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di Rachele Fattore

Illustrazione di Anastasia Coppola

Sono a Trieste per lavoro. Hai tempo per una cavalcata? Ho appena avuto una promozione, ti pago bene. 

Sarebbe stata l’ultima notte.
Quante volte lo aveva giurato a sé stessa. Poi arrivavano le suppliche di un incontro ancora, le banconote e la bicicletta che desiderava tanto per sua figlia.
Così la speranza si allontanava, a braccetto con quella convinzione così labile da finire in un incontro ancora. 

Kadijah guardava il grembiule puntinato di schizzi di patina nera, preoccupata che non sarebbe riuscita a farlo venire pulito. Aveva passato l’intera giornata a lucidare scarpe, a passare la cera in tutte le stanze a cambiare armadi non suoi e ora desiderava solo stendere le gambe accanto alla sua bambina, dopo un bagno pieno di schiuma.
Stava finendo di riporre i detersivi nell’armadietto della lavanderia quando vibrò il cellulare.
Lo ignorò, gettandolo nella borsa. 

«Signora io vado»
«Ricordati di comprare gli stracci».

Kadijah lasciò cadere le parole dietro di sé sulla tromba delle scale, controbilanciando il peso dei  sacchi neri gonfi e maleodoranti. Affrettò il passo verso casa di Serena, una volontaria che ogni tanto le dava una mano con la piccola.
Il cellulare vibrò ancora una volta e quando guardò i messaggi si pentì subito di averlo fatto.  

Hanno trovato Irina in una pozza di sangue sulla Aurelia, l’hanno picchiata. Era incinta nessuna di noi lo sapeva. 

Lo stomaco di Kadijah si contorse in una smorfia gastrica di nausea e dispiacere.
I tempi dei fuochi del mercato della carne, delle cassette bruciate per scaldarsi, delle arterie di periferia erano lontani. La capitale era lontana, ma il marchio di quel lavoro non spariva mai e quel messaggio aveva un tempismo orribile.
Imboccata la strada di casa, una vocinala richiamò dai ricordi:
«Mamma… mamma ciaooo!».
Alzò lo sguardo e vide la piccola Zohra che la seguiva oltre le sbarre dal poggiolo.
«Mamma coiiii».
E lei corse, corse per strizzarla, corse perché era in ritardo.  

Serena sapeva.
I suoi occhi pieni di disappunto si piantarono nella notte di quelli di Kadijah e vi lessero un’inquietudine.
«Tutto bene?» le chiese
«Tutto come sempre. Doccia e poi scappo altrimenti perdo il tram».
«Non mangi con noi?»
«No».
«Mamma racconti tu ‘toria?» le chiese la piccola tirandola per la camicetta. 
«Mamma fa presto, olufẹmi» rispose, sapendo che si sarebbe addormentata sulle gambe di Serena.

Sarebbe stato bello, pensò di nuovo, chiudere quella sera. 
Uscì di casa alla svelta, in lontananza il cigolio del tram che scendeva.
Era una serata ferma ed inquieta, e l’afa toglieva il respiro.

***

Sveva stava rincasando.
La testa pulsava e il tram sembrava non arrivare mai.
L’ennesima seduta dallo psicologo e non era ancora giunta a capire se fosse incapace di trovare persone che non fossero tossiche o se fosse lei ad esserlo per sé stessa. 

«Lei cosa vorrebbe fare?».

Ogni volta quella domanda, come se lei dovesse conoscerne la risposta.
Continuava a rimbombarle nella mente come in una caverna senza via d’uscita.
Ecco. Forse era quello di cui aveva bisogno.
Scappare. Scappare, certo.
Cambiare città, cambiare lavoro, cambiare compagno.

Il tram arrivò puntuale.
Quando salì la vettura era quasi vuota: due adolescenti che scendevano per il venerdì nei locali, il solito vecchio Stella di ritorno dalla pedalata sul Carso e una ragazza africana che aveva l’impressione di aver incrociato altre volte. Profumava di buono ma questo ora le dava solo una grande nausea. 

Sveva continuava a carezzarsi il grembo, come se qualcuno potesse portarle via qualcosa di prezioso.
Lo sguardo, puntato oltre al finestrino, si condensò nel ricordo della sera prima, quando si era chiusa a riccio per proteggersi.
«Ti ho vista mentre uscivi con quelli, puttana…» nemmeno il tempo di rientrare e già la accusava.
«Uscire dall’ufficio per tornare a casa non è un appuntamento Cosimo» disse cercando di stare calma.
«Taci!».

Poi quella furia che ogni tanto gli scattava, le percosse, gli antidolorifici e il trucco per il giorno dopo.
Portò la mano alla guancia come fosse appena successo senza allontanare l’altro braccio.
Il figlio che portava in grembo era suo, non aveva dubbi.
Lui ancora non sapeva nulla ed era certa che lui avrebbe accettato di essere messo da parte.
Gliel’avrebbe portato via. 
Vedeva i suoi occhi ovunque, telecamere costantemente puntate sulla sua libertà.

Il tram iniziò a scollinare, avvinghiato alle vecchie rotaie.
Sveva alzò lo sguardo oltre alla cabina; l’unica consolazione dopo una giornata come quella era il bello di quel ritorno, era l’impressione di tuffarsi nel mare.
La sensazione che prima o poi il tram avrebbe perso aderenza e sarebbe planato oltre al molo anziché darle i brividi la faceva sentire libera. 

Ma anche quella sera il tram venne inghiottito dai palazzi della città, e il senso di oppressione si fece sempre più forte.

***

Kadijah e Sveva.
Discesa al capolinea: nessuna fantasia di strade alternative. 
Sveva aveva sperato fino all’ultimo che quel volo cominciasse, invano.
Kadijah aveva cercato dentro di sé il coraggio di rinunciare al guadagno facile di quella sera, per raccontare a sé stessa la storia della buona notte, invano.
La porta di legno si aprì, cigolando come se avesse le ossa rotte, spalancandosi in un moto improvviso privo di grazia. Laggiù l’aria era ancora più stagnante.
Il mare quieto sembrava covare qualche malanno.
Le due donne si scambiarono uno sguardo, dalle parti opposte del tram, arricciando il naso: c’era puzza di alghe marce.

Kadijah affrettò il passo; prima di ricevere lo squillo doveva darsi una sistemata, passare la crema sul viso e domare i ricci nell’acconciatura che piaceva al suo amante. 
Sveva tuffò il capo dentro alla borsa alla ricerca delle chiavi di casa, quelle che non trovava mai come fosse un messaggio inascoltato. Camminava a testa bassa, con le vene che pulsavano nelle tempie e una nausea sempre più forte.
Camminava, mettendo insieme a fatica i passi, su tacchi troppo alti per la sua stanchezza.
Fu questione di un istante.
Il tram riprese la sua salita faticosa in collina e lei, uscita dalla sua scia, inciampò sulle rotaie.
Poi furono due coincidenze uguali e contrarie: il tacco incastrato e la fretta di una consegna.
Il rider distratto dalla musica e intento a bruciare le tappe nella sua mappa mentale delle consegne, prese velocità appena prima del rosso. Guardava oltre, guardava lontano così che il tempo di reazione si annullò nello scontro.  
Le grida di Sveva frantumarono l’immobilità della sera torbida e malata.
Kadijah, non ancora lontana, si girò e vedendo quel fagotto incastrato sotto alla bici, riconobbe la donna del tram e corse indietro per aiutarla.

Non tutti gli appuntamenti sono destinati ad un incontro“, pensò. 

Sveva urlava di dolore ma non il dolore.
Temeva che Cosimo avrebbe scoperto il suo segreto.
Il rider alzatosi senza grandi fatiche chiamò subito, in un italiano stentato, un’ambulanza.
Sveva invece continuava a stringersi il ventre.
Cercava di sentire i suoi due cuori, li cercava con le mani, tentando di proteggere quella vita che poco prima, sulla poltrona dello psicologo, si sforzava di accettare.
Malediceva Cosimo e sé stessa e mentre malediceva aumentavano le pulsazioni ovunque, come se da un momento all’altro potesse esplodere in infiniti brandelli di infelicità. 

«Il bambino, il mio bambino» sussurrò all’orecchio di Kadijah, accolta dai suoi seni morbidi, mentre tra le gambe avvertiva un liquido caldo.
«Non andartene».
Quando arrivò l’ambulanza i lampioni della città finalmente si accesero e dal mare cominciò ad alzarsi il vento.
Kadijah rifiutò la chiamata in arrivo, poi compose il numero di Serena:
«Non so se rientro per tempo. Per favore, pensa tu a Zohra»

***

Nei mesi seguenti, e quelli dopo ancora non ci furono chiamate di amanti pieni di pretese o occhi immaginari dai quali trovare rifugio.
Non tutti gli incontri sono frutto di un appuntamento e alcuni, inattesi e improvvisi, hanno la forza del vento che porta nuovi semi e nuove consapevolezze.

Kadijah e Sveva non si incontrarono più anche se alle volte a tutte e due scappava un sorriso pensando alla forza di quell’ingranaggio rotto che quel giorno aveva cambiato le loro vite. 

Il tram continua ad inerpicarsi dal mare all’aspra collina che lo domina.
Prima o poi prenderà il volo sopra il mare.  

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Storie e intrecci di vita sul tram 3, vettura num. 1503

di Marcello Manzoni

Illustrazione di Anastasia Coppola

La notizia l’ho appena letta sul gazzettino della mia città, nella terz’ultima pagina, con il rischio che il fatto passi inosservato: vogliono mandare in pensione il tram numero 3, serie 1500, vettura 1503.
Chi sta leggendo magari ha appena fatto spallucce, non considerando come questo evento sia tremendo nella mia vita.

Il tram numero 3 è un eroe vestito dalla tradizionale livrea verde bitonale, con due lunghe panche longitudinali e il decoro del tempo che fu.
Classe 1928, è sopravvissuto ai bombardamenti alleati forse grazie al suo mimetismo di fabbrica.
Nei decenni seguenti, ormai sicuri che non ci sarebbero stati ulteriori bombardamenti, il colore della serie 1500 fu modificato in uno spavaldo arancione ministeriale, ma quello della vettura 1503 rimase inalterato.

Per me il 1503 non è solo un mezzo di trasporto, ma lo considero un amico fidato, ritardatario, ma fidato.
Da bambino lo aspettavo in compagnia di mamma per andare a scuola.
Dodici fermate, e nel frattempo rileggevo i compiti svolti a casa. Con il passare degli anni prendere il tram da solo divenne un simbolo di indipendenza di cui andavo molto fiero.
Alle superiori, le dodici fermate mi occorrevano per fare i compiti dimenticati.
Quando iniziai l’università, servivano solo cinque fermate per giungere alla metro e avere a disposizione così poco tempo, mi permise di porre maggiore attenzione alle persone che vivevano quotidianamente il 1503.

La signora elegante fu certamente la principale habitué.
Al tempo, quando la notai, avrà avuto circa ottant’anni e ogni giorno era vestita con estremo garbo.
Non penso che la signora dovesse effettivamente andare da qualche parte: amava girare per la città e mettersi in mostra per chi saliva, magari inducendo qualche avventore a chiedersi dove una signora di tale eleganza si stesse dirigendo.
Al mio secondo anno di magistrale, di punto in bianco, la signora smise di frequentare il suo salotto motorizzato.
Chiesi tempo dopo a Giuseppe, lo storico manovratore del 1503, se sapesse qualcosa della signora elegante.
Rispose di no e giurò di non ricordare un periodo così lungo senza la sua presenza.
Non la vidi più.

Uno sgradevole personaggio che iniziò a frequentare il 1503 fu un tipo in impermeabile, che soprannominai in seguito “il Toccaculi”.
L’uomo prediligeva gli orari di punta, con i pendolari ammassati e iniziava la sua attività molesta per poi darsi alla macchia.
Divenne noto sulla linea del numero 3 e tenuto perentoriamente d’occhio da Giuseppe, finché toccò le natiche sbagliate e si prese un tacco dodici dritto in mezzo alle gambe.
Giuseppe bloccò il tram e lo lanciò di peso sulla pensilina. Lo vidi altre volte sul 1503, ma restava in disparte, ormai famigerato.

In quegli anni le panche longitudinali furono un invito per rubare sguardi alle ragazze.
Il tipo di seduta faceva il mio gioco e le “maledette” si sforzavano a guardare in ogni direzione, ma mai la mia o a leggere qualsiasi cosa avessero sottomano.
Ricordo quella volta in cui incrociai lo sguardo con una bellissima ragazza mora e lei non distolse lo sguardo.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Mi guardò ancora e fece un gentile sorriso: rimasi così estasiato che persi la fermata e in fondo chissenefrega, dovevo solo seguire una lezione di Archivistica, quindi assolutamente sacrificabile per un ennesimo sorriso.
La ragazza scese poche fermate dopo e io rimasi imbambolato sul tram.
Mi diedi dell’idiota per le successive tre fermate.
Poi scesi e mi diressi alla morbosa lezione, dove non feci altro che rimuginare sul mancato approccio.
Le settimane successive sperai di incrociarla nuovamente e mi capitò persino di scendere alla sua fermata, auspicando in un casuale incontro.
Ma non successe.
Infine, dopo alcuni mesi la vidi salire sul 1503: era più bella di come la ricordassi.
Inizialmente ponderai la possibilità di lasciare che fosse lei a lanciare il primo sguardo, ma già nei due secondi successivi iniziai a fissarla avidamente e con un sorriso ebete.
La ragazza si accorse della mia presenza e ricambiò il mio sorriso con uno dei suoi, meraviglioso.

Ero a un bivio: se l’avessi lasciata andare senza rivolgerle la parola lo avrei rimpianto per tutta la vita.
Appena il posto a fianco al suo si liberò, mi alzai e mi sedetti a fianco a lei.
Le rivolsi la parola:
«Ciao, non so se ti ricordi di me, ma ci siamo visti proprio qui sul tram alcuni mesi fa. Avrei voluto conoscerti già allora e questa volta non potevo farmi scappare l’occasione».
La ragazza mi sorrise ancora più splendidamente e mi rispose:
«Che pensiero carino! Se hai trovato il coraggio significa che Dio ti ha infuso la forza».
«Dio…cosa?» Chiesi istintivamente.
«Sì, Dio muove ogni nostra azione, capisci?».
Attese che annuissi e poi riprese a parlare: « Noi del Sacro Amore di Dio pensiamo che le cose belle che ci succedono tutti i giorni siano frutto dell’amore del Signore».
«E le cose brutte?», domandai, mordendomi la lingua subito dopo.
«Le cose brutte no, ovviamente». Lo disse con un tono piuttosto sdegnato.
Quindi fece una magistrale pausa, degna del miglior Vittorio Gassman e come ricordandosi che Dio la volesse vedere sorridere aggiunse: «Se vuoi puoi venire a un nostro incontro di preghiera».
Non avevo niente contro i ferventi cattolici, ma quella volta rimasi spiazzato, soprattutto perché nei mesi mi ero creato diversi scenari, ma mai niente del genere.
«Guarda ci penso un po’ su…» vile menzognero che non sono altro.
«Ora devo scendere, non posso proprio perdere la lezione di Archivistica, ciao!».
Sì, mi avevano bocciato al precedente appello.
Non l’ho più vista e chissà come si chiamava.
Tempo dopo in televisione guardai uno speciale sulle Bestie di Satana e mi sembrò di riconoscerla, ma non poteva certo essere lei.

Vi sto scrivendo dal tram 1503, con il quaderno aperto sulle gambe, il gazzettino ripiegato e dopo quarant’anni di frequentazione giornaliera sto come nel mio salotto.
Ahimè ancora per poco.

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di
Riccardo Marin

 

Il salto giù dal tram è il momento migliore del mio viaggio mattutino con Samuele; nei due secondi tra quando il mezzo si ferma e quando aprono le porte, tutti i giorni lo guardo e gli chiedo: «Pronto?»
Samu mi osserva, sorride e alza le braccia.
Tutti i giorni quando dobbiamo scendere appoggio un piede sulla banchina, lo prendo per i fianchi e con un colpo di reni lo alzo finché con le dita non tocca il tetto del tram. Quando lo rimetto a terra piega sempre un po’ le ginocchia come ha visto fare nei documentari delle missioni spaziali.
Questa mattina però non riesco a sollevarlo abbastanza. Arriva a pochi millimetri, scalcia, emette un gemito di disappunto e arriva al suolo senza piegare le ginocchia. Si gira di scatto. Segue la Luna allontanarsi per il viale. Poi guarda per terra, e io farfuglio qualcosa. Non siamo pronti a diventare grandi.

Gli accarezzo la testa, e vorrei che qualcuno accarezzasse la mia.
Questo è il momento in cui ci sciogliamo; la sua scuola è proprio davanti alla fermata, e io aspetto il tredici per andare al lavoro.

Aprono i cancelli. Gli sistemo il giubbino. Si guarda le scarpe.

«Ehi Samu devi proprio andare adesso, noi ci vediamo all’uscita.»

Non si muove.

«Samu, mi hai sentito?»

Resta silenzioso, col capo chino.

«Samu, tutto bene?»

Alza la testa. Mi guarda come fossi un palazzo altissimo e volesse capire se c’è altro oltre il tetto. Il cielo inizia tra i miei pochi capelli?

«Samu, dai, sarò qui quando esci.»

Sembra che stia organizzando delle lettere nella bocca per dirmi qualcosa.
Poi lo fa: «Promesso?»

Non si accontenterà di un sarcastico: Farò del mio meglio.
Io non mi accontentavo.

«Promesso»

Ma non è vero che posso prometterlo, è solo l’Amen delle mie preghiere interiori al Dio dei Padri: proteggici dalle coincidenze perse, dal traffico delle diciotto e dagli straordinari negli uffici pubblici.

Samu però sembra più soddisfatto. Torna a guardarsi i piedi.

«Papà» pausa. «Mi sistemi le scarpe?»

Ha i lacci slegati. Non posso aiutarlo; non ho mai imparato come si fa. Non mi hanno insegnato.

«Samu vai dentro e chiedilo alla Maestra Luisa, dai che altrimenti fai tardi.»

Mi guarda. Non ha lettere da organizzare.

«Va bene, ciao!». Corre verso il cancello.

Sgambetta scoordinato. Vorrei dirgli di non correre ma non ne ho il tempo.

Si pesta un laccio con il piede e perde l’equilibrio. Piccolo com’è sembra un sacco della spesa che cade, afflosciandosi sul cemento. Faccio per andare verso di lui ma si è già rialzato. Torna a correre, a gambe larghe per non inciampare, coi lacci che svolazzano. Ha per la testa la missione che gli ho affidato e vuole compierla, senza far caso al suo passo incerto, veloce come il vento.
E vorrei chiederglielo.

Chiedergli: che te ne fai di un padre che non sa allacciarsi le scarpe?

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di
Annalisa Maniscalco


Ancora sul 3, direzione Valle Giulia

L’uomo con il mazzo di rose sale sul 3 a via Carlo Felice. Lascia che gli studenti diretti alla Sapienza lo sorpassino sulla soglia del tram, proteggendosi i fiori contro il petto, poi guadagna la sua mattonella di spazio e si sistema in piedi vicino a me, ignorando un sedile libero.

«Scusi, non si siede?» gli chiede una ragazza, che ha le mani occupate di schiavitù: il cellulare e le cuffiette come rampicanti avvinti al polso, gli occhiali da sole inservibili in quest’ora aggrottata, il portafogli da cui sporge l’abbonamento. Fuorisede, deduco: non sa ancora che la metrebus può stare nascosta come un segreto tra le pieghe di un’abitudine.

L’uomo, ottant’anni circa e occhi molto azzurri, alza le spalle e le rose annuiscono permissive. La ragazza si siede e il cellulare le cade a terra con un rumore di sogni infranti. «Marò!»: l’uomo sorride, accenna a piegarsi su un ginocchio ma poi rinuncia al gesto e si limita a scostare il piede dal cellulare, e dalla ragazza china a raccoglierlo.

Le rose sono rosse, con del verde intorno e una spruzzata di gipsofila. Un bouquet senza profumo, quasi scontato nella sua elegante superfluità; e tuttavia spicca inedito sullo sfondo grigio del mezzo pubblico. Perché comprare dei fiori prima di salire sul tram, mi chiedo. La prima risposta è come le rose recise, banale e un po’ meschina: l’uomo è diretto al cimitero, non vuole piegarsi al ricatto dei fiorai, ne ha uno di fiducia sotto casa. O magari è fioraio lui stesso; e questa risposta, non so perché, mi convince di più, e mi avvicina quest’uomo dai calzoni un po’ corti e dalle unghie incartapecorite.

Il tram raggiunge Porta Maggiore e si ferma all’ombra dell’arco. Molti scendono a questa fermata, che è ancora oggi uno snodo di strade come un tempo era un nodo di acquedotti, e ancora prima un approdo di pellegrini venuti a sacrificare ad Spem Veterem. Ma quell’era è passata, il 3 riparte e quest’uomo non lascia i suoi fiori alla speranza, né alla prostituta che si affaccia annoiata da un platano in disparte.

Il 3 svolta a San Lorenzo, sotto un cielo di tangenziale. L’uomo ammicca a tutti i portoni, a tutte le finestre, come per rinfrescarsi una memoria che non aderisce più allo sguardo. Forse è stato bambino in queste strade, e le rose sono per una finestra che è esplosa in frantumi, o per un balcone che si è sbriciolato quel giorno di luglio in cui Roma è rimasta sgomenta e sfigurata dalle bombe — un giorno che ormai ricordano in pochi.

Il tram si ferma e l’uomo non scende; piuttosto, guarda sfilare via dei Reti passandosi il bouquet da un braccio all’altro: è già stanco ma non cede, neanche quando la ragazza di prima libera il sedile e scende alle Vetrerie Sciarra. L’uomo sta andando davvero al Verano, mi dico, e quei fiori sono per gli occhi di Alida Valli, o per lo spirito di Aldo Fabrizi, o per Rodari e le favole che l’uomo racconta a suo nipote; o magari per Eduardo, che qualche sera fa ha rischiato un brutto risveglio. Ma potrebbe darsi, banalmente, che le rose siano per sua moglie; eppure, l’uomo indossa la fede al dito, e mi scopro a sperare che non sia ancora vedovo. Ed ecco: il tram gira a via Regina Elena e l’uomo non si muove, se non per un distratto sussulto di rotaie.

Guarda fuori, l’uomo coi fiori, verso la Città Universitaria. Mi accorgo che lo spigolo di un libro fa capolino dalla tasca della sua giacca; chissà che non sia uno studente, e che non stia recuperando adesso un vecchio sogno: i fiori allora sarebbero per la docente che gli ha accordato la tesi, o per la segretaria che gli ha risolto un intoppo burocratico.

Poi anche la Sapienza scorre via, e l’uomo è sempre fermo, un po’ più curvo, un po’ più gualcito. A chi porti quei fiori, gli chiedo tra me e me con una tenerezza nuova; e realizzo che il 3 attraversa il quartiere doloroso del Policlinico. Ma le rose sono molto rosse, e gli occhi dell’uomo senza ombre; perciò, posso pensare che i fiori siano per la ginecologa che oggi va in pensione e che tanti anni fa ha fatto nascere il figlio dell’uomo — un parto difficile, in una notte di luna calante. Forse un giorno le intitoleranno una via del Policlinico.

Ma l’uomo lascia sbiadire la costellazione dell’Umberto I e le vie lattee del quartiere Salario, e continua a dondolare con il tram, sempre più appassito. Le sue mani, contro la iuta che avvolge le rose, sono spesse e terree, quasi grigie — gliele studio per cercare risposte e lui, stavolta, se ne accorge — ci concentriamo per caso sulla stessa rosa (ha un petalo color ruggine che freme precario a ogni scossa) e, in qualche modo, è come se ci incontrassimo.

Il tram fila col suo singhiozzo di fermate verso il Bioparco; una strana trepidazione risveglia l’uomo e qualche indizio trova ordine — la banalità delle rose, la modestia della iuta, il grigiore delle mani — in un’associazione bizzarra: forse scenderà allo zoo e offrirà i fiori a Sofia, l’elefante che gioca a palla. Pensiero ozioso, certo; anche se alla sosta l’uomo si affaccia fuori, in bilico, e il petalo arrugginito vola via tra le porte aperte.

Il 3 riparte verso il capolinea di Valle Giulia, alla facoltà di Architettura, e la soluzione del mistero si profila scontata e lucida: oggi la nipote dell’uomo discuterà la sua tesi e il nonno, raggiante, le donerà il bouquet di rose. Distolgo lo sguardo perché quest’ipotesi mi pacifica e insieme mi delude, come un sorso d’acqua tiepida. Ma poi il 3 si ferma alla penultima fermata, con un sussulto più brusco del solito, e allora mi volto di nuovo.

L’uomo con le rose non c’è più.

Le porte si chiudono, il tram riparte e io lo vedo, laggiù, che punta verso la Galleria Nazionale. Mi si accendono le guance, perché penso che quell’uomo non sta portando le rose a una persona.

Le sta portando a un’opera d’arte.

Forse alla donna dei Sogni di Corcos, perché gli ricorda sua madre da ragazza, o alla giovane che raccoglie un uovo dalla cesta, sul Tram di Guidi, come la studentessa di prima, col cellulare.

O forse, dopotutto, l’uomo darà le rose al Primo piano labbra di Pascali: perché anche lui, come me, ama immaginare ciò che non si vede.

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di
Annalisa Maniscalco


Sul 3, direzione Valle Giulia

Non è raro che si voltino dall’altra parte, quando li guardo. Qualcuno di loro sbuffa, a disagio; altri, invece, non si accorgono nemmeno che li sto fissando — e in fondo neanche io me ne accorgo.

Ma sarebbe un peccato non guardarsi, anche solo di sottecchi. È un peccato, credo, rinunciare a questa innocua curiosità; è un peccato negare la disponibilità a un pensiero sull’altro — che poi, in definitiva, è un pensiero per l’altro. Il mondo, mi sembra mentre me ne sto asserragliata in fondo a un affollatissimo tram 3, potrebbe essere più ricco: di ipotesi, di congetture, di domande; di mute e mutue sollecitudini verso il vicino di gomito. Esisteremmo, ne sono certa, tutti un po’ di più. Acquisteremmo il senso di una presenza, anche se a nostra insaputa, che importa; ma forse, a fior di pelle, percepiremmo il senso non governato di una specie di partecipazione — di una partecipazione alla specie.

Scrive Philip Roth, (come anche il mio amico Giulio qui, con altre parole), «Se volessi saperne di più, dovrei inventare». L’umanità è incommensurabile, smisurata. È una banalità, lo so, eppure è meglio non pensarci: perché questo è un pensiero capace di spostare di svariati gradi qualunque personalissimo asse. La vertigine quantistica delle miriadi di storie, di dettagli, di particolari, di incroci che ci circondano non può che spaventarci — sento freddo e caldo insieme, al sol pensiero, e in fondo mi trovo solo su un tram (200, 300 persone? Come a dire 300 universi). Anche per questo, forse, nessuno osa guardarsi intorno: per discrezione, ovvio; per non cercare guai, giustissimo — ma, soprattutto, per non farsi travolgere. Eppure, mi sembra un peccato che l’immaginazione debba spegnersi, quando siamo insieme — ed è anche per questo, forse, che mi trovo qui a scrivere. Non certo per avere l’ultima parola sulle cose, ma per avere la prima. Per riscoprire, innanzitutto io, il piacere di dover inventare, per saperne di più.

Per esempio. La signora seduta accanto a me sta leggendo su un giornale gratuito la notizia di quella ragazza americana che vende all’asta la sua verginità per ricomprare una casa ai genitori. Il suo commento a mezza bocca — lo sento perché decido di sentirlo, perché scelgo di leggerglielo sulle labbra — è: «’Sta mignotta». Dapprima mi meraviglio — è una signora ben vestita, profumata di parrucchiere, con due piccole gocce di perla ai lobi delle orecchie —, poi sorrido mio malgrado, infine mi faccio pensosa. Potrei concludere che il suo commento è superficiale — ha voltato subito la pagina, senza andare oltre il titolo —; oppure, a voler essere più gentile, potrei presumere che la signora sia sovrappensiero, tra sé e sé, e non si stia sorvegliando a dovere — chissà a chi sta pensando, in realtà —; se fossi più intransigente, potrei giudicarla arretrata, intollerante verso un gesto che pare l’ultima frontiera del femminismo, o meglio — e anche a me piace di più così — un sacrificio degno d’un romanzo di Dostoevskij. Ma preferisco avvicinarla, ascoltare con più attenzione quel commento e inventare la sua, di verginità, concessa gratis a un marito che più tardi l’ha lasciata per un’altra donna — una ragazza più giovane di lei: poco più che una bambina.

Mi sbaglierò; o magari invece no. Ma non importa la verifica dell’ipotesi, in questo caso: la scienza inesatta degli incontri silenziosi non richiede attendibilità, ma piuttosto attenzione. Non tanto per avere la pretesa di indovinare, inventando, ma perché negli altri si può vedere innanzitutto ciò che si vuole vedere, ciò che sta a cuore, che preoccupa o infastidisce in quel momento. Io, per esempio: se mi ascoltassi di più, capirei qualcosa di me, attraverso di loro; perché quelle ipotesi, anche se errate, sono vere per me, a proposito di me che le formulo. E tanto basta a illuminare un po’ di più il mio esserci.

L’importante, penso mentre la donna abbandona il giornale sul sedile e si fa largo sgomitando per scendere a San Giovanni, l’importante è moltiplicarla, questa umanità.
L’importante, mi dico aprendo il giornale, è questa vertigine bella.

Ed è proprio allora che sale lui, e si sistema in piedi accanto a me, ignorando il sedile vuoto: l’uomo con il mazzo di rose…

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di
Sabrina Sciabica

 

«Il 2 arriva, stia tranquilla. É che dopo le 21 il servizio è ridotto…».

«Speriamo! Prima che piova di brutto» rispose la signora corrucciata che sembrava guardare una partita di ping-pong tra il suo orologio e la linea del tram.

Doveva essere una turista, dedusse il vecchietto con la bombetta di colore nero, in contrasto col bianco dei capelli, che aveva iniziato la conversazione dopo un’osservazione silenziosa. Doveva aver camminato tutto il giorno, con scarpe impolverate stile ortopedico, punta larga e tacchetto basso, continuava a dedurre l’acuto osservatore.

«Calabresi dunque, i signori, e l’udienza è stata piacevole?»

A quel punto la donna smise col ping-pong e, come battendo un servizio con la racchetta da tennis, voltò rigidamente la metà superiore del busto grassoccio e, sbalordita verso l’uomo distinto che l’aveva interrogata: «Ma lei come lo sa?»

«Signori miei, così stanchi e spazientiti, sapete quanti ne ho visti di pellegrini quando impettito resistevo ore e ore, alternando mani congiunte alla tenuta della lunga alabarda, sempre indossando l’elegante basco da Guardia Svizzera!? In più oggi è mercoledì, e voi portate un rosario ad anello. Suo marito, poi, è così stanco che fissa il vuoto».

«Complimenti» disse ridendo il signore a fianco, che fino ad allora era stato immobile con le braccia conserte dietro la schiena.

«Uhhh vuoi un passaggio baby?» fece il vecchietto indicando i binari.

«Matri Matri ma cos’è?» urlò lei.

«Signora cara – un attimo di sospensione e con voce suadente riprese – un succi i cunnuttu, una zoccola, volgarmente detto topo, altresì ratto o topo di fogna, da non confondere con quello di campagna, che ha appena attraversato i binari. Ma non prende il tram. Mi ha appena risposto che preferisce andare a piedi. Eccolo, su, saliamo!»

Un attimo dopo l’attraversamento del topo, i tre salirono a bordo.

«E dove alloggiano i signori?» aveva chiesto con allegria il vecchierello.

«Al “b&b del Ponte” a Ponte Milvio» risposero.

Flaminio recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Tre stelle, prezzo medio, non brilla per pulizia ma per il personale cortese. Scusate… deformazione professionale, ero un valutatore della Novotel

«Ma non faceva la Guardia Svizzera?» Sussurrò lei, preoccupata per le condizioni della residenza prescelta.

«Ponte Milvio è il ponte più antico di Roma, risale al 200 a. C.» continuò l’anziano. «Ho un amico che vi abita. La sua zona si chiama Villaggio Olimpico, perché fu costruito poco prima del sessanta in previsione delle Olimpiadi, come alloggi per gli atleti. Dovete sapere che ci fu un inverno particolarmente piovoso, era il 2008 e il Tevere, che passa sotto Ponte Milvio, quell’anno straripò più volte».

Ministero Marina recitava, intanto, la voce registrata del tram.

La coppia si era seduta nei sedili a due mentre l’anziano signore, mantenendo teatralmente la sua bombetta in testa, si era seduto di fianco e guardava un po’ la strada e un po’ gli altri passeggeri che ascoltavano curiosi. A ciò si aggiungeva il tic di sollevare la spalla destra abbassando contemporaneamente il collo, come volendo ammiccare a qualcuno.

«Saprete sicuramente che Roma fu costruita su sette colli ma oltre ai sette famosi, anche le periferie sono piene di sali e scendi e proprio qui vicino c’è un dislivello notevole a distanza di pochi chilometri. E questo, lo insegnavo ai miei studenti, quando ero titolare di cattedra di Storia e Filosofia, alla Sapienza».

E qui la coppia sussurrò con aria interrogativa «Ma come, era valutatore di hotel?!».

«Anche questa zona del Villaggio Olimpico, vicinissima al vostro b&b, è più bassa rispetto al livello del fiume».

Flaminia Belle Arti recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Dunque era l’inverno del 2008» continuò l’eccentrico vecchietto «e il mio amico era tornato a casa verso le 8.30 di sera, dopo aver aspettato un’ora questo tram che, per via della pioggia, era stato rallentato. Era fradicio, si era spogliato e tolto i calzini zuppi lanciandoli in aria e camminando a piedi nudi da una stanza all’altra. A un certo punto, confuso e stanchissimo, si buttò sul divano per riprendersi».

Ankara Tiziano recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Fu proprio dal divano che sentì quello strano rumore. Oltre al rumore, percepiva una presenza, sebbene non fosse un suono proveniente da fuori, di questo era certo. Anzi, non era affatto un suono, più un fruscìo. Poi il silenzio e poi di nuovo fruscìo, insieme a rumore di acqua che si muove. Si alzò, perché lui viveva a casa da solo e le finestre erano chiuse, ne era sicuro, non era entrata acqua in casa. Ancora a intermittenza il rumore continuava e lui lo seguì sempre più attento per capire da dove provenisse. Si era aggiunto anche un rantolo lamentoso e indescrivibile che, anch’esso, a tratti, svaniva per poi ripetersi. Il mio amico camminò quatto quatto fino al corridoio e… prima stanza nulla, seconda stanza nulla, si avviò verso l’ultima, il bagno. Poiché proveniva proprio da lì».

Apollodoro recitava, intanto, la voce registrata del tram.

Dopo due secondi di sospensione, con voce più profonda, l’oratore riprese: «Una creatura della grandezza di una mano con due occhi microscopici e una coda sottile che sembrava lunga mezzo metro. Con le zampe scure si teneva aggrappato al water, dopo aver risalito le condotte degli scarichi o le vie sotterranee del fiume, e ne usciva, mentre il mio amico entrava nel bagno. Si guardarono negli occhi per qualche istante, dopodiché la creatura, portandosi appresso acqua lurida sgocciolante dal suo pelo irto, strisciava viscidamente nel pavimento a pochi millimetri dai suoi piedi nudi».

E a quel punto l’arzillo uomo scattò in piedi facendo sobbalzare gli spettatori e, piroettando verso le porte, urlò: «Buona serata signori miei, scendete alla prossima fermata e mi raccomando… richiudete il water dopo l’utilizzo!».

Scese con aria soddisfatta mentre la signora tratteneva a stento il disgusto stringendo nervosamente il braccio del marito che, intanto, rideva a crepapelle.

 

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di
Matteuccia Francisci

 

Il giovedì è il mio giorno preferito, quando salgo sul 3 a volte incontro Morticia e Gomez che tornano da o vanno chissà dove. Adoro i dark. Mi piace la loro estetica e questa passione per la malinconia. La gente cerca di mascherare la tristezza perché nessuno vuole essere triste e nessuno – ma questo non ve lo diranno mai – nessuno vuole vedere gli altri tristi. Sempre allegri bisogna stare…diventan tristi se noi piangiam. Tutti vogliono essere felici, tutti tranne i dark. Loro vogliono essere tristi. E si nutrono di letture tristi, musiche tristi, tutto quello che può dar loro modo di pensare che la vita faccia schifo lo divorano ardentemente. Anche se non hanno uno straccio di problema, se lo inventano perché devono essere tristi. Però sono belli, mi piacciono da morire e del resto la coerenza non è più di questo mondo.
Quando il 3 gira la curva penso sempre a un enorme bruco, anche se questa parola mi fa sempre pensare a…vabbè non importa ora non c’entra niente.
Eccoli, eccoli, oggi ci stanno. Devo sgomitare un pochino ma riesco a mettermi vicino a loro.

Chini sui loro cellulari, proprio come il resto di quell’umanità che disprezzano:
«No vabbè fermate, hai visto che ha postato Plastic Passion?»

Silenzio.

«See, comunque Damiano non si è regolato quando ha messo gli Alien.»

Passa una ragazza vestita di rosa, si guardano e sorridono. Penso che li inorridisca il colore dei suoi abiti e invece:

«Fico il tatuaggio dei coniglietti suicidi, me lo devo fa’ pure io.»
«Ma secondo voi il suicidio è come il sesso?» dico.

Mi guardano come guarderesti il tuo cane se mentre lo stai portando a spasso improvvisamente ti chiedesse com’è camminare a due zampe, se è più comodo che a quattro.

Non mi rispondono.

«Nel senso», continuo, «che ci sono quelli che ne parlano e quelli che lo fanno sul serio e questi ultimi di solito non ne parlano mai?»

Morticia mi guarda con i suoi occhioni contornati pesantemente di eyeliner nero. «Parli con noi?» mi dice.

«Sì, a voi non interessa il suicidio?» chiedo.

«Ma vatte a ammazza’» mi risponde Gomez e poi le fa «vieni amò che questa è matta», con una vocina un po’ troppo acuta.

Il romanesco decisamente non si adatta all’estetica dark, che peccato. Mentre si allontanano, gli grido dietro: «Bela Lugosi’s dead, undead undead undead!». Cioè, non è che lo dico a voce alta, lo grido proprio. Fanno tutti finta di niente, naturalmente, come si fa con i matti sui mezzi pubblici. Ma Morticia si gira e mi sorride.

Dark. Li adoro.