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di Mariangela Romanisio

illustrazione di Anastasia Coppola

Sono il sessantatré, faccio sempre lo stesso percorso, guidato dal solito autista che non mi strapazza troppo e mi dà quello che mi serve per andare avanti. Però mi annoierei, se non fosse per la varia umanità che mi usa e mi calpesta quotidianamente, o mi verga i sedili con scritte ironiche, tipo: “Quanta fretta, ma dove corri, dove vai?…” o con altre non dirette a me.

Sì, sono guidato, ma il lavoro più pesante lo svolgo io, a piano carico.

Non sono mai stato un autobus con la spocchia, io ricevo tutti quelli che vogliono salire, agevolando (sono predisposto) anche gli invalidi e i portatori di handicap, ma certi personaggi mi stanno sulle sospensioni più di altri.

Come quel giovinastro, oggi, che mi guardava in lungo e in largo col labbro schifato e il naso arricciato, di certo pensando di stare su un mezzo inadeguato a trasportare la sua persona. Mentre era lui ad umiliare me, un autobus militante dalla gran carriera, dal motore rodato, che ha trasportato centinaia, ma che dico centinaia, migliaia di persone in salvo da un capo all’altra della città, e spesso a sbafo. Non sono io a puzzare di mio, è gente come lui che mi fa puzzare!

Lui, col suo collo da giraffa bonsai, un cappello con un residuo filamentoso di nastro argentato da uovo di Pasqua, l’aria da borioso tracotante, il tipo di passeggero che non si fa da parte quando chiunque altro si accorgerebbe di dover lasciare un corridoio sulla piattaforma per l’altrui discesa.
Lui, il tipo di passeggero che si fionda sull’unico posto libero, senza fare circolare lo sguardo in cerca di un anziano, una donna incinta, cui il sedile spetterebbe per consuetudine civile.

Sono stato contento per lo strattone datogli da quell’altro nell’occasione di una fermata affollata, proprio mentre l’autista (che combinazione efficace) mi frenava di colpo, così all’arrogante gli si è staccato anche un bottone del soprabito. Ben gli stava!
Come il mio gas di scappamento addosso, quando è sceso, mentre mi girava dietro per attraversare la strada.

Mi piace percorrere il Viale dei tigli, con le fronde che mi accarezzano le fiancate, è una gradevole sensazione.

Lì l’ho rivisto, stasera, nei pressi di un bar, quel collo da giraffa bonsai col gozzo in evidenza, mentre stava con un altro che lo fissava con uno sguardo obliquo, lui e il suo soprabito stazzonato e strattonato, blaterando di sicuro per recriminazioni del suo quotidiano rapportarsi al prossimo.

È capitato a proposito centrare in velocità con una gomma la pozzanghera che gli ha schizzato una scarpa: quello ha emesso un verso sguaiato e mi ha gridato dietro, anche se non mi ha riconosciuto.

So di essere meglio di lui:  c’è più vento di boria in lui che aria nelle mie gomme, di sicuro, che non sono a terra.
Io sono un mezzo di trasporto al servizio altrui, lui è un mezzo uomo che serve solo al trasporto della sua vana tracotanza fra l’altrui deprecazione.

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di
Lorenzo Desirò

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

Il giorno in cui sono guarito è stato quando mi hanno portato in città.

Non fu, però, il bravo dottore di città da cui andammo che mi curò, ma le immagini che vidi nella grande metropoli.
Da circa un anno passavo intere e interminabili giornate da solo, a camminare per quel piccolo rettangolo di giardino che avevo a disposizione. Raramente scambiavo parole con qualcuno.
Nel poco spazio a mia disposizione, in quell’angolo di Terra abbandonato da Dio, ero ossessionato dai miei pensieri “cosa sto facendo?” mi chiedevo ad ogni santissimo risveglio.
«Possibile che sia tutto qui? Possibile che la vita si riduca ad un misero “occupare il tempo”? Possibile che non ci sia niente di più di questo misero “occupare questo spazio”? Possibile che tutto finisca in un attimo? E possibile che questo “tutto” sia una momentanea e insensata occupazione di spazio e tempo?».

Sentivo non solo di sprecare la mia vita abbandonandola ad un quotidiano sempre uguale, ma che una via di fuga da quel nonsense e da quella monotonia pareva non esserci.

Le domande mi assillavano sempre di più, giorno dopo giorno.
Mi sembrava di essere intrappolato in una grande gabbia, mi mancava il respiro e tutto ciò che vedevo intorno a me mi dava un senso di nausea.

Lentamente il mio malessere interiore iniziò ad intaccare il fisico.

Svegliarmi e iniziare la giornata divennero operazioni sempre più faticose. Smisi di fare passeggiate e a mano a mano iniziai a saltare i pasti.
Quelli che vivevano con me, i miei coinquilini, continuavano a ripetermi: «Mangia! Devi mangiare! Lo sai che fine fanno quelli come te?».
Io provai, vi giuro che provai ogni tanto a mangiare con gli altri, ma il cibo non scendeva: si bloccava in gola. Iniziai a perdere peso a vista d’occhio e sentivo una stanchezza sempre maggiore.
La più piccola e banale operazione divenne uno sforzo sovrumano, tanto che per parecchio tempo rimasi nel mio giaciglio senza riuscire a fare nient’altro.
Dopo qualche giorno di stasi totale, venni visitato dal dottore del paese che mi diede delle medicine ma non servirono a nulla se non a farmi sentire sempre più fiacco e stanco. Continuavo a chiedermi “come fanno tutti gli altri a stare così tranquilli? Come fanno a vivere sapendo che tutto ciò che facciamo non ha alcun senso?»

Mi portarono quindi in città, dove, dicevano, c’era un dottore bravo.

«Depressione» sentenziò il bravo medico «Lui è malato di depressione».

Le persone che mi avevano accompagnato dapprima si misero a ridere, poi, dopo essersi ricomposti sbottarono: «Depressione?! Ma come è possibile?! Gli diamo tutto ciò di cui ha bisogno! Ha un tetto che lo copre dal freddo e dalla pioggia e ha anche sempre cibo in quantità! Ha un appezzamento di terra che quelli come lui se lo sognano da altre parti! È libero di fare quello che vuole dalla mattina alla sera e non gli manca nien-te! Fa una vita da Si-gno-re! Depressione … Pff … La vorrei io una vita come la sua!».

Anche il dottore bravo (che chiamano “veterinario”) mi prescrisse dei farmaci ma, come vi ho detto, non furono quelle pasticche a guarirmi ma ciò che vidi quando mi caricarono sul retro del camioncino: schiere di uomini, di esseri umani, accalcati su un mezzo che era grandissimo, lungo e alto e conteneva tantissime persone. Ne conteneva così tante che la gente al suo interno stava stretta stretta e accalcata. Li vedevo correre per prendere quel camioncino enorme. Nel traffico delle vie, spiai le vite degli abitanti della città: gente che correva, che urlava, gente triste ai bordi delle strade, grandi, piccoli, uomini, donne, quasi tutti da soli. Molti sorridevano ad uno schermo. Pochi parlavano. Qualcuno di loro correva per scendere sottoterra. Quelli in superficie erano incastrati in piccoli camioncini angusti, suonavano il clacson e bestemmiavano contro chi avevano di fronte nell’altro piccolo camioncino che sembra di latta.

Mi chiesi a quel punto: “Chissà se anche loro soffrono? Sono come i miei coinquilini che non si fanno domande oppure se le fanno anche loro e nonostante tutto continuano ad andare avanti?
Gli uomini li ho sempre visti come una razza superiore, ma vederli lì, in città, tristi e urlanti tra lo smog, sotto un cielo plumbeo, sotto una coltre di rabbia e odio. Anche loro avranno piccole felicità a cui aggrapparsi, ma in fondo, anche per loro valgono le mie domande: possibile che anche la vita degli umani si riduca ad una mera occupazione di spazio e tempo? Possibile che anche loro non aspirino a niente se non ad avere un tetto che li copra, pasti in abbondanza e una piccola superficie in cui passare il tempo? A loro basta? Loro, che sono così superiori a Noi, quale chiave di lettura hanno trovato per andare avanti? Cosa faranno mai di così grandioso?”

Guardai per tutto il tragitto le loro azioni e i loro movimenti e le loro espressioni. Piano piano uscii dalla città e tornai al porcile.

Rimasi qualche giorno nel mio giaciglio a pensare. Le immagini della metropoli mi scorrevano davanti e rimasi a riflettere.
Arrivai alla conclusione che quella specie così superiore, in fondo non era così superiore.
Anche loro nascono, crescono e muoiono senza alcun motivo. Senza alcun senso. Nel frattempo mangiano, occupano spazio, occupano il tempo e si riproducono.
Sorridono a qualche ghianda di felicità.

Questo pensiero mi fece stare meglio. Ricomincia a mangiare, a ingrassare, a prendere peso. Le domande non sparirono, ma il pensiero di vivere una vita come quella degli umani mi faceva sentire meglio.

Nessuna vita ha un senso.

Neanche quella dei vegani.

 

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 di
Annalisa Maniscalco


Sul 117, direzione Popolo

Oggi è una di quelle giornate da ultima volta. Sarà per via del sole d’ottobre, non si sa mai quanto può durare. È anche un venerdì 13, e l’aria è lievitata, densa d’avvertimenti ma pure di luci succose. Per evitare rischi e rimpianti, rinuncio ai tunnel della metro e salgo piuttosto sul 117, uno di quei minibus elettrici che ogni tanto spariscono dalle strade di Roma, come le blatte d’inverno.

Il bus punta il Colosseo ma poi devia di colpo verso il Celio, passando in una feritoia tra certe mura vetuste e altre che sono solo molto vecchie. A via Claudia — pare sia più antica dell’Appia, con quel suo senso di pietra ineluttabile, gli alberi stupiti e i ciottoli a quattro ruote — sale una ragazzina: dodici anni, forse tredici, una treccia rossiccia sulla schiena, il busto ancora compresso e le gambe invece lunghe, ma immature, con ginocchia sbozzate sotto le calze bianche di non so che divisa scolastica. Batte tre colpetti sul vetro della cabina di guida; l’autista la guarda dallo specchietto e le risponde con un cenno, un pugno chiuso e un pollice in su. Quel gesto è una domanda, forse una consuetudine fra loro due, e la ragazzina risponde a occhi bassi, con un tremito del mento.

Il bus riparte, la ragazzina si siede composta di fronte a me, la cartella sotto il braccio e una custodia nera sulle pieghe della gonna; ma il suo piede destro, nella ballerina di vernice, batte un tempo asimmetrico e convulso.

Alla fermata del Colosseo — che è sempre una sorpresa, quando appare: un miracolo candido e massiccio, solido come certe improvvise decisioni — salgono tre liceali voluminosi, con le cuffie intorno alla gola e gli zaini semivuoti sopra gli omeri.

«Scusa Tommà, come hai fatto a saltarla?» sbotta una ragazza con un libro tra le braccia.

«Oh, senti, non ho fatto in tempo» risponde Tommaso, lanciando lo zaino in fondo al bus.

«Però la sapevi. No?»

Il ragazzo incrocia le braccia, appoggia la spalla a un sostegno e sogghigna.

«E ride! Te lo scordi che passo un altro pomeriggio a farti studiare.»

«Angè» interviene il terzo, biondo e sottile, che non ha smesso di guardarla da quando sono saliti, «l’hai capito, finalmente».

«Ieri, due ore solo sulla Monaca di Monza» si lagna lei, con un grazioso moto di riccioli neri, «e oggi questo ha il coraggio di lasciarla in bianco».

Si guardano, Angelica e il biondo, concordi su un punto e forse, chissà, volendo anche su altri, e l’equilibrio si sposta. Tommaso, che è imponente, sì, ma d’improvviso è anche solo, afferra il sostegno e tende le braccia.

«Ma sì che la sapevo» ammette, buttando gli occhi altrove, eppure tutto teso verso Angelica. E, a sorpresa, cita: «Non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio».

E non è nemmeno il passo più famoso . Angelica, il biondo, io, la ragazzina: lo guardiamo tutti. E Tommaso, ch’era già imponente e ora è tornato anche centrale, guadagna un sedile e si piazza le cuffie sulle orecchie.

A via Panisperna sale una donna, di quelle che possono pensarsi solo con un “Signora” davanti. Disdegna lo zaino di Tommaso con una specie di passo di danza, e bussa — non ha guanti, ma tra qualche giorno li indosserà di certo — sul vetro dell’autista.

«Mi scusi.»

L’autista le mostra il profilo.

«È vero che questa linea sarà soppressa?»

«Sospesa, signò. Da lunedì.»

La Signora si volta, appena sconcertata (il tutto si limita a una curva più acuta delle sopracciglia color ambra) e si accomoda accanto alla ragazzina, che d’istinto ha raccolto le caviglie sotto il sedile e ha raddrizzato la schiena.

E ora guarda fuori, verso via Nazionale, mentre Angelica finge di leggere, il biondo racconta una prodezza in motorino, Tommaso lo contraddice con occhiate scettiche, la Signora si liscia la borsa.

Ma in realtà l’aria è ferma, risentita, color ambra. Finché, davanti al Palazzo delle Esposizioni — un’altra visione in bianco —, la ragazzina si agita sul sedile, come se facesse no con tutto il corpo. Le tremano le dita di risolutezza mentre apre la custodia nera, monta un flauto traverso lucido di cure e d’esercizio, respira a fondo e si avvicina lo strumento alle labbra.

Il bus si ferma a un incrocio. La Signora batte le palpebre; qualcuno — forse il biondo — tossicchia.

E la ragazzina indovina la prima nota. Come se ce la aspettassimo tutti, come la suoneremmo tutti se solo sapessimo farlo. Lunga e pungente, ostinata come un’obiezione, poi sfuggente come un dubbio, infine sofferente: un pianto che squassa il torace. Il suono si divincola fra capriole e rovelli ma alla fine esce corposo e pulito, continuo e affidabile come una promessa, una rassegnazione — un accordo, quasi, se non fosse che ha una voce sola. E pare che non abbia gli anni della ragazzina, ma che riecheggi da sempre tra una finestra aperta e un muro di cinta.

C’è tutto questo, dentro al flauto della ragazzina, e in fondo al suo petto. Ma all’improvviso, a via del Babuino, l’ultima nota si svuota di colpo non appena le porte si aprono.

Nessuno ha prenotato la fermata, nessuno aspetta accanto alla palina. E nessuno fiata, nel bus: soltanto un sospiro metallico spira dalla cuffia di Tommaso, dimenticata sulle clavicole. L’autista fissa la treccia della ragazzina da dietro il vetro, come un pesce dal suo acquario, confuso — eppure, penso, lui è l’unico che sa, e le sta dando tutto il tempo che le serve.

La ragazzina guarda un punto davanti a sé, dentro un vicolo laterale; rabbrividisce, si alza e fa un piccolo inchino. Poi, senza fretta né ripensamenti, scende dal bus e prende un’altra strada.

Lasciando il flauto sul sedile.

Un momento ancora; e, alla fine, le porte si chiudono.