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di Cristi Marcì

Illustrazione di Redazione

Fuori dallo studio la primavera posa il suo fertile sguardo sulle facciate dei palazzi.

Variano dal rosso al blu, dall’arancione all’azzurro e ogni volta mi ricordano Nyhavn: l’antico porto di Copenaghen che io e Lara abbiamo visitato a febbraio.

Le era piaciuto così tanto da costringermi ad appendere alla parete dello studio, accanto al set di mensole per libri, una cornice raffigurante il canale del porto: “così potrai vedere i colori anche nei momenti più grigi” aveva sentenziato col suo solito ottimismo.

Ancora non capisco come tutto sia diventato freddo come quel gelido fiume danese, dove il vento pungente ci entrava perfino nelle ossa.

Senza rendermene conto suonarono al citofono e dando un’occhiata veloce all’orologio da polso mi ricordai dell’unico appuntamento previsto per quel giovedì.

«S-si?» balbettai come risvegliato dai miei ricordi.
«Sono io dottore».

Con fare automatico schiacciai il pulsante del portone di sotto. Subito dopo spostai la chaise longue di pelle nera sopra il tappeto rosso a pelo lungo, tra la scrivania di mogano con sopra la cartella clinica e la parete con la cornice. Infine aprii la finestra per lasciare entrare il primo sole di aprile, perché durante i colloqui mi piaceva contemplare quel mondo di voci e colori che io e Lara avevamo dipinto prima della sua definitiva partenza.

Quella mattina il cielo era limpido e sgombro di nuvole.
«Buongiorno dottore, è permesso…?».
«Oh buongiorno Luce, accomodati pure» dissi a una ragazza di ventotto anni in cura da me da gennaio. Era bruna, adorava i Beatles e aveva due occhi verdi in grado di ipnotizzare chiunque incrociasse il suo sguardo. Non se la tirava affatto anzi, la sua indipendenza nel fare cose veniva spesso scambiata per snobismo e altre stupide etichette che tra una bracciata e l’altra le scivolavano addosso in piscina mischiandosi al cloro. Aveva una sfrenata passione per i romanzi gialli nei quali spesso si immedesimava conducendo indagini che a detta sua la «isolavano dalla banalità del mondo e la facevano sentire viva tanto quanto il nuoto».

«Come hai trascorso il weekend?» le chiesi dopo che si era accomodata sulla chaise longue.
«Sabato mattina sono andata a nuotare, di pomeriggio ho letto mentre di sera ho passeggiato lungo tutta via Libertà con i Beatles nelle orecchie».
«Quale brano hai ascoltato?».
«Now and then».
«Non la conosco…è bella…?».
«Da impazzire, solo che…».
«Cosa…?»
«Mentre l’ascoltavo ho pensato a papà e sono scoppiata a piangere. Mi sono sentita stupida ma è stato più forte di me, sentivo la terra mancare sotto i piedi e ho dovuto appoggiarmi a uno di quegli alberi secolari».
«Ti manca molto vero?».
«Si e ogni giorno che passa sono prigioniera di tutta questa merda che ho qui nel petto» disse con la voce incrinata.

Mentre le prime lacrime iniziavano a rigarle il viso non potevo fare a meno di ripensare a quel freddo che all’insaputa di mia moglie e io stava letteralmente congelando le nostre vite.
Nelle sue vene il calore di una vita si stava pian piano spegnendo e cinque notti dopo il nostro rientro a Palermo se ne andò per sempre.

«Lo hai sognato?».
«No…non ricordo».
«Cosa vorresti in questo momento?».
«Volare in cielo e non sentire più niente» disse alzandosi e affacciandosi alla finestra.
«Pensi che sia la soluzione migliore?» le chiesi mettendomi accanto a lei e guardando la piazza del Teatro Massimo con i suoi bar e i carretti siciliani.
«Al momento si, dottore».
«Se potessi volare cosa vorresti essere?».
«Una mongolfiera» disse con un filo di sole sulle guance e un timido sorriso ai lati delle labbra.
«Ti va di provare?».
«A far che?».
«A volare».

Mi guardò come se a parlare fosse stato un pazzo, eppure l’idea le sembrava tanto bizzarra quanto divertente, così dopo aver guardato tutto l’azzurro possibile rispose: «va bene, ci penserà il cielo».

Una volta distesa guardai un attimo la cornice di Lara e senza aspettare un secondo di più chiusi gli occhi invitando Luce a fare lo stesso e a visualizzare una mongolfiera.
«Sei in piedi su un prato verde dove riposa un pallone colorato ancora sgonfio. Lo vedi per la prima volta ed è lì per te. Lo osservi incantata e ne percepisci tutta la maestosità. Contempli i suoi splendidi colori rincorrersi lungo tutta la superficie, mentre immagini il momento in brilleranno nell’azzurro del cielo.
Il grande pallone riposa sull’erba ma sai che col tuo respiro puoi animarlo, che il tuo calore renderà l’aria al suo interno meno densa, permettendogli di librarsi. Dentro la cesta c’è tutto ciò che ti serve per affrontare il viaggio, tutto ciò di cui hai bisogno per intraprendere il tuo cammino. Adesso Luce, guidami tu».
«Come…?».
«Come ti viene più naturale, lasciati trasportare dalle immagini, dalle sensazioni, dai colori…e guidami, guidaci, come se stessi nuotando: nuotando in aria ecco».
Dopo un attimo di silenzio, che mi fece capire che Luce stava elaborando la richiesta, cosa che percepii dal suo sospiro che, in un attimo, prese come una rincorsa per poi lanciarsi in quota, iniziò a nuotare:
«Eccomi. Mi avvicino e inizio a riscaldare l’aria nel pallone, piano piano assume una disposizione diversa, si dispone quasi per magia proprio sopra alla cesta: è tanto maestoso quanto delicato».
«Cos’altro?».
«Allento le corde, sciolgo i nodi che tengono la mongolfiera ancorata alla terra. Una volta nella cesta vorrei qualcuno con me. Il pallone con i suoi colori è sopra di me, mi sento protetta. Regolo  il calore, i cavi e i nastri si tendono. Sento che è giunto il momento di staccarsi da terra, manca poco ma qualcosa mi trattiene».
«Cosa?».
«Forse devo respirare di più, ma non serve a nulla perché la cesta è troppo carica e bisogna alleggerirla».
«Carica…di cosa?».
«Di pensieri e delle mie paure».

Per un attimo rividi il volto di Lara, mentre come per magia mi ritrovai nella cesta assieme alla mia paziente. Ad occhi chiusi vedevo i suoi occhi verdi puntare il cielo mentre le nostre mani gettavano oltre il bordo materiali ruvidi e pesanti che avevano appesantito le nostre perdite e come d’incanto la cesta si staccò da terra. Fendeva un cielo dove i nostri vissuti assumevano ora la forma delle pagine dei libri e della sua musica preferita ora quella di un porto dove stavo tornando un’ultima volta: dal quale il suo fertile sorriso irradiava di luce Nyhavn.

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di Davide Paciello

Illustrazione di Eleonora Loiodice

Avevo appuntamento con un amico.
Per raggiungerlo dovevo fare il cambio a Termini.
Nulla di particolarmente strano e difficile per questo sono sicuro che nessuno di voi potrà credermi.

Alla fermata Termini la folla, come massa informe, spingeva per entrare, mentre da dentro si spingeva per uscire. Non ero più abituato al contatto con tanti estranei per cui, per prima cosa cercai un’aria dove prendere fiato e capire che direzione prendere.

Per quanto credessi di seguire la via giusta continuavo a sbagliare rischiando varie volte di uscire dai tornelli senza aver fatto il cambio. Nel frattempo la massa mi spintonava dandomi la sensazione di essere trascinato dalle onde. Ero in ritardo e la frustrazione per la direzione sbagliata e l’impossibilità di avvisare mi misero in agitazione.
Dovevo calmarmi, evitando un attacco di panico.
Fu così che mi rintanai in un angolo dove poter respirare lentamente.

Un signore anziano si avvicinò e mi disse: «Mi scusi, si sente bene? La vedo agitato».

Guardo quest’uomo basso con il viso scavato dalle rughe e un cappellino rosso in testa.
Mi ricordava mio nonno che coltivava l’orto e allevava galline.

«Mi sono perso» dico. «Non vengo a Termini da un po’. Devo prendere la linea A direzione Anagnina». «Ah, ma non ci vuole nulla, ti accompagno io, sto andando in quella direzione».
Faccio un cenno col capo e seguo il signore anziano.

Non so dire quanto camminammo né che strada facemmo e ora come ora non saprei in alcun modo ritornare nel luogo dove mi portò.

Il labirinto di corridoi e scale si stava dipanando davanti a me mentre l’uomo procedeva con passo lento, ma sicuro. Restammo in silenzio tutto il tempo e il percorso che scelse era meno affollato, forse per questo notai che uno per volta si stavano aggiungendo degli sconosciuti.

«Siamo quasi arrivati» disse d’improvviso il vecchio. «Guarda» e indicò un cartello dietro me che indicava la direzione per Anagnina «la tua strada va in quella direzione». C’erano una decina di persone con la testa abbassata, che si erano messe dietro all’anziano, mani incrociate all’altezza del pube e gambe leggermente divaricate.
«Noi altri, invece, andiamo di là» continuò il vecchio indicando una porta e come puntò il dito il gruppo si avviò verso la soglia.

Li continuai a fissare mentre il vecchio mi osservava. Ero curioso, ma quando aprirono la porta per entrare sembrava ci fosse solo una stanza buia.

«Ho lavorato tanti anni qui. Conosco molto bene questo posto». Disse il vecchio: «L’ho visto trasformarsi. Posso dire che io, qui, ci abito proprio». Continuo a guardare la porta, ma senza perdere di vista il vecchio. «Vuoi sapere cosa c’è dentro. Se te lo dicessi non ci crederesti. Vuoi scommetterci?».
Annuisco col capo, ma sono catturato da quella porta e non riesco a distogliere lo sguardo.

«C’è un angelo. Ho catturato un angelo».
A quel punto lo guardo perplesso.
Era tutto così folle e improbabile che in quel momento pensai che potesse essere anche vero.

«Visto? Non mi stai credendo. Non mi stai credendo davvero. Tu vuoi vedere oltre la porta, vuoi superare l’uscio. Vai, vai a vedere. Ma non vedrai nulla, per ora».
Corro ad aprire la stanza e trovo uno sgabuzzino con scope e carrelli per pulire.
«Ahahah» ride il vecchio con fare sincero, «Ti prendevo in giro. Vai, non perdere il treno, sei già parecchio in ritardo per il tuo appuntamento con Pablo», disse e mi salutò con un cenno della mano.
«A-arrivederci» balbettai.
«Arrivederci» mi rispose e andò verso la porta, mentre io correvo verso la metro.

Era quella giusta ci ero arrivato sul serio e il treno era in arrivo.
Tuttavia continuavo a pensare: “Come fa a sapere dell’appuntamento? E di Pablo?!”.
La metrò arrivò e si aprirono le porte.
“Dove sono finite tutte quelle persone?”.
Le porte si chiusero, ma non presi la metro.

Corsi indietro e tornai davanti la porta.
Misi la mano sulla maniglia e sentii venire dalla stanza un suono di voci bisbiglianti la stessa cantilena. Aprii piano uno spiraglio e cercai di guardare dentro.
Mi sporsi di più e infilai la testa. Vidi le persone in cerchio intorno ad una sfera bianca. Guardai con attenzione, la sfera era sospesa in aria e una catena scendeva in un pozzo sotto di essa. Mentre guardavo rapito la sfera si schiuse, capii che era fatta di piume. Le persone smisero di vocalizzare. Le ali si dispiegarono, erano tre paia e allora vidi un grande occhio al centro che puntava su di me. Il terrore mi avvolse spezzandomi il fiato. Dalle ali spuntarono mille altri occhi puntati nella mia direzione e anche gli adoratori presero a voltarsi verso di me.
Chiusi la porta e corsi lontano.

Ripresi la strada per la metro.
Era appena arrivata, spinsi per entrare e rimasi fisso a guardare le porte.
Il tempo che ci misero a chiudersi mi sembrò infinito.
Il cuore martellava nel petto. Quando le porte si chiusero vidi alla banchina il vecchio.
Si tolse il cappello e lo agitò per salutarmi.
Il labiale diceva: “A presto”.

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di Guendalina Bruni
Illustrazione di Arturo Di Grazia

Fa appena chiaro, e ho già bisogno di uscire. Mia madre si è alzata, le do istruzioni per il
biberon e vado. Dove non so ancora. Scendo saltando disordinatamente gli scalini, con la
fretta di chi scappa da un edificio in fiamme.

Mi avvio alla fermata, mi infilo svelta nel tram che per fortuna stenta a ripartire.
Lo scatto fulmineo mi costa una fitta al tendine della caviglia sinistra. Mi siedo e pulisco le lenti
appannate degli occhiali con la sciarpa che mi sono appena sfilata.
“Celibi geografici. È questo che siamo”, mi diceva.

Il veicolo si rimette in marcia lentamente, sotto gli occhi rassegnati di un individuo incappucciato: la sua mano, che fino a un attimo prima insisteva sul pulsante di apertura, è ormai caduta a peso morto lungo i fianchi.
Accenno un mezzo sorriso che si spegne subito quando riporto lo sguardo all’interno e scovo la signora
con lo yorkshire seduta davanti a me intenta a scrutare il bottone della mia giacca.
«Buongiorno», intono ardita, con la chiara intenzione di farle notare il suo gesto imbarazzante.
Di scatto i suoi occhi fanno marcia indietro su di me, risponde “buongiorno” e germoglia un
sorriso, le rughe della fronte si distendono; per un attimo sembra che abbia allentato la presa
del guinzaglio.
È solo a quel punto che si sfila il cappello, e sopra l’orecchio destro compare
un’enorme benda, confezionata da mani esperte.

Gare.
Alla fermata della stazione le porte si aprono e il sali e scendi frettoloso provoca uno
spostamento di aria fredda che mi grattugia la faringe. Il tram si è mosso talmente piano che
ho l’impressione di esserci arrivata camminando, la vista dei binari mi si profila davanti come
una carrellata in slow motion; nell’eternità degli istanti passati ad aspettare di ripartire mi
distraggo osservando le persone che camminano maldestre; si aggrappano alla griglia
metallica del recinto ferroviario schivando cadute rovinose sulla neve indurita dal gelo.

Sorprendo la signora fare lo stesso, cerco di indovinare i suoi pensieri, che devono essere
pressappoco uguali ai miei, a giudicare dalla mano che si porta al collo per sigillare il cappotto.
Compie il movimento ruotando la testa verso destra, ed è allora che vedo una macchia si sangue fresco sbucare da dietro alla benda. Il tram riparte e la signora incalza: «Ha una bellissima giacca, non se ne trovano più di così».
«Di così come?»
«Di lana cotta. Era di sua madre?»
«Che cosa glielo fa pensare?» mi sorprendo a risponderle, e d’istinto accarezzo l’estremità a
punta del doppiopetto.
«Il taglio…deve averla comprata negli anni settanta».
Da quegli anni ad ora avranno prodotto sì e no un migliaio di imitazioni, mi verrebbe da
ribattere.
Invece prendo la palla al balzo e insinuo: «Un po’ come il suo cappello».

Les granges
Siamo nella zona rossa della città.
E pensare che fino a sei mesi fa ci venivo tutti i giorni a lavorare. La conosco come i buchi del mio pigiama. Un enorme edificio diviso in svariati settori circonda il parco Jean Verlhac, un tempo centro di spaccio, oggi declassato a vivaio di povertà confinata: una pattuglia mobile staziona davanti all’ingresso principale con lo scopo di mantenere la situazione sotto controllo, impedisce l’accesso ai malintenzionati, lasciando che i tafferugli restino privilegio dei condomini.
“Che si scannino tra di loro”, avrà ben pensato il sindaco. Ci ha fatto costruire anche un nido e una scuola elementare, con entrata diretta dal parco. Una mini città, tessuto impermeabile, premio fedeltà per il suo elettorato borghese. Il più delle volte andavo in macchina, per potermi poi spostare con più agilità quando ci vedevamo all’ora di pranzo: lasciavo i miei colleghi a riscaldare i loro Tupperware nell’unico
microonde del secondo piano, e mi dirigevo al centro commerciale a due chilometri da lì, con la scusa di un acquisto last minute.

Ci vedevamo nel grande parcheggio al primo piano, in uno dei pochi punti dove si potevano vedere il cielo e le montagne glassate dalla neve perenne. Le nostre mani si ritrovavano a frugare impazienti nel sedile posteriore di una delle due auto, sbottonavano pantaloni e camicette alla ricerca di contatto profondo.

Edmée Chandon
«Beh, buon viaggio, io sono arrivata».
La signora abbottona il cappottino impermeabile del suo cane e si dirige verso le porte e quando il tram si ferma del tutto spinge il pulsante e sparisce costeggiando la linea spartiacque tra città e periferia, dove le insegne a neon dei barbieri sgomitano tra Carrefour City e Lidl.
I cassonetti depositati sui marciapiedi intralciano il passo, offrendo perlomeno un appoggio
fortuito contro le cadute innescate dal ghiaccio.
Chiudo gli occhi per spezzare quella sequenza di immagini, gli addii non mi fanno bene.

Centro commerciale Grand’Place
Li riapro e son lì di fronte, ormai sola su questo tram che ha viaggiato lontano, sotto lo
sguardo del capomastro della squadra di pulizia, che mi ha appena scosso dolcemente:
«Signora, capolinea». L’immenso ipermercato a tre piani fa ombra sull’area di manovra del
tram, in coda dietro al suo gemello che sta per ripartire in direzione centro-città.
Le ringhiere del parcheggio, dipinte di rosso come la “C” del logo, scoloriscono lasciando posto alla
ruggine. Sono di fronte a quello che resta di quell’amore vissuto tra sedili umidi, finestrini
appannati e telefonate scomode, finito tra le righe di un messaggio scritto controvoglia.

Ignoro il tram in partenza e procedo per la rampa di accesso, scavalcando la sbarra del ticket.
Fuori ha ricominciato a nevicare, il cielo si è chiuso in un batuffolo biancastro, la signora avrà già
iniziato a spadellare. Io avanzo infreddolita, cercando di compensare il tepore del vagone su
cui ho passato l’ultima ora. Arrivata al primo piano, abbandono la rampa e mi faccio strada
lungo il passaggio pedonale, giù verso il fondo, incontro a quello spiraglio di cielo che
guardavamo dal parabrezza.
Un’auto blu elettrico ha preso il posto della tua.

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di Simonetta Gallucci

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

«Signorina, la fermata non è più qua» mi dice un ragazzo biondo, capelli a spazzola, mentre sto fumando una sigaretta via l’altra sulla banchina.

«Da quando?» chiedo.
«Da stasera».
«Difatti, mi pareva».
Quando sono arrivata, alle sei di stamattina, sono scesa proprio su questo marciapiede dove ora pesto la cicca con la punta delle sneakers.

«Dovete girare l’angolo, è là dietro» continua il ragazzo.
L’uso del “voi” mi commuove. Lo guardo meglio: sulla giacca a vento colore blu autista ha il logo ricamato della compagnia di autobus leader nella tratta degli emigrati come me. Posso fidarmi. 

Il controesodo è già iniziato, siamo agli ultimi giorni di agosto.
Alla luce gialla di un lampione ci siamo soltanto io e una famiglia, padre madre e una bimbetta, a fare da all you can eat per le zanzare.
Recupero dalla borsa delle salviettine repellenti mezze asciutte: me ne passo una sul collo, sulle braccia, sulle caviglie. La madre mi guarda come gli affamati davanti alla vetrina di una pasticceria: «Tenga» le dico «non so quanto siano ancora efficaci, ma ci proviamo».
Lei sorride e fa: «Danke».

L’autobus arriva, consegniamo i bagagli: due valigie alte quasi quanto me per loro, un trolley mezzo vuoto per me. Ho avuto soltanto il tempo di sistemare, in frigo, in freezer e nella dispensa, le scorte di amore edibile per l’inverno: formaggi, carne e pacchi di taralli mezzi polverizzati, ma piuttosto che sprecarli sarei disposta a sniffarmi le briciole.
Non l’ho disfatta stamattina perché ero troppo stanca dal viaggio; avrei voluto farlo più tardi, poi le cose sono andate diversamente e, anziché svuotarla, l’ho chiusa e mi sono rimessa in partenza.

Scelgo il posto finestrino, e vedo le luci di Milano scorrere e sfocarsi man mano che l’autobus prende velocità. Anche i miei pensieri si sfaldano, si fanno liquidi; provo a rincorrerne uno finché riesco ad acchiapparlo: è uno di quei ricordi che, quando tornano, mi fanno spuntare un sorriso di tenerezza.

Abitavo ancora al paese, un posto così immobile che anche una giornata ventosa fa notizia.
Figurarsi un incidente.
Ero a casa della nonna quando qualcuno citofonò con tanta insistenza che lei, alzando lo sguardo da una federa sulla quale stava ricamando le iniziali per il corredo di chissà quale nipote (si portava avanti, anche se il più grande di noi poteva avere sì e no diciott’anni), mi disse: «Questo ha trovato la colla sul campanello. Apri tu, fammi la cortesia».

Era mio zio, col fiatone per la corsa e la rampa ripida di scale che portava su.
«Cos’è tutta ‘sta premura?» gli chiese la nonna.
«Ma’, Michele è andato a sbattere con la macchina».
«Michele chi?» domandai io.
«A chi appartiene?» domandò lei.
«Il figlio di commara Franceschina» rispose a entrambe lo zio.
«Dov’è successo?» chiesi io.
«Quand’è successo?» chiese lei.
«E quante ne volete sapere, tutte e due!» fece lui. «Manco la creanza di darmi un goccio d’acqua, prima».

Scambiai uno sguardo con la nonna e lei assentì con la testa: per educazione, prima di toccare qualsiasi cosa, chiedevo il permesso.
Presi un bicchiere dal pensile e dell’acqua.
«Ti faccio l’orzata» disse a lui, e a me: «Prendi pure i uafer».
Non si capiva la ragione, ma d’estate a casa sua erano immancabili i wafer stantii tenuti in frigo.

Mio zio bevve d’un fiato, prima di continuare il racconto: «L’ho sentito in piazza. Dice che ha preso male la curva degli stramurali e si è cappottato con la macchina».
«E come sta?» chiese la nonna.
«L’hanno portato all’ospedale».

Michele lo conoscevo, suo figlio era un mio compagno di classe.
«Ma è vigile?» domandai allo zio ma, prima che lui potesse rispondere, intervenne mia nonna, con la sicumera dell’anziana saggia che corregge la gioventù: «No! Ha sempre fatto l’ortolano!»

Quell’involontario sketch era passato di bocca in bocca e, a ogni ricorrenza, veniva ripetuto da uno qualsiasi dei commensali: era uno dei copioni condivisi di quella tragicommedia intitolata “memorie famigliari”.

Mi muovo sul sedile.
Provo a chiudere gli occhi, mi forzo per tentare di dormire. Ma nulla; non mi resta altro che giocare con uno degli elastici che porto al polso.
Quand’è successo?, mi chiedo.
Quand’è che sono invecchiati?
Quest’estate, quando sono tornata per i cinque giorni di autonomia che ho prima di mostrare segni di insofferenza, li ho trovati tutti più acciaccati di come ricordavo: mio padre si lamentava per il mal di schiena, mia madre per i denti e la nonna era stranamente inappetente. Non aveva rinunciato però al suo piacere: il vino. Al pranzo di Ferragosto lei era a capotavola, e io al suo fianco; le avevano versato soltanto due dita di rosso allungato con l’acqua: lei mi ha dato di gomito e si è fatta passare la bottiglia, con gli occhi lucenti di furbizia.
Cosa mi sto perdendo?
È una domanda che mi faccio da un po’, ma non l’avevo avvertita mai con l’urgenza di questo viaggio interminabile nella notte, accartocciata sul sedile di un autobus che sta tagliando l’Italia. E che vorrei sorpassasse a sinistra, ma pure a destra, che passasse sopra o sotto, che si mangiasse l’asfalto, i camion, le auto, che bruciasse gli autogrill.

Purché arrivi in tempo.

La prima telefonata l’ho ricevuta intorno a mezzogiorno: era la nonna.
Mi aveva fatto una videochiamata, voleva salutarmi e chiedermi com’era andato il viaggio, ma teneva il cellulare troppo vicino alla faccia, di lei vedevo soltanto la dentiera.
Ho provato a dirle di allontanarlo, ma non capiva, allora mi sono innervosita e l’ho liquidata, dicendole che ci saremmo sentite presto.

La seconda era una chiamata, invece, verso le quattro, da parte di mia madre: «Tutto bene il viaggio?»
«Al solito» le ho detto. È restata in silenzio.
«E voi tutto a posto?». Ancora silenzio.
«Oh, allora?» le ho chiesto.
«Ascolta, la nonna non si è sentita bene».
«Come sta?».
«L’hanno portata all’ospedale.»
E io, ora come allora: «Ma è vigile?»

Ho sentito dall’altra parte un singhiozzo represso: «Fa l’ortolana» e poi, quasi sussurrando: «Torna».

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di Giulia Lievore

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

Entro in metropolitana e il leggero profumo di cotton-candy, che arriva dalla borsa in plastica, scompare. Sono le sei e mezza di sera, tra una settimana è Pasqua e la M1 che passa per il Duomo è da un po’ che non la vedo così piena. Le uova e la cioccolata, fine e marrone, che stanno sopra la mia testa sono sostituite da spalle, braccia e gambe in cerca del loro posto.
Non ci sono facce, a stento ci si guarda negli occhi.

Vedo un palo, mi ci butto, lo stringo forte con la mano destra e subito altre due mani fanno lo stesso. Una sopra e una sotto, devo stare attenta a non sudare o rischio di scivolare e toccare la mano di uno sconosciuto. Al limite della visuale concessami dal cappello in crochet, lo vedo.
È ben più alto di me, il metro e ottanta lo supera di sicuro, da sotto il basco escono dei riccioli biondi e la sua guancia è perfettamente sbarbata. Con la spalla gli tocco l’avambraccio che è morbido e soffice avvolto all’interno di un coprispalla lungo e squadrato color verde menta.
Potremmo essere una bella coppia, penso.

Con quel braccio mi cinge, mi protegge dagli urti degli sconosciuti, mi offre una delle sue cuffiette e ascoltiamo insieme un album tutto fronzoli e musichette di John Mayer fino a scendere alla nostra fermata. Prima di arrivare a casa ci fermiamo a comprare una bottiglia di vino,  l’indiano del mini market ci saluta per nome e ci augura una buona serata. Lui pela le patate e io scaldo l’arrosto, beviamo il vino da calici in vetro e facciamo finta di discutere se passare la Pasqua dai suoi o dai miei, è solo un’altra scusa per fare l’amore, ormai lo facciamo sempre. 

Usa le cuffiette con il cavo, non quelle bluetooth, è un artista e non è mai stato interessato alle implementazioni tecnologiche e alle lunghe file fuori dagli store minimalisti del centro. Da qualche anno nel suo comodino tiene un diario dove la mattina, appena sveglio, appunta i sogni che riesce a ricordare. Una volta trasferiti nel cottage ristrutturato che sua zia bretone gli ha lasciato in eredità, avrebbe letto quel diario al nostro primo figlio.
Nello Yorkshire piove spesso ma non mi importa, mi ha comprato degli stivali in gomma color vermiglio e trovo che la pioggia sia attraente, anche se, ammetto, sono più le volte che la guardo da dietro la finestra. Non lavoro, a quello ci pensa lui, non me l’ha neanche dovuto chiedere, è stato così e basta. Provo a scrivere romanzi che non riesco mai a finire. Bevo in continuazione tazze di tè caldo dolcificato con del miele e scrivo storie d’amore ambientate in Sud America, Italia, Russia, Brasile e Australia ma sono tutte uguali perché parlano di lui.

Qualcuno mi spinge, da dietro, i miei blue jeans sono spessi, devo ancora fare il cambio armadio, ma riesco comunque a sentire una protuberanza che è indubbiamente la zip, con la punta metallica, della patta di un uomo. A fatica, riesco a girare la faccia, alzo un po’ il mento per aumentare la visuale.
È un vecchio, non mi guarda, ignora il risentimento nelle rughe del mio volto; non mi guarda ma il suo pube è appoggiato alla mia chiappa destra. Mi fa ribrezzo, vorrei spingerlo via ma non riesco, con un braccio mi tengo al palo e con l’altro reggo la borsa: l’ennesima candela che mi sono ritrovata a comprare. Per un attimo penso se tirargli uno scrollone con il bacino ma cambio subito idea: il suo sesso sarebbe ancora più attaccato al mio sedere. Riesco a immaginarmi il suo stomaco in subbuglio, sento i suoi pensieri allietarsi grazie al profumo dei capelli che ho lavato prima di uscire. Mi pare quasi di respirare l’odore rancido e acre del suo alito, filo d’aria inquinata che mi sfiora la guancia.
Voglio piangere e alzo gli occhi, grandi e umidi, alla ricerca del mio salvatore, del mio futuro marito. 

Non mi guarda, mi ignora mentre fa zapping tra una storia e l’altra di Instagram, vedo una palestra e delle grosse tette; poi forse un tramonto.

Sarebbe dunque andato a finire così, il nostro matrimonio?

Dopo il primo figlio sono più sola di prima, il cottage è troppo grande da pulire e oltre alla casa e al bambino devo badare ai cani, l’ho pregato di non prenderli ma l’ha fatto comunque. Mai una volta che li porta fuori lui. Gli stivali in gomma hanno smesso di essere allegri nel loro rosso vermiglio ma sono costantemente ricoperti di fango, scuro e grumoso. Dormiamo in stanze separate e ci incrociamo solo la mattina per la colazione, sembra una casualità ma non lo è.
Mi sveglio presto per salutarlo e, anche se continuo a indossare il pigiama, mi sistemo viso e capelli come se dovessi uscire anch’io.
La sera, a cena, non c’è mai.

Siamo vicini solo quando abbiamo ospiti, mi bacia spudoratamente davanti a tutti, mi cinge il bacino da dietro mentre taglio generose e geometriche fettine di filetto alla Wellington, il suo preferito. Una volta salutati gli amici, mi ritrovo nuovamente sola a riempire la lavastoviglie.

Scopiamo una volta al mese, quando invito la mia migliore amica a passare con noi la domenica.
Lei non ha figli, si sporge sul bancone in marmo dove lui sta riempiendo bassi e pesanti bicchieri di Bloody Mary, vi posa i seni e i capezzoli le diventano turgidi e abbaglianti, come due piccoli fanali di macchina.

Quando andrà via faremo l’amore, durerà poco e io lo chiamerò mettendo la Y alla fine del suo nome proprio come fa lei. Mi lascia sul letto, macchiata, e va in doccia. Non ho voglia di lavarmi. Sul comodino ci sono dei kleenex, mi pulisco l’ombelico, piego il fazzoletto e lo metto dentro al cassetto.

The next station is Loreto.

Scendo.

Con il secondo marito, forse, andrà meglio.

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Stazione Termini, mezzogiorno in punto.
Il caldo è insostenibile, ma comunque mi trascino all’interno dell’edificio. Dovrei mangiare qualcosa, ma, francamente, non ne ho la minima voglia. Sono ancora frastornato da ieri sera. Vorrei dire che è stata l’anima di Trastevere a stordirmi, ma, oggettivamente, è più probabile si sia trattato delle birre bevute al Callisto.

La testa rimbomba per la sbronza e io mi siedo su una panchina.
Un caffè a portar via nella speranza che mi rimetta al mondo. Do qualche sorsata; comincio a stare meglio: riesco a ragionare.
Il pensiero mi va subito al tabellone delle partenze. Manca ancora un’ora al mio regionale per Jesi. Di lì a casa, poi, ne avrò per altri 20 minuti almeno.

Il mio secondo pensiero è fulminante.
Tasto la tasca anteriore del mio zaino sdrucito e riconosco la sagoma del libro che mi ero portato per “ingannare l’attesa”. L’espressione mi ha sempre infastidito: la trovo irrispettosa. Come se il tempo che ci scava addosso i suoi segni potesse farsi imbrogliare con degli espedienti così ingenui.
Purtroppo, mi ricordo che quel libro l’ho finito durante il viaggio di andata. Niente trucco; niente inganno.

Rifletto sul fatto che non sto leggendo quasi nulla ultimamente. La cosa è abbastanza rara. Sono sempre stato molto disciplinato, e la lettura, anche se da comodino, ha sempre fatto parte di una precisa routine, creata ad hoc per convincermi di dominare il tempo attorno a me.

Ad ogni modo, il libro che mi ha portato a leggere di nuovo dopo tempo è stato La metamorfosi di Franz Kafka. In realtà, la vergogna provata al pensiero di non averlo letto in 23 anni di vita è stata un movente più che sufficiente.

La storia, proverbiale, è semplice e assurda.
Gregor Samsa, un giorno, semplicemente, si sveglia nelle spoglie di uno scarafaggio. Chiuso nella sua camera, a poco a poco, prende coscienza della sua condizione e così fanno i suoi cari. Non c’è accettazione, tuttavia: solo la consapevolezza di un anatema abbattutosi senza motivo su una famiglia borghese qualunque. Gregor muore solo, in mezzo al cibo fetido, l’unico che soddisfi la sua fame di blatta, e circondato dai miasmi emessi dal suo corpo ferito.
La banalità di una tragedia qualsiasi, accaduta ad un uomo qualsiasi, nel modo più assurdo possibile.

Questo libro mi colpisce, o meglio, mi disarma.
Una vita da impiegato, a svolgere il proprio compito, per poi morire intrappolato, inviso a chiunque per una colpa che non si è commessa. La cosa più sorprendente, però, è la lucidità del protagonista. Le nozioni di vita basilari che egli cerca di applicare all’assurdità della sua condizione. Mi torna in mente Don Chisciotte, col suo cuscino usato a mo’ di scudo, sopra una cavallo macilento, eppure convinto di essere un cavaliere. C’è una discrasia dolorosa fra le nostre possibilità e le contingenze in cui ci ritroviamo incastrati, cioè la nostra vita. Kafka lo sa bene, e ce lo sbatte in faccia con tutta l’eleganza di una piroetta prima del fendente decisivo; un inchino dopo lo sparo dritto al cuore. Guardo in basso: sull’orologio sono le 12.42. Il tempo è volato. Forse anch’io, come tutti, sono riuscito a ingannarlo per davvero. Corro al binario trafelato. Salgo nel vagone circondato da uomini in camicia e giacca, a tracolla una ventiquattr’ore. Me li immagino come rumorosi scarafaggi che ticchettano con le zampe sul sedile e si barcamenano per stare in piedi. Davanti il dovere, dietro pure: troppo concentrati su uno scopo per capire che non dipende da loro il fatto di volerlo raggiungere.

In realtà, non credo di essere completamente diverso da loro. Mi sento, però, avanti di una mossa: se dovessi svegliarmi in quelle condizioni, sarei in grado di accorgermene, ma non farei il minimo sforzo per cercare di capire.  

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Domenica pomeriggio, stazione di Bologna centrale.

Sono arrivato con una mezz’ora di anticipo.
Non mi era mai successo.
Trascino la valigia fino alle panchine davanti all’ingresso e mi siedo.
Accendo una sigaretta.

Sono stanco di scrollare, stanco di riempirmi di informazioni sbrigative su argomenti che non mi interessano ma che il mio feed seleziona, senza alcun criterio apparente.
Decido di alzare lo sguardo e concentrarmi su ciò che ho davanti.
Mi disintossico dalle mie brutte abitudini: per farlo non ho niente di meglio da guardare che la facciata della stazione di Bologna, quella che immette su Piazza Medaglie d’oro.

Ho sempre pensato che le stazioni italiane fossero anonime.
Non sono mai stato un grande fan dell’architettura del regime.
A parte ciò, ho sempre ritenuto le stazioni dei non-luoghi, dei punti di passaggio per chi arriva e chi parte; un ponte obbligato fra la macchina e il treno da prendere e fra il treno arrivato e la macchina che porta a casa, nel migliore dei casi.
A volte, c’è l’autobus ad aspettarci.

Ad ogni modo, penso che forse la stazione ha qualcosa da dire, che forse un po’ di vita la spendiamo anche lì, senza accorgercene, correndo dietro ai ritardi, quelli nostri e quelli del mondo.
Penso a un libro bellissimo, che ho comprato proprio qui a Bologna.
L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio.

Murakami descrive le vicende di Tsukuru, che cerca di fare pace con un passato che ha ignorato per tanto tempo, ma che lo ha segnato per sempre. Come spesso accade, è una donna a costringerlo a guardare nell’abisso. Un po’ per gioco, lui ripercorre la sua vicenda, dalla spensieratezza del liceo alla danza dei primi anni di università, a braccetto con la morte, ammaliante più che mai. Ricordo un unico filo conduttore: le stazioni. Tsukuru ha sempre voluto costruire stazioni e finisce per farlo davvero. C’è una necessità impellente di ordine nella sua vita, c’è sempre stata, e la forma peculiare di questa esigenza è il non-luogo della partenza e dell’arrivo dei treni. Fra le file dei binari e i guasti alla linea, però, c’è spazio per l’armonia. La bellezza come un effetto collaterale che solo Tsukuru riesce a vedere. L’incolore Tsukuru, nel suo pellegrinaggio verso una pace persa tanto tempo fa, alla ricerca di una motivazione per un trauma tanto crudele quanto insensato. O forse solo verso una donna, che col passato non ha niente a che vedere e che potrebbe finalmente dare colore alla sua vita.

Mancano dieci minuti alla partenza del treno.
Alzandomi lancio un ultimo sguardo alla facciata annerita che sto per attraversare.
Percepisco quel velato senso di armonia che c’è nell’ordine. O meglio, sento lo sforzo pulsante dell’uomo che cerca di imporre i propri orari e le proprie necessità a un universo fatto di incroci e ritardi, davanti ai quali possiamo solo chinare la testa, ascoltando la voce metallica che ce li annuncia. Apprezzo per la prima volta l’accidentale bellezza del passaggio e dell’attesa, della corsa al binario e del caffè al bar della stazione, magari per salutare un amico, anche lui risucchiato in questo frenetico ambiente.

Penso che penso troppo e, di questo passo, finirò per essere in ritardo anche stavolta.
Afferro la maniglia del mio trolley e scendo le scale che portano al corridoio sotterraneo. Il binario è il numero 4; il tragitto si allunga per una cinquantina di metri. Salgo le scale e vedo una fila di persone in attesa sulla banchina. Mi domando se anche loro colgano l’armonia del luogo in cui si trovano; se si rendano conto anche loro di essere in pellegrinaggio e che questa è una tappa obbligata. Mi viene da sorridere: ad avere occhi per vedere, nessuno partirebbe.

Si apre lo sportello.
Saliamo tutti, spintonandoci a vicenda verso la prossima stazione.

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Stazione di Bologna Centrale.
Salgo sul solito regionale stipato di pendolari. Oggi la situazione è anche più critica del solito: c’è stata la manifestazione.

In genere non partecipo a questi eventi collettivi, lo trovo ipocrita.
Mi sembra sempre di non saperne abbastanza, di non capire fino in fondo, e sicuramente non ho bisogno di una scusa per uscire a bere e conoscere gente. Ma la questione di Giulia Cecchettin è diversa.

Conosco perfettamente la sensazione di rabbia che mi stringe lo stomaco quando vedo un abuso, di qualsiasi genere. Conosco la rabbia cieca che mi prende ogni qual volta un essere umano viene cancellato, nel suo diritto alla vita, prima che nella sua esistenza fisica.
Sono stato anche io a Bologna a manifestare. Era il minimo.

Sono praticamente steso sul mio sedile sdrucito; sono stanco. Eppure continua a ritornarmi alla mente la parata, e in particolare uno slogan: BRUCIAMO TUTTO.

Cartelloni arsi, oggetti gettati nelle fiamme. Tutto brucia, e mi ricordo di un bellissimo libro.
Il titolo probabilmente gioca un ruolo fondamentale in queste associazioni quasi oniriche: Bruciare tutto.
Non c’entra nulla con Giulia, o quasi.

Walter Siti racconta la storia di don Leo, un prete che lotta contro la propria pedofilia in una parrocchia milanese di provincia. Leo non ha sempre avuto questa forza; una volta ha ceduto. Da quel giorno, mai più un rapporto o un atto impuro, almeno fino all’arrivo di Andrea, con la sua ingenuità di bambino. Almeno fino all’epilogo del romanzo.

Ricordo una metafora in particolare.
A un certo punto, Leo riflette sulla situazione della sua parrocchia e sulla fede dei suoi frequentatori, spesso di comodo. Pensa al sacrificio di Isacco.
Pensa ad Abramo, alla sua dedizione incorruttibile. E infine pensa al momento successivo, all’omicidio mancato. Immagina che Abramo decida di bruciare tutto: l’altare, i propri abiti. Non vuole scagionare se stesso, ma vuole scagionare dio. Preferisce che il figlio lo odi come un padre degenere, pronto a ucciderlo senza motivo. Isacco non deve avere prove per odiare un dio che lo aveva scelto come agnello sacrificale. Il patriarca biblico prende su di sé le colpe del suo Signore, e brucia ogni indizio.

Anche oggi abbiamo bruciato tutto, ma questo gesto aveva la sensazione di un rifiuto. Le fiamme non scagionano il colpevole diretto, non scagionano Filippo. Ma non si può guardare solo a lui. C’è un dio che è necessario incolpare, questa volta. C’è una società di stampo patriarcale da modificare, da bruciare. Non si può più accettare il femminicidio come caso estremo, isolato e sopportabile, di un sistema che insegna il sopruso mentale e fisico come paradigma relazionale. Non ci si può più nascondere dietro gli slogan: “Non è colpa di tutti gli uomini!”; “Tutti gli uomini sono ugualmente colpevoli”.
Bruciamo tutto, anche le frasi di comodo, e guardiamo in faccia una realtà di violenza alla quale ci siamo abituati in ogni contesto, non solo in quello sentimentale. Bruciamo una società costruita sulla diffidenza di genere e su gerarchie imposte in base agli stessi criteri. Bruciamo tutto ciò che ci rende colpevoli, per essere finalmente innocenti.

La voce metallica mi richiama. È la mia fermata.
Mi trascino sugli scalini e accendo una sigaretta, la più buona della giornata.
Penso che sono fortunato, perché mi hanno insegnato ad amare.
Penso che un po’ di cenere, comunque, ce l’ho addosso anche io.
Ma va bene così.
Oggi abbiamo acceso una fiamma. Abbiamo dato a Giulia quella “cremazione” che meritava.
Continuiamo a attizzare i carboni, finché ce ne sarà bisogno.

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di Andrea Leone

Illustrazione di Salvatore Pontone

Di ritorno da Pisa, da un concerto dei Gambiotronics.
Concerto che mi sarei volentieri risparmiato, se non fosse che a questo genere di eventi elettro-etnici-alternativi schizzano alle stelle le probabilità di incontri fruttuosi con l’altro sesso. E che fai, allora? Non ci vai? Ma si sapeva già come sarebbe andata…

Ecco: e dopo tanto sforzo e sudore e zero godere, ecco che è pure cominciata la parte più dura della giornata, quella da solo, nella notte. A parte tutto, mi sento relativamente tranquillo, anche se il solo dirmelo potrebbe tranquillamente scatenare il panico e il ruggito del mio cuore… Mi vedo bene né di inquietarmi né di rasserenarmi troppo: mi mantengo come immobile, una bella statuina. O quantomeno mi sembrava, perché tra questi pensieri al di sotto del pensiero, me ne viene in mente uno, uno assurdo proprio, che sale, sale… sale tra i viscidi intrecci, fino a farsi solo e in primo piano.

(Siamo a una rotonda, intanto, alla quale prendo a destra: i Monti Pisani sono da quella parte, sono la mia direzione).

Ed eccola la stronzata sopra cui m’involo: la Morte deve sapere dove sei per coglierti.
Se sei in aereo la Morte sa che sei lì, conosce il biglietto. Se sei in treno pure. Se sei a lavoro anche. In ospedale è normale che lo sappia. Ma se io fossi sempre in viaggio? se io mi fermassi solo, d’ora in poi, invece di tornare a casa, per fare rapidamente e unicamente benzina, e poi via! Ripartire immediatamente, senza mai una meta

Per mangiare, sì, fermandomi solo ai chioschi per la strada, pagando dal finestrino, inventandomi una qualche scusa, scusandomi per il disturbo… E per dormire? Beh, l’importante è NON METTERE I PIEDI A TERRA. Come un barone rampante… Per qualche strana legge fisica ancora mai comprovata, considerando una velocità media annuale, comprese le soste (meglio se invisibili dal cielo), di forse 10km/h, si potrebbe davvero pensare di vivere intanto quanto la macchina. Poi cambiarla, e così via, per l’eternità, o almeno fin quando la criogenesi non abbia fatto passi da gigante, tanto da non essere più fantascienza…

Tutto questo avveniva nella mia mente, mentre la macchina e il mio assopito senso dell’orientamento mi avevano gettato totalmente fuori strada; ed ora mi stavano conducendo per una redola di campagna, sterrata, tutta devastata di buche. Buche assai fonde, come di enormi tentacoli che si fossero abbattuti di punta sul duro terreno estivo. Formando enormi crateri. Tenevo d’occhio il cruscotto, conscio che lì, alle brutte, ci sarebbe stata un’arma da usare (la solita): una boccettina di EN (sempre a portata di mano).

Cercavo, adesso, in mezzo allo sballottamento generale, il modo di invertire la rotta. Ma la strada era stretta, di poco più larga di una macchinetta come la mia. Niente spiazzi laterali, nessun modo insomma di fare manovra. Ingranare la retro? Troppo rischioso, impossibile il solo pensiero di ribaltarsi nel campo sottostante… No, meglio proseguire. Di certo più avanti c’è uno slargo, qualcosa per farla questa maledetta manovra e uscire da questa maledetta T che di sicuro era indicata, maledettissimo me… Calmo, calmo… Vedrai che con una bella manovrina si sistema tutto.

Più avanti, sulla destra, nel campo sottostante, un casolare abbandonato, senza il tetto, affogato da un esercito di edere appena screziate dalla pallida luna che ancora non avevo notato, ma che a guardarla non è che prometta bene, a guardarla… Buono, buono cuore…

C’è una curva più avanti. Alla mia sinistra un muro, un muro di mattoni, che più avanti stonda e scompare insieme al viottolo, spalancando d’improvviso su un buio tale che i fari dell’auto si limitano a indicare più che a illuminare.

(Ma dove cane sono finito? Che c’è ora? Che c’è?!)

Ho già ormai la mano sul cruscotto…

Dietro la curva, immerso nella più nera oscurità, più in basso, i lumini: centinaia di lumini occhieggianti, che ondeggiano.
La fine della strada, senza uscita, senza scampo.

Un cimitero.

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di Laura Bortot

Illustrazione di Margherita Martini

Però se immagino tutto, proprio tutto, nei minimi particolari, poi non succederà nulla di quello che desidero, la realtà prenderà un’altra strada, oppure non ci sarà poesia…

L’aveva vista subito, seduta in treno accanto al finestrino, lo sguardo smarrito al di là del vetro su quel binario dove poco prima, nonostante la tettoia, si era rovesciata una pioggia violenta. Le luci tremolavano e annegavano in pozze d’acqua impreviste, lo scalpiccìo consueto moriva a tratti in alvei più profondi e impercettibili correnti sommergevano ruote di trolley in corsa, per poi tornare a spegnersi in piccole infossature che le cullavano fino ad addormentarle.

Percorse il vagone cercando con gli occhi il numero del suo posto.
E sperò di averlo prenotato di fronte a lei.
Non era proprio di fronte, ma condividevano lo stesso piano di appoggio.
Un segno del destino, pensò.

Sistemò la valigia sulla cappelliera sopra i sedili – che meraviglioso nome, cappelliera, si portava dietro immagini antiche, abitudini e oggetti remoti, senza distinzione di classe, il viaggio come uno sporgersi verso un nuovo orizzonte che, appunto perché ignoto, richiedeva che ci si presentasse al meglio delle proprie possibilità, come quando ci si metteva il vestito buono per andare alla messa della domenica.
E quindi il cappello, segno di rispetto, eleganza, compostezza.

Si era seduto e per prima cosa aveva guardato il proprio riflesso nel finestrino, per fortuna non troppo sudato, scapigliato e confuso.
Poi, spostando uno alla volta gli altri riverberi – ombre, impronte e schegge di luce – aveva individuato il profilo di lei: i capelli raccolti in una coda da ragazzina, il naso irregolare, che si protendeva con una certa impudenza bucando il vetro, la bocca sottile, non sensuale, no, ma con una dolcissima propensione a incurvarsi in un sorriso estemporaneo, sul filo di chissà quale pensiero, o emozione, o ricordo. In quei brevi attimi anche gli occhi sorridevano, eppure lo sguardo rimaneva sperduto, lontano, come incapace di incidere, di lasciare traccia di sé.
Cosa vedeva? Cosa ricordava? Si rese conto di provare un’assurda gelosia, di quelle che lottano contro fughe e vaghezze di chi si ama, vicoli in ombra e albe grigie difficili da leggere. Perché in quegli anfratti potrebbe nascondersi il seme di un desiderio randagio.

Si bloccò. Stava galoppando con la fantasia quando la realtà era una sola: era seduto di sbieco a un metro di distanza da una ragazza che non conosceva e che stava guardando fuori dal finestrino. Punto. Il treno si mosse cigolando. Lo sfondo scuro del binario si dissolse in un bianco lattiginoso graffiato dai profili frastagliati degli edifici, e da geometrie incerte di pantografi e voli trasversali di uccelli, come strappi su una tela sporca.

Ma dopotutto era solo questione di tempo.
Se lui vedeva lei, lei vedeva lui, e quindi probabilmente intuiva la direzione del suo sguardo. Era una conversazione silenziosa quella che stavano intavolando, e poi uno sguardo te lo senti addosso, lo percepisci anche senza incrociarlo. Non voleva essere invadente, indiscreto, la sbirciava quasi di sottecchi, a momenti alterni, solo che quando si posava sul suo profilo rimaneva incagliato, e doveva obbligarsi a scollare l’immagine per tornare sulla pagina di un libro che teneva aperto davanti a sé. E invece di leggere le parole e comporre un pensiero lineare, a un certo punto la vide girarsi, fissarlo intensamente per un attimo, accennare un sorriso. Anche lei sentiva la magia di quella vibrazione silenziosa, ne era sicuro.

E allora, e allora… e allora lui avrebbe continuato a sollevare lo sguardo ogni volta che lei si girava, e a innamorarsi del suo profilo riflesso sul finestrino, e poi magari si sarebbe alzato per andare in bagno e le avrebbe chiesto di controllare le sue cose, per cortesia, e tornato a sedersi l’avrebbe ringraziata e si sarebbe informato sulla sua destinazione, e il discorso sarebbe caduto inevitabilmente sugli studi che stava facendo, e anche lui avrebbe raccontato di sé, dei suoi sogni, dei suoi progetti, e le avrebbe domandato se ne avesse anche lei, di sogni e progetti, e a un certo punto avrebbero riso e si sarebbero divertiti a immaginare qualche follia per il futuro, e lui si sarebbe reso conto che non sentiva più il bisogno di risultare interessante, o misterioso, perché chiacchieravano ormai sereni e disinvolti, lei sempre un passo indietro, senza svelarsi troppo, lui appena un po’ più curioso; e avrebbero cominciato a parlare di come stavano in quella città in cui studiavano, che non era la città in cui erano cresciuti, e magari non era neppure la stessa città in cui studiava lui, ma pazienza, sarebbe sceso comunque con lei alla stazione, facendo finta di essere arrivato e di dover prendere un autobus per andare all’appartamento che condivideva con altri studenti, e siccome era buio le avrebbe chiesto se si sentisse tranquilla ad andare a casa da sola, e lei avrebbe detto di sì, con un altro di quei suoi meravigliosi sorrisi e lo sguardo che scivolava di lato, e allora lui le avrebbe detto che forse potevano vedersi per un aperitivo uno di quei giorni, e lei avrebbe detto sì volentieri, e quindi lui avrebbe dovuto prendere un treno per arrivare in tempo all’appuntamento, e sarebbero stati seduti a un tavolino a parlare, e avrebbero bevuto più di un aperitivo, e si sarebbero visti ancora, sarebbero andati al cinema insieme, e lui a quel punto le avrebbe confessato che studiava in un’altra città, non lontana, questo no, venticinque minuti di treno, e lei sarebbe scoppiata a ridere e gli avrebbe dato del pazzo, e allora… allora lui le si sarebbe avvicinato piano piano, e con l’indice le avrebbe scostato una ciocca di capelli sulla fronte, e poi avrebbe dolcemente percorso quel profilo che aveva osservato in treno la prima volta, e le avrebbe sfiorato le labbra, e quasi senza rendersene conto si sarebbero baciati, e un’onda di calore li avrebbe avvolti, e l’attimo sarebbe rimasto sospeso come un aquilone incredulo investito da correnti opposte. E poi il pensiero di vederla due o tre volte alla settimana lo avrebbe svegliato la mattina e addormentato la sera. E avrebbe contato le ore come un ragazzino, avrebbe riempito i vuoti con messaggi brevi, mi manchi, ti stavo pensando, ancora un giorno, vorrei dirti tante cose… E tutte le parole che avrebbe letto in quel tempo senza di lei avrebbero acquisito spessore, la densità della nostalgia, del desiderio. E con l’arrivo della primavera avrebbero fatto lunghe passeggiate lungo l’argine, il sole avrebbe proiettato le loro ombre sul prato e i loro corpi si sarebbero rincorsi per gioco. E camminando vicine le loro mani si sarebbero sfiorate, e poi toccate e poi cercate.

Ma il punto era che lei non si era mai voltata verso di lui, aveva continuato a guardare al di là del finestrino e a smarrirsi in un cielo che gocciolava grigio e informe. Il punto era che purtroppo ormai tutta quella felicità era già stata scritta, e quindi non poteva diventare una storia d’amore, la sua storia d’amore.

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Redazione

Da qualche parte a Barcellona

1902

Dipingere è sempre stato il mio rifugio.
Il solo gesto con cui imprimere sulla nuda tela parole antiche e inafferrabili, che in assoluto silenzio fioriscono al riparo di un quotidiano beffardo.

Una luce brumosa si propaga a quest’ora del crepuscolo fra i viali catalani, scuotendoli di un fremito che ha tutto il sapore di una rivoluzione ormai imminente.
Si posa timida sui volti e i corpi delle più umili vite che lungo le Ramblas cerco sempre di catturare, nonostante la puntuale e cocente sensazione che qualcosa mi sfugga.

Al pari del mio popolo sono esposto a regole e futili dettami che non riesco più controllare, buoni solo a dirottare la creatività verso un precipizio che assomiglia sempre più a un’eterna sepoltura.
I lampioni da poco accesi emanano fiochi bagliori che annichiliscono il volto serale della mia Barcellona. Mentre rivedo gli schizzi della giornata mi soffermo ancora una volta su quella splendida carrozza nera trainata da due grigi sauri.

Si era fermata intorno alle quattro del pomeriggio lungo il viale e un vegliardo di bell’aspetto era sceso da un predellino finemente tirato a lucido. Calzava scarpe che i miei dipinti potevano solo fotografare e un completo nero dal cui panciotto marrone sporgeva un orologio da taschino. I folti baffi grigi, un po’ ingialliti dalla nicotina, parevano ingrandirsi man mano che si era avvicinato al treppiede.

«Torno subito Gabriel» annunciò al cocchiere, che con un rapido schiocco di frusta guidava già i due sauri verso una postazione diversa.

«Sono vostri ragazzo?» chiese una volta giunto al mio cospetto con un elegante bastone da passeggio dal pomello argentato.

«Si senor» risposi un po’ timidamente.

«Permettete?» chiese indicando uno schizzo in particolare.

Porgendo la mia intimità al servizio di quello sconosciuto mi scoprivo curioso e intimorito, mentre un cielo pomeridiano si tingeva un po’ di rosa e un po’ di arancione. La sua concentrazione vagava da un angolo all’altro del foglio esaltando rughe antiche intente a cogliere l’essenza di quanto vi era impresso. La mimica non tradiva alcuna emozione e i suoi baffi anziché rivelarmi qualche indizio coprivano per intero le sue labbra. Con il cuore in gola e un tempo dilatato, percepivo pensieri e fantasie mescolarsi tra loro per poi acquisire tonalità che in quell’istante non riuscivo lontanamente a decifrare.

Alle sue spalle il cocchiere avvolto nel suo mantello e con la pipa in bocca contemplava due bambini avvicinatisi per rimirare con crescente meraviglia i due giovani cavalli. Protendevano le dita verso i loro musi, ignari di tutta la corruzione che dai piani alti del governo Madrileno si stava propagando come un cancro impazzito lungo le arterie di tutta la nazione, portando la città catalana nel baratro della miseria e della povertà.

«Mi piace» esclamò entusiasta.

Sorrisi con discrezione mantenendo una rigida compostezza che ben si addiceva a quel momento per me solenne, ma che contrastava col mio versatile bisogno di carpire l’anima di un mondo ormai accessibile a pochi.

«Come vi chiamate figliolo?».
«Anton de Pereira signore» risposi sollevando la coppola verde a quadri in tweed.
«Seguitemi» ordinò girandosi e battendo la punta del bastone sui sanpietrini.
«Ma signore i miei dipinti non posso…». «Non temete per quelli, potete farne di nuovi» sentenziò dirigendosi con passo claudicante verso la carrozza e con in mano il mio lavoro.

Il cocchiere aprì lo sportello esortandomi a fare il mio primo ingresso dentro uno spazio che fino a quel momento avevo intravisto da lontano a conferma del divario tra me e quel mondo. Una volta preso posto sul sedile di velluto color bordeaux vidi subito il treppiede e il resto dei miei disegni sistemati con dovizia nel baule di quel meraviglioso calesse.

Levatosi il cilindro quell’anziano dai modi misteriosi e delicati ordinò di proseguire lungo il viale alberato per poi dirigerci verso un luogo che avevo già sentito nominare e che non tardò, seppure in maniera tumultuosa, ad alimentare le braci di un fuoco che per nulla al mondo volevo si spegnesse.

Appoggiato al morbido schienale della vettura i suoi occhi celesti si erano posati sulle mie dita, che ingenuamente sfioravano con meraviglia quel tessuto disegnando linee immaginarie che soltanto la fantasia permetteva di scolpire nel loro intimo prodigio.

Ignaro delle forme che iniziavano a prendere i miei pensieri ripensavo al volto di quella ragazza che il giorno prima si era accomodata di fronte al treppiede, mostrando con fare pudico una rara luminescenza: partorita da un sorriso che portava in grembo il seme dell’eternità.

A bordo di quel piccolo mondo, ora in movimento, sentivo nello stomaco un che di primordiale fondersi con il sole pomeridiano e scalciare per venire al mondo in tutto il suo candore.

Fuori dal finestrino un tripudio di gesti accompagnava il nostro silenzio, c’era chi litigava per un tozzo di pane o chi in gruppi, col giornale in mano, commentava le ultime vicende che avevano reso Barcellona la culla della rivoluzione operaia.

Giunti al Paseo de Gracia ricchi borghesi sfoggiavano inorgogliti stoffe e completi, che puntuali attiravano l’attenzione di mendicanti o di giovani fanciulle in cerca di un compagno.

Sotto i loro ombrelli di pizzo bianco ostentavano una decadenza che mal si coniugava con il loro fare civettuolo e che per nulla al mondo, mi trovai a pensare, avrebbe eguagliato l’anima di chi avevo ritratto.

«Siamo arrivati figliolo».

Fuori del finestrino, casa Batllò splendeva in tutta la sua rara bellezza e prima ancora di proferir parola Don Romero Ferreira, questo il nome che avrei scoperto a breve, con gesto celere liquidò ogni mia possibile iniziativa.

«Il vostro è un dono che un treppiede non può sorreggere a lungo, la vostra pazienza un eterno strumento di creazione» disse accennando un sorriso.

Non sapevo cosa aspettarmi, ma sentivo per certo che il ritratto di quella donna avrebbe illuminato il mio percorso al pari di quei trancadìs, che pazienti tessevano la trama di una storia che aspettava solo di essere dipinta.      

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di Simonetta Gallucci

Illustrazione di Francesco Dell’Acqua

Voleva solo scopare. Se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe negato. Tutt’al più, messa alle strette, avrebbe potuto dire che “voleva fare l’amore”. Le calze a rete però tradivano le intenzioni. Non c’erano dubbi: voleva solo scopare.

Era il sei febbraio.
Non me lo sarei ricordata se quello stesso giorno un treno non avesse deragliato.
Alle cinque del mattino o giù di lì un Frecciarossa Milano – Salerno, all’altezza di Lodi, era uscito dai binari. Dodici ore più tardi stavo raggiungendo Porta Garibaldi, uscendo anch’io da un binario: quello della routine. Avevo preso un permesso al lavoro, accampando una scusa. Ero tornata a casa, mi ero fatta una doccia e avevo indugiato nuda davanti all’armadio aperto, per decidere come vestirmi. Ero uscita infilando in borsa la trousse dei trucchi, lo spazzolino e un cambio.
“Ho deciso di andare a fare serata a Torino”, avevo scritto a un’amica, senza specificare il tipo di serata. Arrivata in stazione ero sgusciata tra la folla dei pendolari, esasperati dal ritardo dei treni in partenza. Avevo due sole preoccupazioni: riuscire a partire e tenere ben chiuso il lungo cappotto nero per non scoprire i collant, più da discoteca che da tardo pomeriggio. 

Salita sul treno mi ero tolta il cappotto, ripiegandolo sulle gambe accavallate. Avevo tirato fuori un quaderno dalla borsa. Disinteressata alle cronache dei vicini sulle peripezie per rientrare a casa, appuntavo le sensazioni del momento. Volevo ricordare tutto.
Avevo alzato la testa e sorriso allo schienale davanti a me. Erano passati solo dieci giorni.

«Aspetta…»

«Che c’è?»

«Prometti di non farmi male?»

«Solo se tu prometti che sarai sincera e mi dirai se ciò che faccio ti mette a disagio.»

«Promess…»

Quella “o” era rimasta incollata alle labbra di lui.
In mezzo a Piazza Carlo Alberto, tra i passanti, facevamo gli adolescenti pur avendo entrambi ben superato la trentina. Sfrontati, incuranti degli sguardi, eravamo lì, sotto la statua.
Io cercavo di mantenere una certa distanza con le mani affondate nelle tasche, mentre lui mi teneva per i fianchi. Di tanto in tanto ci staccavamo, io per riprendere fiato e lui per via degli occhiali appannati.

«Ora però devo andare, altrimenti perdo il treno».

«Sei proprio così ansiosa di lasciarmi qui da solo in piazza?»

«Tanto è la tua preferita!»

Gli avevo dato un ultimo bacio.
Lui mi aveva ripresa per la manica e attirata di nuovo a sé.

«Allora ciao».

«Scappa, scappa».

Mi ero incamminata a testa bassa e solo dopo aver svoltato l’angolo, dando un’ultima occhiata indietro, l’avevo alzata portandomi le mani al petto. Ridevo da sola, facevo le linguacce ai bambini che incrociavo per strada. Ero felice.

La voce dell’altoparlante che annunciava l’arrivo a Porta Nuova mi aveva riscossa. Infilandomi il cappotto ero scattata in piedi, pronta a scendere. Ci eravamo dati appuntamento a una vineria di Vanchiglietta.

Ero in anticipo.
Mi ero seduta su una panchina davanti all’entrata, rialzandomi subito dopo. Avevo camminato fino all’angolo della strada e poi ero tornata indietro, contando i passi. Lui era arrivato al diciannovesimo passo del secondo ritorno, scusandosi per il ritardo. Ci eravamo seduti a un tavolino e avevamo ordinato un Nebbiolo, poi un secondo.
Dato fondo al vino ci eravamo avviati verso casa sua. Una volta entrati ero franata sul divano, completamente sbronza. Mi aveva aiutata a togliere il cappotto e fatta risiedere, sfilandomi gli stivali. Avevo cercato di rimettermi in piedi, sbottonando la mia minigonna e i suoi pantaloni. Gli tenevo le mani sulle spalle per non perdere l’equilibrio. Lui mi reggeva cingendomi la vita. Mi aveva spogliata completamente e accompagnata al piano superiore, facendomi distendere sul futon. Aveva cominciato a baciarmi. Io avevo braccia e gambe intorpidite. Mi si era sdraiato di fianco, sussurrandomi che forse era meglio riposarsi un po’. Ero caduta in un sonno profondo.
Lui mi aveva lasciata dormire, poi mi aveva risvegliata leccandomi l’incavo del collo. Ci eravamo baciati al buio. Mi era salito sopra, schiacciandomi con tutto il peso del corpo. A me veniva da vomitare ma, tra un bacio e l’altro, cercavo di prendere fiato e ricacciare indietro il sapore acido che risaliva dallo stomaco verso la trachea. Mi aveva penetrata con gli occhi serrati, continuando a battere e affondare, puntellato sulle mani, con una smorfia sul viso.
Avevo girato la testa e avevo smesso di guardarlo.

Il mattino seguente, quando mi sono svegliata, mi sono girata verso di lui: era di schiena, accucciato da una parte del futon, distante da me. Gli ho toccato la spalla. Si è voltato subito, non stava dormendo. In silenzio è rotolato giù dal letto. L’ho seguito al piano inferiore. Dopo tutte le parole scritte e sussurrate ora, per la prima volta, non avevamo nulla da dirci.

«Vuoi un caffè?» aveva chiesto.

«Sì, grazie.»

Silenzio.

«Non dovresti prendere il treno?»

«Sì, meglio che vada.»

Silenzio.

Ero uscita senza voltarmi.
Il rumore della porta chiusa alle spalle mi era rimbombato dentro. Avevo camminato incurvata per proteggermi dal vento e dagli sguardi, e per nascondere il trucco sfatto della sera prima. Stretta nel cappotto, ricacciavo indietro le lacrime.

Nell’incidente del giorno precedente un binario era stato tranciato e l’altro deformato. Salendo sul treno mi era tornato in mente quel dettaglio. Mi sono seduta, lanciando la borsa sul posto di fianco al mio. Ho visto il quaderno ma l’ho lasciato lì. Non serviva scrivere nulla, avrei ricordato comunque questa giornata in cui, come il Frecciarossa, avevo deragliato, qualcosa si era tranciato e ne ero uscita deformata. Continuavo a chiedermi ossessivamente il perché.

Ed ecco, mentre mi scorreva davanti un paesaggio sfocato, la nitidezza di un pensiero: lui non aveva fatto nessuna promessa.

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di Cristi Marcì

Illustrazione di Anastasia Coppola

Secondo lo psichiatra americano Daniel J Siegel lo stato mentale di un individuo indica la probabilità con cui pensieri ed emozioni possono ripresentarsi tanto nel presente quanto (e soprattutto) nel futuro.

Questi ultimi riflettono due fasce temporali attorno alle quali i propri vissuti possono gradualmente tradursi in convinzioni o peggio ancora in certezze assolute e definitive, limitando così non solo la panoramica del nostro sguardo bensì la nostra flessibilità cognitiva.

Se da un lato il pensiero innesca una serie di processi utili alla formazione di rappresentazioni emotive e cognitive, dall’altro le convinzioni rischiano di sedimentarsi per poi tramutarsi in vincoli di natura normativa, di fronte ai quali il ragionevole dubbio e la messa in discussione non sempre vengono contemplati.

Tra errore e ignoranza

Attraverso le pagine del suo ultimo saggio Gianrico Carofiglio si sofferma sul rapporto sottile che intercorre tra il concetto dell’errore e quello dell’ignoranza, descrivendoli stavolta in un’accezione unicamente positiva e per questo fuori dagli schemi.

Quanto proposto è infatti una revisione di quegli stili e quei modi di sentire che attraverso il volto delle parole possono radicare schemi interpretativi difficili da estirpare e ai quali non vorremmo mai rinunciare.

Se infatti l’abitudine è una cattiva consigliera, la disposizione d’animo ad accogliere le novità dovrebbe essere un esercizio al quale ognuno di noi non dovrebbe rinunciare ma che troppo spesso converge in un immediato rigetto a favore di pregiudizi preesistenti.

Secondo l’autore la presenza di preconcetti già sedimentati può infatti obnubilare il nostro raggio d’azione, impedendo di cogliere le opportunità che si celano dietro ogni “imprevisto”.

Se sbagliare è umano coltivare un atteggiamento che non precluda il volto misterioso degli eventi e delle circostanze quotidiane consente la fioritura di una mancanza pronta a manifestarsi in tutte le sue sfumature: rendendo ciò che erroneamente definiamo ignoranza un ponte grazie al quale raggiungere, per prove ed errori, nuove chiavi di lettura.

Sotto un profilo psicologico ciascuna riga di questo saggio, porta con sé un valore simbolico applicabile in chiave analogica ai più svariati campi del nostro quotidiano.

Lo spirito “shoshin” e la possibilità di sbagliare

In una delle opere più importanti del secolo scorso, il noto psicoanalista Carl Gustav Jung definiva il significato come una lente capace di limitare esclusivamente l’espressività creativa con cui ciascuno di noi si trova a fare i conti giorno per giorno.

Viceversa il simbolo riflette qualcosa di più ampio, indefinibile ed eterogeneo; la cui natura apre nuovi scenari in grado di promuovere a nostra insaputa le più imprevedibili metamorfosi.

Operare un processo di revisione del nostro modo di parlare, sentire e comunicare vuol dire mettere in crisi tutte quelle conoscenze acquisite nel tempo e che nel quotidiano rischiano di atrofizzare una plasticità neurale che al contrario arricchirebbe quanto già custodito nel nostro patrimonio culturale.

Occorre dunque promuovere un atteggiamento flessibile che sia in grado di mettere in crisi quei capisaldi ai quali deleghiamo un potere pericoloso, riponendo certezze assolute che altro non fanno se non definire inconsapevolmente le nostre identità, ma soprattutto i nostri pensieri.

Nel saggio, quello che più colpisce è l’invito, nonché la sfida, a far proprio quello sguardo investigativo grazie al quale ogni conclusione non può che terminare se non con un punto interrogativo, capace di ripristinare un dialogo con sé stessi e con gli altri attraverso cui accogliere l’eterna essenza di una complessità inafferrabile.

Quando il corpo si ribella alle certezze

Sotto il profilo psicosomatico è interessante constatare come il linguaggio quotidiano, proveniente dall’esterno sotto forma di prescrizioni comportamentali e normative, abbia preso sempre più le distanze da quell’intimo dialogo ormai dimenticato.

Le parole, i comportamenti e le attitudini con le quali ci orientiamo nel mondo fanno davvero parte del nostro dizionario?

Quello che comunemente viene etichettato come nevrosi è il risultato di un’omologazione sociale dove l’autentico viene sostituito con il banale e dove l’essenziale non trova posto in quello che è ormai superfluo.

Eppure senza rendercene conto la “logica preverbale” dell’errore risiede proprio nella manifestazione sintomatologica che attraverso il corpo comunica un qualcosa che non ci appartiene e che tuttavia per paura del cambiamento rifiutiamo di ascoltare: etichettandola per assurdo come un pericolo.

Accogliere l’imprevisto vuol dire quindi fare spazio a una dimensione dialogica (in)conscia che altro non chiede se non il ripristino di un linguaggio ormai obsoleto; che in superficie si impregna di trame che lo allontanano dalla propria e autentica narrazione.        

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Stavolta mi sono trattato proprio bene.
Sono persino riuscito a prenotare un posto in business class a un prezzo ridicolo, quasi un premio per tutti i chilometri di ferrovie di stato che ho percorso col culo su un cigolante regionale. La destinazione è Foggia. Meglio: la destinazione è il Gargano, Foggia è la tappa obbligata per arrivarci, l’unica con una stazione di arrivo. Il viaggio è piuttosto breve.
Dovrei cavarmela in tre ore partendo da Ancona.

Il treno si ferma ronzando alla stazione di Pescara e una fiumana di persone assalta lo sportello più vicino, in un’insensata gara a guadagnarsi la prima boccata d’aria abruzzese. Un dettaglio mi colpisce, fra la folla. Qualcuno ha lasciato dietro di sé la scia di un profumo fortissimo. L’odore è delicato ma inconfondibile, come lo schiaffo di una mamma troppo indulgente. Con la scusa di andare in bagno mi avvicino al portellone, sperando di trovare una traccia più persistente. Niente da fare.
Come sospettavo, l’odore si spegne proprio in corrispondenza dell’uscita.
Lo sportello mi si chiude in faccia inesorabile, definitivo.

Torno a sedere disilluso e francamente seccato. Sicuramente quello era un profumo femminile, agrumato e fresco. Non sono mai stato un grande esperto. In genere associo le fragranze alle persone, e le persone ai ricordi, perciò il profumo per me è sempre stato veicolo secondario di sensazioni più forti: la delusione di una ragazza che si allontana; l’abbraccio di un amico in una serata ebbra; il tono perentorio di mio padre prima di andare a teatro: vestiti bene!
Stavolta è l’opposto. Mi resta solo una fragranza ‒ che, com’è ovvio, non riconosco ‒ senza nulla a cui associarla.
È come in Sotto il sole giaguaro di Calvino.

L’ultima raccolta di racconti di Calvino non è finita, ma il progetto rimane geniale: cinque racconti per cinque sensi.
All’appello mancano solo il tatto e la vista.
L’olfatto, non a caso, è il primo: tre storie diverse per la medesima trama. Bisogna trovare una persona di cui si conosce solo l’odore, invertendo la gerarchia sensuale della conoscenza. Poi l’udito, con la storia del re prigioniero della sua corte, e infine il gusto, viaggio culinario in un Messico spietato e tribale, come i templi aztechi e i loro sacrifici umani. Quando lo lessi, mi spiacque molto non poter immaginare come avrebbe fatto Calvino a confrontarsi con gli altri due sensi, soprattutto con la vista. Ricordo altrettanto bene, però, l’impressione suscitata dalle parti concluse. In particolare la prima, sull’olfatto, mi aveva consegnato una frustrazione unica. Dove decadono gli altri sensi, le altre conoscenze, rimane solo una traccia d’odore. Poche distinte note olfattive che costruiscono una personalità di volta in volta diversa, in ogni luogo e epoca, come testimoniano le ambientazioni dei tre racconti. Inutile dire dell’inconcludenza di ogni ricerca.

Mi rendo conto che sono caduto anche io vittima della fascinazione dell’odore. Anche io, di fronte allo sportello appena chiuso, avevo cominciato a ricamare su quelle note una persona fisica che non avrei mai trovato. E anche a trovarla, l’immagine non avrebbe mai soddisfatto l’idea di quel profumo, decisa e spregiudicata. In effetti, si può dire lo stesso per un sacco di cose, ma ormai è tardi per pensarci. Lo sportello si sta aprendo anche per me. Siamo arrivati a Foggia in ritardo (con un regionale non sarebbe mai successo) e mi tocca scendere nella calura estiva del Tavoliere, che un po’ mi ricorda i colori sbiaditi del Messico di Calvino.

Come da rito, appena sceso dal treno accendo una sigaretta.
Il fumo del tabacco ottunde il mio olfatto; si prende tutta la mia capacità di odorare il mondo che mi circonda, di conoscerlo. Poco male però, perché davanti alla stazione posso solo sentire il puzzo dello smog e del piscio che chiazza i muri esterni dell’edificio. Forse, varrebbe comunque la pena di smettere di fumare. Ma poi ci ripenso: i profumi significano ricordi, e i ricordi, specie se belli, sono pericolosi.

Spengo la sigaretta alla bell’e meglio e la butto via sperando che non prenda fuoco il bidone. Devo salire sul bus che mi porterà a Vieste. Anche qui il portellone si chiude, ma l’odore che mi pungola è quello del sudore stantio dei miei compagni di viaggio, al quale io mischio quello del tabacco appena bruciato. Penso che su quell’autobus l’odore agrumato del treno non lo avrei nemmeno sentito. Penso che su quell’autobus la donna del mio pensiero non sarebbe mai esistita.    

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di Jacopo Triggiani

Illustrazione di Matteo de Lucia

Ultima ora di treno. Sono in piedi dalle quattro di questa mattina e forse, dopo un aereo e due autobus, sto per arrivare a destinazione.

Non pensavo che ritornare da Berlino sarebbe stato così complicato, eppure mi sembra di viaggiare da giorni. Ad ogni modo, guardando fuori dal finestrino, seduto sul mio sedile pagato poco “perché-l’ho-preso-un-mese-prima”, ritrovo un senso di benessere.

Ho sempre pensato che i treni fossero un mezzo di trasporto privilegiato, anche più degli aerei.
Oggi me ne sono reso definitivamente conto.

Gli aerei mostrano le cose dall’alto; la vista è affascinante.
Allo stesso tempo, però, tutto è molto innaturale, tutto così distante.
Quel mondo non mi appartiene. Non mi è dato di guardare le cose tutte insieme, con una prospettiva completa, in viaggio come nella vita. Il treno, invece, è come un microcosmo che si muove in un mondo che posso abbracciare naturalmente, col mio fallibile sguardo di viaggiatore. Nelle cabine ognuno vive la sua vita, all’esterno della carrozza, pure. Il treno passa stazioni, paesi sperduti, periferie gremite con parchetti troppo vicini alle rotaie, e nel frattempo trasporta persone attraverso questi scenari. Tutto mi si offre nella sua interezza umana, non prospettica, eppure mi è precluso, con tutto il fascino che questo divieto comporta.

Penso che un autore ha dato corpo alle mie divagazioni: Boris Pasternak nel Dottor Zivago.
Il treno è la promessa di una nuova vita a Varykino per la famiglia del dottore, eppure, prima di tutto, è la macchina che trasporta attraverso il tempo e lo spazio della rivoluzione d’Ottobre. I vagoni sono stipati di storie più che di persone, e ogni passeggero si trova a passare attraverso le macerie della Storia che si sgretola, sotto i colpi di un avvenire più incerto delle idee che lo hanno profetizzato.
È tutto in quel fetido vagone, fra le urla dei bambini e i discorsi sconclusionati di uomini e donne incapaci di capire cosa accadrà. Il dottore sta in silenzio e, quando non riflette, guarda fuori, pensando a Lara.
Il treno è anche il mezzo che ricongiunge il protagonista alla donna che ama più di quella che dovrebbe amare, anche se lui non lo sa. Tutta la vicenda si racchiude nella locomotiva scricchiolante che divide il romanzo in due parti. Il treno è l‘unico mezzo per unire la storia privata di Zivago e la Storia che la comprende, con l’intento di soffocarla.
La Rivoluzione e l’amore aldilà di un unico finestrino che si muove lentamente, fra paesi diroccati e stazioni dismesse.

È la mia fermata, finalmente.
Scendendo gli scalini, comunque, sento che mi dispiace essere arrivato.
Sono esausto, ma mi metto a fantasticare sulla possibilità di una vita trascorsa passando accanto alle cose, troppo vicino per toccarle. Rifletto sulla possibilità di scorgere infiniti scenari, scorrendo via talvolta a passo d’uomo, talvolta in velocità, affidandomi a un conducente di cui non conosco neanche il volto, ma che so capace di portarmi a destinazione.

È inutile, questo treno proseguirà anche senza di me.
Posso solo guardarlo partire. Mi ha risputato nel macrocosmo delle macchine parcheggiate a chilometri di distanza per non pagare la sosta prolungata. Salgo in auto e metto in moto. Non ho per niente voglia di guidare, ma nel mio solitario abitacolo comincio un viaggio fatto di traffico e tensione, senza possibilità di distrazione.
Penso che non posso permettermi un autista.
Poco male: un treno ogni tanto costa meno.