Charvolant

di Giulio Iovine

Illustrazione di Elisa Antonietta Daniele


Al primo soffio di tramontana, alle dieci del mattino, lo charvolant partì dalla chiesa sventrata nei dintorni di Lisburn, dove il dottor Pocock l’aveva costruito, e s’incamminò cigolando sui resti della vecchia autostrada, verso sud.
Non pareva altro che un carretto di fortuna con quattro ruote ampie e a raggi di metallo, come una bicicletta d’altri tempi; pure, in quel nuovo mondo dove non c’erano più motori, né benzina, né elettricità, né cibo per i muscoli, lo charvolant era la vita.

Era al traino di tre aquiloni di forma rettangolare, gonfiati dal vento come arterie dal pulsare del cuore.
Il dottor Pocock controllava la vela anteriore e le due laterali con una coppia di leve; al volante, sedendogli accanto, stava Madeline; e al fianco di lei, la vecchia.

La vecchia era un imprevisto.
Madeline si era presentata all’appuntamento con Pocock, come si diceva una volta, con il suo +1.
Per non farla cadere fuori dallo charvolant, Madeline era costretta a tenerle il fianco con il braccio destro.

«Venticinque all’ora», annunciò controllando il tachimetro.
«Fra mezz’ora deve venire la bora da nordest», rispose il dottor Pocock.
«Soffierà per tutto il giorno. Basta e avanza per arrivare fino a Newry».
La vecchia, muovendo in cerchio la testa, disse qualcosa come gn gn blrb gn.

«Quanto ci hai messo a costruire questa chicchetta?», chiese Madeline.
«Poche settimane. Ero bravissimo a montare i mobili IKEA, prima del disastro».
«Fatico a credere che stiamo filando così, solo grazie al vento».
«Credici. La contea di Down è la regione più ventosa del vecchio Regno Unito».
«Se non è culo questo».
«Non posso darti torto».

Lo charvolant, intagliato con amore nel legno, provvisto di ruote di metallo sottile e di un sedile per due, non aveva un chilo di troppo; e correva spinto dalla tramontana che si abbatteva sulle vele anteriori.
Né veloci né lenti, i tre passeggeri attraversarono la contea di Down, verde e umida dopo le piogge di aprile. Al di là delle colline a est, a Madeline pareva di sentire il ruggito del mar d’Irlanda; a ovest, il luccichio del lago Neagh sotto le nuvole. Il vento alle loro spalle gli fischiava gelato sulle nuche.
Madeline dovette mettersi un foulard.

«Manovri male con una mano sola», commentò Pocock.
«Non posso metterle tutte e due sul volante. Mi cadrebbe la vecchia».
«Ripetimi dove l’hai trovata».
«Una casa di riposo abbandonata. I Famelici hanno mangiato tutti tranne lei. Credo perché era chiusa in bagno».
«Non parla proprio?».
«No, poveretta, credo sia demente da molti anni».
Il dottor Pocock guardò i movimenti incessanti della testa e il ciucc ciucc delle gengive sdentate, e quello sguardo che non si posava su niente, e concordò in silenzio.

«A Newry hanno cibo e acqua», disse poi, mentre lo charvolant sobbalzava sopra una buca nell’asfalto. «Ma sono razionati. La vecchia non sarà la benvenuta». «Non possiamo lasciarla morire», ribatté Madeline: «Non è colpa sua se è inerme».
«Non è il momento storico giusto, per gli inermi», riprese Pocock.

La vela centrale si gonfiò all’improvviso per uno schiaffo del vento, e lo charvolant accelerò.

«Un bambino è inerme quanto un vecchio», rispose Madeline «ma se avessi soccorso un bambino anziché una vecchia, non ti saresti lamentato. O sì?».
«Un bambino non ha metà cervello mangiato dall’ischemia».

Mentre Madeline attaccava un pippone sul fatto che la fine della civiltà umana non era una scusa per replicarne i viziacci peggiori e che, anzi, proprio la congiuntura attuale era ideale per dedicarsi con rinnovata cura all’infanzia e alla terza età perché il valore della comunità nello sfacelo eccetera eccetera, Pocock si accorse dallo specchietto retrovisore che avevano alle costole due Famelici.
Grazie al cielo, non molto veloci, per via della fascite necrotizzante che gli aveva mangiato le articolazioni (oltre a bollirgli il cervello dieci anni prima, quando tutto era iniziato); ma comunque Famelici e cioè – per definizione – testardi. Non riuscivano a raggiungere lo charvolant, che ora filava a trenta chilometri l’ora ma gli tenevano dietro, sbracciandosi e urlando, le mandibole orribilmente estroflesse.

Se ne accorse anche Madeline: «Se rallentiamo siamo fottuti».
«Deve venire la bora».

Ma la bora tardava, la tramontana cominciava a singhiozzare e lo charvolant rallentava.
Le tre vele che si rattrappivano alle estremità. I Famelici guadagnavano terreno.
Il dottor Pocock allora chiese a Madeline: «Scusa, reggimi un attimo le vele. Ho un’arma sul retro».

Madeline staccò dalla vecchia il braccio per prendere il controllo delle vele, mentre l’altro braccio stava sul volante. Pocock, che a Lisburn non aveva trovato nemmeno una fionda, spinse la vecchia giù dallo charvolant.
Il suo corpo grasso rotolò sull’asfalto, la testa che si muoveva senza senso sul collo.
I Famelici le furono addosso e cominciarono a mangiarla viva.
La vecchia non parve accorgersene e continuò a dire gn gn blrb gn.
Madeline avrebbe urlato, se non che lo charvolant, con settanta chili in meno e improvvisamente spinto da un soffio di bora, schizzò in avanti traballando e gemendo.
Le sue vele tese e lisce come gusci d’uovo, diretto a Hillsborough, Dromore, Banbridge e infine Newry, in quello che un tempo era stato l’Ulster, e ora era solo Irlanda.
La vita che continua fatica ad avere pietà di quella che si è fermata.

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