Pulmino Giallo

Il pulmino giallo

di Luca Turci

Illustrazione di Liliana Brucato

Quando i suoi amici tornavano a casa, Carlo rimaneva solo nel pulmino giallo ad aspettare la sera.

In cuor suo sapeva benissimo che se non ci fosse stato quel pulmino giallo senza ruote parcheggiato nel retro del cortile di casa, non avrebbero mai rischiato di andare a trovarlo.
Carlo aveva sentito spesso gli adulti parlare male della sua famiglia e i genitori dei suoi amici non erano da meno, alcuni non si curavano nemmeno di abbassare la voce in sua presenza.
Era come invisibile per loro, anzi peggio, era un essere inanimato, senza emozioni, di cui non darsi tanta pena.

Carlo non sapeva molto dei suoi genitori, a lui non parlavano.
Nemmeno se rivolgeva loro delle domande.
Per esempio non aveva la benché minima idea del perché avessero quel rottame dietro casa, ma in fondo l’importante era che ci fosse, almeno questo andava bene così.

La TV a casa di Carlo era un altro rottame, funzionava sì, ma non bene.
Metà schermo diventava spesso verde e se ogni tanto gli davi delle botte di lato tornava normale.
Altre volte le immagini si rovesciavano e in quel caso l’unico modo per continuare a vederla era tenerla spenta per un po’. Queste erano tutte cose che aveva visto fare a suo padre, tra una bestemmia e l’altra. In fondo, anche lui, qualcosa glielo aveva insegnato.

Un giorno, Antonio, quello che riteneva il suo migliore amico, all’uscita dalla scuola lo aveva invitato a pranzo a casa sua per vedere insieme i cartoni animati. Finalmente Carlo avrebbe potuto guardare Kenshiro e I Cavalieri dello Zodiaco senza doversi mettere a ricostruire i fatti accaduti nei momenti di buco video.
Era felice, non vedeva l’ora.
In quella casa però, quel pomeriggio Carlo ci era entrato e uscito nel giro di pochi secondi.

La madre di Antonio aveva davvero un bel sorriso, ma dopo averlo visto in compagnia del figlio, quel bel sorriso le era come morto sul volto, un giglio bruciato dal napalm.
Aveva posato la mano sulla schiena di Carlo e, senza dire niente, lo aveva spinto fuori e aveva chiuso la porta alle sue spalle.
Con Antonio poi, non ne avevano mai parlato.

Dopo quell’episodio però, ogni tanto, Carlo nel suo pulmino giallo pensava alla mano di quella donna che gli si posava sulla schiena e lo spingeva fuori di casa e l’assurdo è che gli veniva da sorridere, perché nel frattempo pensava anche: ah ecco.
Ah ecco, questo è il tocco di una madre.

La madre di Carlo se ne era andata di casa ormai da anni e lui ne ricordava solo le grida che di tanto in tanto risuonavano ancora nelle sue orecchie. Nonostante tutto immaginava spesso che un giorno entrasse nel pulmino, si guardasse intorno e poi, nello scorgerlo, sorridesse come la mamma di Antonio: ah ecco dove sei.
Ti ho trovato figlio mio.

Dopo che se ne era andata, suo padre aveva passato giorni interi a bere (e bestemmiare) seduto sulla poltrona in salotto. Poi una sera aveva avuto un’idea geniale ed era uscito di casa, si era piazzato sul bancone di un bar e quella era diventata un’abitudine fissa. Se gestori o camerieri non lo avessero cacciato a turno, sarebbe rimasto là anche di notte e la mattina dopo, come la spillatrice, come i boccali, come le sedie o i tavoli, come parte dell’arredamento di quel locale.
Sicuramente, almeno chi ci lavorava, si era abituato a vederlo là e lo considerava ormai tale: veniva messo fuori addirittura dopo la spazzatura.
Ah, già, l’ubriacone. Forse, suo padre, sentiva solo di appartenere finalmente a qualcosa.

O per lo meno questo è quello che pensa Carlo.
Sono anni che non varca il cancelletto pieno di ruggine di quella casa e non mette piede in quel cortile: è rimasto tutto uguale, a parte l’erba alta e i segni di usura, come la vernice gonfia ed esplosa sulle pareti, o qualche tegola spaccata in terra; forse c’è meno tristezza, o un tipo di tristezza diversa, che aleggia nell’aria come un filtro fotografico anni ottanta di Instagram.

Malinconia, sì, ecco la parola giusta. Malinconia.
Perché nonostante tutto, a Carlo, ora, quei tempi mancano e si rende conto che, anche dopo tutti questi anni passati, è ancora quel ragazzino solo che attende la sera dentro un pulmino giallo.
Che attende la notte, i sogni, che tutto passi e si torni a scuola.

Dentro la scuola, dentro il pulmino, dentro il grembo di sua madre.

Tutte le persone, sentendo la sua storia, concludono quasi sempre con: è incredibile come nonostante tutto tu sia venuto su così bene.

Così bene.
Nel sedile in fondo, Carlo guarda dritto a sé e strofina la nuca sul vetro: i suoi capelli raccolgono polvere e sporcizia, ma a lui non interessa. A lui interessa solo tornare indietro, ripercorrere con la memoria il tempo a ritroso, ritrovare i volti dei suoi amici e cercare di capire. Capire se senza quel pulmino giallo che diventava base, nave spaziale, galeone o rimaneva anche un semplice autobus, lo avrebbero accolto O accettato.
Come amico, come essere umano, come loro simile: cosa che i loro genitori non ritenevano evidentemente lui fosse, pensiero con il quale ha dovuto scontrarsi tutta la vita, ogni volta che conosceva persone nuove, fino a riuscire a domarlo.
Ad abituarsene.

Così bene.
L’unica colpa di Carlo era stata quella di essere nato figlio di quei due, due persone sole e tristi, due persone che molto probabilmente avevano avuto bisogno di aiuto e non ne avevano mai trovato.
Due persone che vorrebbe odiare, ma così simili a lui, troppo simili a lui.
Lui che ora non riesce a legare la sua vita con nessun’altra e li comprende sempre di più: le uniche persone simili a lui sulla faccia della terra. Due persone che ormai non ci sono più e gli hanno lasciato quest’eredità così pesante sulle spalle.
E un pulmino giallo.

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