quella melanzana che spuntava tra uno yoghurt e un Findus.
Giuro che l’avrei fatta sedere, ma ero in piedi e in bilico a rischio ammonizione.

Di fronte a me occhi-neri-sottili guardava curiosa.
Probabilmente era asiatica e abbassava lo sguardo di tanto in tanto giusto per non dare nell’occhio.
Cosa mai stavano scrutando quei mezzi occhi asiatici?
Rimasi col dubbio se intendesse chiedermi aiuto o sedurmi, anche se in effetti riusciva in ambo le cose all’unisono, dacché mi accorsi di averlo barzotto, sebbene più allarmato che eccitato, più incuriosito dalle sue palpebre lente e dalle sue pupille attente.

Magari avrebbe voluto comunicarmi qualcosa, chiedermi di salvarla da una situazione tragica, come in un film di Park Chan-wook… o forse si stava solo svagando a osservare un volto ignoto. Anzi, la mia porzione di volto ignoto, perché tutte le nostre facce erano a metà. Immagini parziali e sconosciute.

Come le storie che intrecciavamo sulla stessa linea del bus fino alla fermata successiva.

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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

“Prove di felicità a Roma Est” è il romanzo di esordio di Roan Johnson, edito da Einaudi nel 2010.

Per chi ama il fascino dei motori un po’ vintage. 

Aurelia direzione capitale. Lorenzo Baldacci, ventunenne inconcludente, pigia nella sua borsa da calcio tutto ciò che può e si trasferisce controvoglia a Roma da un vecchio parente, ex professore di liceo, per recuperare tre anni di scuola in un costoso istituto privato. Trecento chilometri in sella alla sua ammaccata Vespa Primavera del ’79 e un anno pieno di sorprese davanti.

Per chi almeno una volta ha piegato cartoni della pizza. 

Fuori dai cancelli dorati della scuola privata, il mondo odora di periferia e gli strappi, di qualunque sorta essi siano, non si riparano con il filo dorato.  Per arrotondare Lorenzo si ritrova, grazie al compagno Marchino, a fare il fattorino con ragazzi accomunati dalla capacità di finire nei casini e dalla serena accettazione delle sfighe perché di pugni, nella vita, ne hanno presi tantiPorta e piglia e porta: la vita del fattorino delle pizze è come una palla da biliardo che non va mai in buca. Ci sono porte che si chiudono in fretta e altre che trasformano la piccola gioia di una consegna in amori, amicizie e rivelazioni. 

Tutta questione di confidenza.

Una volta presa confidenza con orari, bolle e stradario il gioco è fatto. Complici il fumo coltivato nell’orto del nonno e lo spumante rubato in pizzeria e stanchezza, i ragazzi della pizzeria si ritrovano in fuga per un conto non saldato. Ed è lì, pigiati tutti in una Seicento, che scatta l’alchimia.

Tra Lorenzo e Samia la passione si infuoca sullo sfondo di un doppio tradimento fino a diventare un’ossessione. Ma la giovane marocchina negli anni ha trasformato i divieti del padre in una palestra per sfuggire al controllo dei suoi amanti. 

Il mito di chi cerca fortuna nella grande città. 

Chi lascia i piccoli paesi con l’audacia di affrontare la grande città è, agli occhi di chi rimane, un sistemone al Totocalcio; un eroe dal quale ci si aspettano successo e racconti di mille avventure. Così succede anche a Pomarance, paese di cinquemila anime nella campagna toscana, dove tutti attendono il rientro di Lorenzo.

Per chi vede negli altri gradazioni più intense della stessa difficoltà.

Tra una consegna e una ripetizione, l’esame di maturità diventa un problema piccolo in mezzo a questioni più grandi.

Prove di felicità a Roma Est non racconta solo di adolescenti e stranieri, ma di un mondo di adulti che combatte con le difficoltà della vita e che, nella complessità della grande città, cerca di trovare delle soluzioni. Così lo zio Tarek uscito dal caporalato delle coltivazioni che lavora in un’officina fuori dal raccordo; Marisa, la professoressa precaria di chimica e biologia che al liceo privato riceve meno della metà dello stipendio contrattuale e fa la notte in una guardiola; Ileana, la badante ucraina che si prende cura dell’anziano professore. Ma anche i rom che prima tolgono e poi danno protezione, il preside arricchito, gli sfruttatori del mondo del lavoro. 

Per chi apprezza le narrazioni senza giudizio

In Prove di felicità a Roma Est ci sono figure piene di vitalità che si muovono nella penombra e raccontano di come ci si possa riconoscere nei volti stranieri, di quanto sia contagiosa la gioventù anche sull’orlo di una vecchiaia piena di fobie, di come i destini si rimescolino all’inizio di una nuova stagione.

Roan Johnson parla di ribellioni tentate, mancate e riuscite, di disparità e bilance tarate male. Non giudica, mostra. La sua è una narrazione veloce, ritmata da un linguaggio colloquiale ben condito, con il giusto equilibrio tra malinconia e ironia.