di Denise Ciampi
Illustrazione di Simona Settembre
L’odore di mais riempie la camera della posada, perfino il cuscino e gli asciugamani puliti ne restituiscono la fragranza.
Ho l’impressione di lasciare sulla biancheria un’impronta estranea, una traccia discordante con questi luoghi. Asciugandomi il viso, insieme all’acqua, cerco di depositare sul cotone anche il sogno di stanotte: l’immagine ancora nitida di un uomo che cammina su una strada polverosa barcollando verso di me e che, quando mi raggiunge, focalizza lo sguardo rivolgendomi una sola parola: «Gringa», dice.
L’uomo del sogno non aveva l’aspetto di un indigeno: il sole superava la protezione del cappello a falde larghe colpendo i suoi occhi azzurri, innervati di sangue dall’eccesso di alcol e di polvere. Incrociando il suo sguardo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a uno specchio, uno shock violento mi ha scossa dal sonno.
Scendo nel patio, trovo Luis immerso nella lettura di un quotidiano.
Senza avvisarlo della mia presenza, vado a sedermi anch’io sul divanetto che sta occupando.
Lo vedo recuperare rapidamente il suo ruolo di guida.
Ci siamo conosciuti a Firenze un anno fa, a un convegno organizzato dall’ONG per la quale lavora. Forse, quando mi ha proposto di collaborare a una ricerca sullo sfruttamento delle risorse idriche, neanche lui si aspettava che sarei venuta fin qui.
Abbiamo programmato interviste ad esponenti locali per raccogliere informazioni sulla rete idrica e sulla penuria d’acqua. Oggi però non si lavora, Luis dice che c’è un posto che devo assolutamente vedere.
Ripiega il giornale e mi trascina al mercato della frutta.
Compriamo frutta fresca da consumare in strada, l’uomo dal quale la acquistiamo riempie i bicchieri direttamente da un contenitore pieno di frutti già tagliati. Prima della partenza mi hanno avvertita di non mangiare cose di questo genere se voglio evitare la dissenteria, ma quando Luis mi offre il bicchiere mi trovo ad accettarlo con piacere.
Cerchiamo un colectivo, ne rimediamo uno in pochi minuti.
In questi giorni ho visto girare per il centro di San Cristóbal dei furgoncini piuttosto moderni, questo è un modello più vecchio e la cosa non mi dispiace affatto. Aspettiamo all’interno del veicolo che il mezzo sia al completo.
Osservo i viaggiatori, mentre, finalmente, Luis mi svela dove siamo diretti.
San Juan Chamula: cerco il pueblo, così si chiamano i centri abitati indigeni, sulla Routard.
Colpisce la mia attenzione la foto di una chiesa bianca con la facciata profilata di verde.
“Riti pre-ispanici e sincretismo religioso”: scorro le informazioni sommariamente, mentre il mio interesse si concentra sulle persone intorno a me.
La festa dei colori, gli odori, le voci e, tra le altre, quella ormai familiare di Luis che mi parla di una montagna. Adesso il suo indice mi mostra il Monte Huitepec cercando di darmi dei punti di riferimento: «La chiamano “la montagna d’acqua”, è un monte sacro ai Maya. Ai piedi del Monte Huitepec c’è lo stabilimento della Coca-Cola, proprio sopra una falda che è la principale risorsa d’acqua della città. Lo stabilimento consuma tantissime risorse idriche e gli abitanti hanno acqua un giorno sì e uno no, per di più non potabile. La multinazionale paga pochi centesimi per ogni metro cubo e la gente rimane a secco».
Il colectivo comincia la sua corsa, gli ammortizzatori scassati fanno oscillare i cappelli degli uomini e le grandi sporte delle donne.
Una passeggera si piega a raccogliere un mango che le è caduto dalla borsa, il movimento mette in risalto il ricamo vivace della sua camicetta.
Lungo la strada scendono passeggeri e ne salgono altri.
Dal finestrino vedo una donna con lunghe trecce nere legate insieme da un nastro.
Quando sale sul mezzo mi accorgo che, nonostante il furgoncino in quel momento sia fermo, la borsa di tela che tiene tra le mani si muove.
Prende posto abbastanza vicino a me, ho modo di continuare a osservarla.
Mi attraggono i suoi lineamenti indigeni, che comunicano una quieta fierezza.
La sue mani sono segnate dal lavoro della terra.
Sento un richiamo provenire dalla borsa, la donna vi infila una mano svelando la presenza di una piccola gallina insofferente della sua prigionia.
Insieme al collo della gallina, il gesto della donna ha scoperto anche quello di una bottiglia di Coca-Cola.
L’etichetta della bottiglia di plastica mi ricorda il racconto di Luis, mi viene in mente che lungo la strada mi è capitato più volte di vedere piccoli spacci che espongono lo stesso marchio.
Anche Luis è stato attratto dal verso dell’animale: «La gallina viene con noi a San Juan Chamula», afferma. Resto in silenzio, aspettando che prosegua. «Nella chiesa che visiteremo si compiono sacrifici di piccoli animali. Si tratta di riti indigeni molto antichi, utilizzati per liberare dal male gli ammalati. Hai visto la bottiglia della Coca-Cola?».
«Sì, ma cosa c’entra adesso la Coca-Cola?».
«Anche quella è utilizzata per espellere il maligno. Una volta gli indigeni usavano una specie di grappa, adesso è stata sostituita dalla Coca-Cola: il gas fuoriesce dalla bocca e la persona si purifica. Ma adesso siamo quasi arrivati, ti renderai conto con i tuoi occhi. Un’unica raccomandazione: non fotografare le persone, secondo le credenze indigene quando si fotografa qualcuno gli si ruba l’anima».
Entrando nel pueblo noto un uomo di passaggio: indossa un cappello a falde larghe simile a quello del sogno.
Non riesco a incrociare il suo sguardo, devo limitarmi a seguire da dietro il finestrino la sua figura che si allontana nella strada polverosa.
Scendiamo dal colectivo che già siamo circondati da un gruppo di bambini.
Mi individuano facilmente come “gringa”: «Una foto un peso, una foto un peso…», una ragazzina mi offre una cintura colorata, mentre un bimbo ripete la sua triste cantilena.