Nero

di Matteo Gozzi

Illustrazione di Domitilla Marzuoli

Me li ricordo bene: un signore di mezza età quasi del tutto calvo e una donna con in braccio un bambino molto piccolo.

Si trovavano alle estremità opposte di un vagone del regionale che prendevo ogni sera per tornare a casa, seduti rivolti verso il centro della carrozza.
Io davo la schiena alla donna, ma li vedevo entrambi: erano inquadrati dalle telecamere di sicurezza e davanti a me c’era un monitor che ne ritrasmetteva le immagini in tempo reale. Lo schermo era diviso in quattro e negli altri due riquadri si vedevano le aree davanti alle porte automatiche.

Saranno state le sei.
Si stava facendo buio e il bambino piangeva. Strillava così forte che quasi non sentivo la musica negli auricolari, ma mi ero imposto di sopportarlo in silenzio. Se avessi espresso in qualche modo il mio fastidio alla madre, che era una giovane donna bella in carne dall’aria nordica e vagamente figlia dei fiori, forse sarebbe stata comprensiva e avrebbe cambiato posto. Forse mi avrebbe incenerito con gli occhi e sussurrato un’offesa piena di vocali sconosciute.
O forse mi avrebbe solo ignorato.
In ogni caso, visto che per calmare il figlioletto le stava provando tutte, non ci avrei fatto una bella figura.

Notai che il signore seduto all’altro capo della carrozza sembrava passarsela molto peggio di me.
Nelle immagini scattose e scolorite del monitor gli si leggeva in faccia un forte disagio: tamburellava con le dita sui braccioli dei sedili e sbuffava di continuo. Sulle prime pensai che gli servisse con urgenza un gabinetto, ma osservandolo con attenzione mi resi conto che il suo malessere cresceva e diminuiva con il pianto del bambino.
Un po’ lo capivo, ma se lui a quella distanza si permetteva delle reazioni del genere, io che cosa avrei dovuto fare?

Le premure della madre non portavano alcun beneficio, anzi, il volume degli strilli aumentava.
Però era sempre quel signore a tenere in ostaggio la mia attenzione: adesso si aggrappava ai braccioli con entrambe le mani, si premeva contro lo schienale, si contorceva. Gli occhi erano due fessure e sembrava in preda a un dolore lancinante, come se gli stessero sfregando una lima tra i due emisferi del cervello.

Di colpò spalancò gli occhi e inarcò la schiena.
Nello schermo vidi un alone nerastro e brulicante allargarsi intorno a lui, acquistare nitidezza e protendersi verso la parte opposta del vagone. Verso la nostra direzione. Verso di me!
Mi alzai di scatto quanto potevo, ma della propaggine oscura che avevo visto nel monitor non c’era traccia.
Del signore invece riuscivo a scorgere soltanto la sommità del capo.

Il bambino urlava ancora a pieni polmoni e nel video il braccio di oscurità avanzava.
L’uomo teneva lo sguardo fisso davanti a sé e sembrava pregustare qualcosa di liberatorio.
Dovevo spostarmi da lì, dovevo far alzare anche la madre con il bambino e correre con loro in un’altra carrozza.
E invece rimasi incollato al monitor, che all’improvviso sprofondò nel bailamme grigio dell’assenza di segnale.

Sentii un alito di gelo accarezzarmi i capelli sopra l’orecchio destro.
Il bambino strillava come se volesse riempire il vagone di rumore fino a farlo esplodere.

Un lieve sobbalzo mi fece perdere l’equilibrio e per poco non caddi: il treno era quasi arrivato alla stazione e stava decelerando. Il pargolo non strillava più e si era messo a scrutare il soffitto con aria interrogativa.
Sullo schermo campeggiava l’avviso «Prossima fermata: Mira-Mirano».

Mi lasciai cadere sul sedile e mi massaggiai il lato della testa infreddolito.
Avevo il fiato corto e non capivo.
A malapena ci credevo.
Dagli auricolari usciva Paint it black dei Rolling Stones e nel video ricomparvero le inquadrature delle telecamere.
Il sedile dell’uomo era vuoto.

Si era spostato di riquadro: era di fronte alle porte.
Aveva in testa una coppola e le braccia distese lungo i fianchi.

«Maybe then I’ll fade away and not have to face the facts. It’s not easy facin’ up, when your world is black».

Guardò in direzione dell’obiettivo come se riuscisse a vedermi e portò l’indice della mano sinistra davanti alla bocca: era meglio che non dicessi a nessuno quello che avevo visto.

Il treno si fermò e lui scese.
Fu parecchi anni fa.