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di
Matteuccia Francisci

 

Micol Mezzanotte

Sesso: F

Età: 28 (al momento della scomparsa)

Corporatura: normale

Statura: 170 cm

Occhi: verdi

Capelli: neri

Scomparsa da: Roma

Data della scomparsa: 01/11/2018

Data pubblicazione: 19/11/2018

Micol Mezzanotte, 28 anni, viveva a Roma, da sola. Il 1 ottobre 2018 stava andando al lavoro, ma non ci è mai arrivata. Il suo numero di telefono risulta non essere mai stato attivo e la compagnia telefonica non sa spiegarsi la cosa. Una testimone afferma di averla vista a Piazza Vittorio con un uomo nei pressi della Porta Alchemica, ma non è in grado di fornire una descrizione dell’uomo che era con lei. Gli amici, trovando il numero di telefono sempre staccato, come se non fosse mai esistito, si sono allarmati e hanno chiamato le forze dell’ordine. Le indagini sono ancora in corso, ma la donna sembra letteralmente svanita nel nulla. Chiunque abbia notizie o creda di averla vista, è pregato urgentemente di mettersi in contatto con la trasmissione.

Federica Sciarelli, con il consueto tono serio serio che ben si confà all’infinita serie di potenziali disgrazie e mancati approfondimenti di indagini di cui si occupa quotidianamente, parla al telefono con un uomo. Lui dice di averla vista, che sta bene, ma non vuole dire dove sia. La sua voce è bassa, stentorea, la Sciarelli è spesso costretta a chiedergli di ripetere quanto ha detto.

Seduto al buio, davanti alla televisione, Tommaso sorride impercettibilmente e dice a bassa voce: «Tempus ridet, brevi rodet», poi riaggancia e spegne la tv.

«Andiamo, Kebab, è ora di dormire». Un grosso micio tigrato, con un orecchio mangiucchiato e la coda mozzata, apre pigramente gli occhi verdi, si tira su e si stira.

«Miao?»

«No, non ti troveranno mai

 

[torna al Capitolo #02]

 

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di
Matteuccia Francisci

 

«È un bel libro, vero?»

La voce alla mia destra ha una lunga barba bianca e due occhi azzurri. Sembra Donald Sutherland.

«Sì, molto bello» rispondo, per niente sorpresa. Non sono molti quelli che leggono Arthur Machen, e meno che mai sulla Metro A alle otto e trenta di mattina. Anche io mi metterei a parlare con qualcuno che lo stesse leggendo accanto a me.

PROSSIMA FERMATA LUCIO SESTIO. USCITA LATO, SINISTRO

Cioè, stava tutta agitata che non aveva studiato Eraclito allora j’ho detto:scialla, entriamo alla seconda ora…

«Ma secondo lei Machen cosa farebbe succedere a chi dice“scialla”? Gli manderebbe gli Angeli di Mons?» dico guardandolo sorridendo, e a lui brillano gli occhi appena dico“Mons”.

«Pensa che agli angeli di Mons potrebbe interessare occuparsi di simili cose?»

PROSSIMA FERMATA PORTA FURBA. USCITA LATO, SINISTRO

«No, non credo. Magari li potremmo mandare in Siria».

«Mah, forse lì sarebbe meglio mandarci direttamente il dio Pan».

«Un sano ritorno al paganesimo non ci farebbe male, lei che dice?»

Stasera pensavo di cucinare l’arrosto però non so se riesco a passare in macelleria, sennò forse ho della pasta sfoglia in frigo potrei fare una torta salata veloce con gli spinaci che sono avanzati ieri, ah ricordati di passare in tintoria a prendere il piumone…pronto? Mi senti? Pronto?!

PROSSIMA FERMATA RE DI ROMA. USCITA LATO, DESTRO

«Qualcuno diceva che quando abbiamo smesso di credere nel soprannaturale siamo caduti nelle nevrosi.»

«È come stare in questo vagone per sempre

«Per fortuna abbiamo Machen.»

PROSSIMA FERMATA VITTORIO EMANUELE. USCITA LATO, DESTRO

«Io scendo alla prossima. È stato un piacere conoscerla.»

«Anche per me» e poi aggiungo, sorridendo: «Va alla Porta Magica

Mi guarda veloce da sotto gli occhiali con un sorriso sbieco nascosto dalla barba, si aprono le porte e poi mi dice: «Ci vediamo di là».

Scendo anche io.

[continua – Capitolo #02]

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una serie
di:
Arundo Donald

 

 

 Satif non era una persona. Non era un semplice gruppo e soprattutto non era l’acronimo di una partecipata dei rifiuti. Satif era un’idea. La migliore idea della storia….

 

 Capitoli:

 

 1 Personaggi

2 Uno, due e tlé

3 Piano infallibile

4 Tondini

5 Avanti tutta

6 Tutti presenti

7 Voglio andare alle Canarie!

8 Finale epico

 

(I personaggi di questo racconto potrebbero essere di fantasia)

vai all’episodio #01

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di
Arundo Donald

Capitolo ottavo. Finale epico

 

Andre e Viky si erano conosciuti al liceo artistico. Lui un cazzone, lei una secchiona, durante i primi anni non si erano mai neanche notati. A legarli fu la musica. Un giorno, andando in gita a Pompei, lei gli si era seduta vicino sul pullman (solo perché i posti erano tutti finiti) e lui le aveva passato l’auricolare. In un certo senso la loro amicizia fu siglata dai R.A.T.M. durante un campo scuola di merda ai piedi del Vesuvio. Non proprio come se Zack de la Rocha li avesse presentati durante un festino a base di droga su una spiaggia di Cisco. Ma comunque era fico, si poteva raccontare. Conan lo avevano conosciuto strafatto a qualche festa nei centri sociali di Roma, a base di erba e rock da paura. L’idea di Satif era nata per caso, una sera.
Di tutt’altra pasta invece, tra le varie tecniche apprese sotto le armi, oltre ai microsonni diurni e allo smercio di riveste porno, Nando si era specializzato nel corpo a corpo col fucile a baionetta. In pratica. caricare qualunque cosa respirasse, travolgendola. Più che per la destrezza nell’uso del fucile, in quella disciplina il parà si distingueva per la stazza e per la perseveranza nell’attacco, tipica, forse, solo del cinghiale gravido nordafricano.

 

Tiziano scaricò una tripletta sibilando come un compressore ben caricato. Nell’atto fu tanto composto che per un attimo il gesto sembrò innocuo. Uno strumento a fiato ben accordato aveva suonato tre lunghe note dentro l’autobus. Brevi, invece, furono i due secondi che bastarono a far ricredere tutti i presenti. I sedili più vicini quasi si sciolsero per le esalazioni e gli occhi delle persone cominciarono a lacrimare come fontane impazzite.

Nando fece ancora qualche passo verso la testa dell’autobus puntando il Pomata, ma la mancanza di ossigeno cominciò a stordirlo. Se la sua espressione poteva ricordare quella di tanti anni prima, il suo cervello era ormai poco più che una medusa abbandonata al sole. Fece un altro urlo, colossale, e sollevò il fucile verso l’alto come uno scimpanzé incazzato sfoggerebbe il suo bastone.

Sconvolto da tanta mascolinità, Tiziano azzardò un’ultima nota, che per le dimensioni sembrò un accordo a due mani e l’aria fu saturata del tutto da orribili mix di gas naturali. Tutti cominciarono a sragionare. I Coli intestinali dell’artista avevano sconfitto il microclima locale. In quell’autobus, ora, non valevano più le leggi della troposfera, ma le teorie tetraedriche dei combustibili gassosi.
Il giovane conducente si ritrovò a Imola a schiacciare sul pedale. Finalmente il suo sogno di pilota professionista si era avverato e lanciava il filobus a tutta velocità verso gli archi di Porta Pia. Ormai neanche la guardava più, la strada.

C’era gente che ballava. Un paio di anziani nuotavano abbracciandosi sul pavimento. Il Pomata non provava più quel terribile prurito al culo ed era collassato a terra col sorriso di un bambino. Conan faceva surf sulla schiena di una signora. Andre e Viky pomiciavano di santa ragione come fossero a letto nella loro prima notte d’amore.

L’autobus si era trasformato in una grande festa di colori a base di allucinogeni. Franci intonò Give Peace a Chance di John Lennon e i passeggeri cominciarono a sbattere i piedi seguendo il ritmo. Tiziano, che sentiva la canzone per la prima volta, ne apprezzò il ritmo e si mise a cantare improvvisando le parole.

L’autista, colto da chissà quale allucinazione, svoltò bruscamente verso Castro Pretorio, evitando Porta Pia, e si diresse correndo verso la Tiburtina. A causa della sbandata improvvisa, lo zaino con la tanica di benzina fu catapultato fuori dal finestrino oltre le mura Aureliane, finendo nella fontana dell’ambasciata inglese. In quel momento si svolgeva il meeting annuale della diplomazia. L’esplosione creò un gioco pirotecnico favoloso che lasciò a bocca aperta i diplomatici di tutto il mondo. Il giorno seguente Virginia Raggi avrebbe dichiarato di aver organizzato lei la sorpresa sotto consiglio del movimento cinque stelle, ma Beppe Grillo avrebbe poi smentito tutto sul web.

 

Intanto era scesa la sera. L’autobus in poco tempo aveva raggiunto le campagne romane dalle parti dei Castelli e i partecipanti alla festa avevano deciso di far tappa per cantine. Tiziano Farro prese a bere solo bollicine, nella speranza di sintetizzare nuovi fluidi psicotropi.

Al gruppo del 60 express si aggiungevano sempre nuovi componenti e non se ne perdevano mai dei vecchi. Persino diversi monaci dell’Abbazia Greca di Grottaferrata furono visti salire a bordo intonando inni e partecipando alla grande festa. La natura, tutt’intorno, accompagnava quel viaggio creando un copione tanto bello da sembrare scritto apposta. L’autobus attraversò campi, guadò fiumi, s’inerpicò sugli Appennini, facendo alzare in volo le cicogne e mettendo in fuga interi branchi di cinghiali selvatici.

Nando finalmente raggiunse il Pomata. Non ricordava affatto il motivo per cui prima provasse tanto odio. In realtà non ricordava neanche che cazzo stesse facendo su quell’autobus. I due si abbracciarono e condivisero un quartino di Malvasia Gialla Puntinata di Montecompatri, che scolarono alla goccia. Poi passarono al rosso sincero, freddo di frigo.

Da quel momento in poi, nessuno vide più quell’autobus.

 

Qualche leggenda dell’entroterra turco narra di un gruppo di stranieri (yabancıların) che furono visti festeggiare in un pullman (otobüs) vicino al confine con l’Armenia. Mentre dei pescatori indiani avvistarono un autobus italiano sfrecciare su una spiaggia del Kerala con a bordo molte divinità scalmanate.

Negli anni successivi, di pochi si ebbe nuovamente traccia. Ida e Franci si stabilirono con Karlos Marranos in Brasile e cominciarono a lavorare nella sua ONG. Viky, che da Andre ebbe due gemelli, diventò il capo di una multinazionale molto importante. Tiziano Farro non tornò più. Diverse persone giurarono di averlo visto in giro per il modo ad assistere a molti dei più bei concerti metal della storia. C’è chi giura perfino di averlo visto cantare e mangiare piccoli volatili insieme ad Ozzy Osbourne.  Il mondo, alla fine, fu dunque un pianeta migliore.

A morte il trash!!!

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di
Arundo Donald

 

Capitolo settimo. Voglio andare alle Canarie

 

Le fresie erano veramente freschissime ed emanavano un profumo pungente. Tiziano infilò il naso dritto nel mazzo e fece una bella sniffata, lasciando che l’aroma lo pervadesse inebetendolo. Ogni fibra del suo corpo si contorse rabbrividendo e il cervello gli si sciolse nel cranio colando giù fino ai piedi.

Aveva indosso dei grandi occhiali neri marca VIP che usava per nascondersi e passare inosservato. Al collo portava il suo foulard arancio selvatico preferito, con sopra ricamati i pappagallini colorati. Era alla fermata e aspettava.  Il cornetto al lampone era stato ottimo ma ora si sentiva gonfio e costipato. La pancia premeva contro i pantaloni e una fitta gli opprimeva le budella. Si guardò intorno. Poi scorreggiò.

L’aria circostante la fermata divenne rarefatta per un raggio di due metri. Pareva via di Malagrotta nel mese di luglio. Provò a trattenersi, ma quella fu solo la punta di un iceberg.

 

A bordo del 60 express la situazione procedeva timidamente. Sembrava quasi che prede e predatori si studiassero a vicenda. Se in fondo all’autobus Nando escogitava il modo per ottimizzare l’offensiva, tra le file centrali Satif cercava il posto migliore dove posizionarsi. Il Pomata era distrutto e aveva abbandonato la fronte contro un finestrino. Ida si chiedeva se Franci avrebbe mai fatto in tempo per la colazione.

Viky lentamente spostò il braccio allontanandolo dal fianco e, con dolcezza e disinvoltura hollywoodiane, afferrò delicatamente la mano di Andre. Il cuore le pulsava a mille e non stava respirando. Quando anche lui, lentamente, ricambiò il gesto serrando la mano, finalmente ricominciò a prendere aria. I due non si guardarono né si parlarono.

L’autobus rallentò, emettendo il rantolo affaticato dei freni esausti. Si fermò accucciandosi leggermente dal lato delle porte e sbuffando aria si concesse a Franci. Masticando l’ultimo pezzo di mela, il ragazzo salì dal retro. Con grande borghesia, gettò fuori il torsolo finito e si pulì le mani sui calzoni. Poi le porte si richiusero, ingoiandolo.

Lasciatevi alle spalle ogni pensiero, non fate cose azzardate, ma fate la cosa giusta. Volate alle Canarie!

I neuroni di Conan erano partiti. Nel senso che per la prima volta sentiva di aver avuto un’intuizione, di aver capito le cose. Forse solo… di avere dei neuroni! Non poteva morire senza aver mai volato; visto altri paesi; essere andato a letto con un’erasmus sbronza sopra un pedalò. Insomma, non poteva finire così.

«Io mollo» disse timidamente agli altri.

Ma Andre e Viky neanche lo sentirono. Stavano avendo un dialogo bellissimo, una discussione intensa senza parole, solo attraverso quella stretta di mano.
La mano di Andre stava dicendo: «Sì, è vero che ti ho sempre definito stronza e probabilmente perché lo sei, però quando ti vedo tutto va meglio. Il sangue è più fluido, la vista migliora, perfino il mondo sembra non essere poi solo una grande cacca cosparsa di vegetazione».

E la mano di Viky rispondeva: «Ma lo so, sciocchino, ricordati che tu fai quello che dico io, perché sei l’uomo e quindi l’essere inferiore. Comunque mi piaci da morire e poi quello che hai detto tu però sempre un po’ di più».

«Io mollo! Ma mi state ascoltando? … Ehi? Ho detto che mollo!! Stop; fine; caput!!!»

Andre fece per ribattere alle parole di Conan, ma improvvisamente fu distratto dalle grida delle persone nell’autobus.

«Avete visto? È lui… è Tizianone Farro!!!»

«Guardate… sta per salire alla fermata!»

L’autobus aveva raggiunto la fermata successiva. Quando le porte si aprirono, da quella anteriore comparve un’accozzata di colori con sopra la testa di Tiziano Farro e un leggerissimo lezzo di cavoli cotti si percepì nell’aria.

Conan afferrò Andre dalla maglietta e lo portò vicino.

«Non possiamo farlo oggi… non oggi, cazzo!»

«Smettila!!!» ribatté Andre, stringendo in una mano la stringa dello zaino e liberandosi con l’altra dalla stretta dell’amico.

La gente continuava ad animarsi vistosamente.

«È lui, è lui, ne sono sicura!»

«Ma dici?!?!»

«Sì, sì, al cento per cento!»

Le grida poi esplosero letteralmente, diventando fortissime. C’era perfino qualcuno che sbatteva i pugni ai finestrini. Andre si chiese come fosse possibile. Neanche al concerto dei Guns a Bilbao aveva visto scene del genere. Le grida aumentarono copiosamente: «Aiuto, aiuto!!» Andre non ci voleva credere. Poi un ruggito grottesco ammutolì per un istante il marasma generale: «Dove sei?!? Dov’è il sudicio maiale maledetto?!?!»

Nando imbracciava minaccioso il fucile. Aveva fatto la sua mossa.

Tutti ripresero subito a strillare più forte, così che nell’autobus non si riusciva neanche a sentire i propri pensieri. Era l’Inferno dantesco rappresentato in un unico girone. Era l’inizio del caos.

 

Nonostante il mezzo fosse già teatro di guerra, quel giardino delle delizie metropolitano avrebbe presto visto un ultimo atto; un finale eclatante e imprevedibile, partorito da personaggi senza vergogna e disposti a tutto pur di completare il loro percorso.

Viky si strinse ad Andre con tutta la forza. Conan, in trance, ripeteva di voler andare alle Canarie. Come se chiamato in causa, Tiziano fece un peto eclatante, talmente colossale che tutti nell’autobus cominciarono a tossire. Il terrore lo aveva contratto a tal punto che un vulcano d’aria tossica era fuoriuscito dal suo corpo, liberandolo.

 

L’atmosfera ora era mefitica e l’autobus un pandemonio. Sembrava un pianeta lontano. Forse il Pianeta ATAC.

L’autista accelerò, puntando Porta Pia.

[continua – Vai al finale epico! – capitolo #08]

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Satif, destinazione Nomentana
di
Arundo Donald

 

Capitolo terzo. Piano infallibile

Satif non era una persona. Non era un semplice gruppo e soprattutto non era l’acronimo di una partecipata dei rifiuti. Satif era un’idea. La migliore idea della storia.

Quando Satif si sposta, tutti si spostano. Quando mangia, tutti mangiano. Quando dorme… no, Satif non dorme mai!

Conan, Andre e Viki erano gli ideatori e i componenti della Squadra Anti Tiziano Farro.
L’idea era semplice.
Fare esplodere l’autobus 60 express che tutte le mattine portava Tiziano a lavoro nello studio di registrazione di via XX Settembre.

Il mondo sarebbe stato salvo. Loro sarebbero stati epici.

Villa Ada era silenziosa e il profumo di alloro faceva pensare all’arrosto di maiale. Satif era seduto in cerchio a ripassare il piano. «Chi compra la benzina?» Chiese Viky fissando i sui compagni. Andre fece cenno con il dito che non sarebbe stato affar suo. Viky allora si voltò a fissare Conan che chinando la testa annui. «Bene la prima cosa è decisa».

Andre tirò fuori una cartina ma fu subito redarguito. «Per oggi niente erba ricordi? dobbiamo essere lucidi!»

Odiava quando Viky faceva il capetto ma aveva ragione, la missione era troppo importante.

Uno scoiattolo interruppe la scena lanciandosi da un albero. Tra le foglie aveva fatto un gran salto e si era arrampicato nuovamente su un pino piegato dal vento.

«La benzina si compra all’AGIP di via Tagliamento» disse Viky. «Ma sei matta?!? Lo sai quanto costa? E poi è fuori strada» ribatté Conan.

Satif era evidentemente dibattuto in quel momento.

«Va bene signor so tutto io. Allora dicci… dove la compriamo la benz…» Viky si bloccò.

Allibita, fissava Andre che si girava una canna.

«Ma sei stupido o cosa?!?!? Abbiamo appena detto niente erba cazzo. N-I-E-N-T-E E-R-B-A, lo capisci?»

«Ma io senza le canne, N-O-N M-I C-O-N-C-E-N-T-R-O! E poi scusa: sto andando a farmi saltare in aria, mi rimangono solo poche ore di vita e tu non mi vuoi far fare l’ultima canna?»

«Fate come volete. Io con voi due finirò per diventare matta!».

Odiava non essere rispettata solo perché femmina. Poi riprese: «allora almeno nel farlo siamo tutti d’accordo?»

«Ovvio!» rispose il resto di Satif.

«Non dimentichiamoci mai chi siamo e da dove veniamo e, ricordiamoci sempre, che sono idee impulsive come questa che rappresentano meglio gli ideali più importanti».

Tutti si guardarono per un istante, lanciandosi velocemente un sottile sguardo d’intesa. Andre avrebbe voluto indossare la sua maglietta dei Ramones.

L’unica che si chiedeva cosa cazzo avesse detto era proprio Viky, ma non importava.
Era stata efficace. Il gruppo c’era!

Mentre nel cuore di Villa Ada, sotto le querce, si decidevano le sorti del trash nazionale, a due passi dai vialetti di Villa Torlonia, Franci andava all’appuntamento con Ida.
Approfittando dell’aria mattutina aveva deciso di allungare un pochino ed arrivare fino dalle parti di via Nomentana. Praticamente Roma la mattina non la vedeva dai tempi del liceo. Aveva camminato da San Lorenzo fino alla fine di viale Regina Elena e continuando a passeggiare gli era venuta fame, così si era fermato al supermercato.

Il giovane era troppo magro per la sua altezza, aveva capelli arruffati, piedi grandi, dita (delle mani) mangiate dalle corde del basso e vestiva principalmente di nero. Non sopportava i film muti, i pesci rossi, i piercing ai capezzoli, le gare di formula 1, l’aglio nei carciofi, i supermercati e non poteva proprio scendere a compromessi con quelli che ascoltavano la musica pop inglese.

Girava per il supermercato e gli altoparlanti sputavano pezzi degli Oasis intervallati da annunci di personale!

«Che cazzo di numero erano le mele?»

«20? 18?»

32! La bilancia sibilò stampando un’etichetta adesiva con su scritto scarola romanesca!

«Che cazzo, era la scarola?»

29! La bilancia ri-sibilò espellendo un nuovo cartellino con su scritto asparagi bianchi.

Un sottile gusto da giocatore d’azzardo l’attraversò per un istante.
Con un ghigno impercettibile e muovendo spasmodicamente le dita della mano, colpì senza guardare uno dei grandi tasti gommati della bilancia.

124… pompelmi di Sicilia!

Nel frattempo, mentre il giovane tentava la fortuna, Satif aveva preso il ritmo. Il benzinaio sarebbe stato quello di Corso Trieste (visto che Verbano e Ledro li avevano chiusi) e a prendere la benzina sarebbe stato Conan con i soldi messi da parte.

Avrebbero fatto i biglietti. Non tanto per la multa, che da morti non avrebbero dovuto pagare, quanto per evitare complicazioni nel piano. Mai fidarsi dell’ATAC.

Andre avrebbe portato lo zaino con la tanica e l’innesco. Per costruire quel componente avevano consultato Wikipedia alla voce far esplodere benzina. Una vera genialata!

Viky era stragasata. Conan non pensava ad altro che al piano. Andre come al solito fattissimo.

A morte il Trash!

[continua… capitolo 4]

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di
Arundo Donald

 

Capitolo sesto. Tutti presenti

 

Spiando i nostri personaggi con Google Maps, ora li vedremmo convergere verso la via Nomentana. Anzi, li troveremmo già lì.

Chi a una fermata, chi passeggiando, chi perfino imbracciando un fucile. Tutti accomunati da un univoco quanto ambiguo destino.

Satif aveva raggiunto la fermata. Era stanchissimo.

Aveva camminato, comprato la benzina, camminato ancora, riempito la tanica, attaccato l’innesco, sempre camminato, comprato i biglietti dell’autobus, ricamminato un pochino e finalmente era giunto a destinazione. Andre era sfinito.

La Nomentana era splendente, in una forma ottimale. Gli immensi platani verdi la facevano da padrone, mascherando leggermente l’intensa attività antropica.

Mentre una schiera di taxi bianchi intasava le corsie preferenziali, infiniti motorini si alternavano ammucchiati, come stormi che si proteggono dai predatori.

Andre si accese gli ultimi due tiri di canna e si appoggiò al bordo della fermata. Viky lo fissava sconsolata. In cielo, un grande Airbus A380 passò basso puntando Fiumicino. Era così vicino che quasi si potevano leggere le scritte e i quattro enormi motori sovrastavano il rumore delle macchine.

«Hai visto che bestia?» disse Andre rivolgendosi a Conan.

«Se non avessimo la nostra missione… mi piacerebbe volarci dentro, a uno di quei cosi» ribatté Conan, fissando la densa scia grigia che ancora si intravedeva nel cielo. Andre neanche rispose, abbassò lo sguardo e aprì Smezziamo sul telefonino. Non c’erano nuovi racconti. Intanto, diversi metri più a sud, Tiziano Farro canticchiava il suo capolavoro stando seduto alla fermata.

 

Le tue parole sono la mia malattia,

La mia fortuna che sei andata via,

Amore rosso fatti spazio tra la folla,

Devo addestrare i miei anticorpi per la guerra…

 

Quel testo gli sembrava una vera esplosione di emozioni. Lo aveva scritto in due battute separate. L’ispirazione e la prima bozza erano state partorite durante la pulizia dei denti del giovedì pomeriggio. A un certo punto, si era alzato di scatto e si era messo a scrivere le parole sul bavaglino per gli schizzi di placca che gli aveva messo l’igienista. Mentre il resto della canzone lo aveva completato durante un viaggio a Spoleto, organizzato per un’avventura selvaggia e spericolata, al TOP come non mai.

 

Intanto Nando aveva perso la brocca. Ormai nel loop da marcia su Roma, aveva abbandonato l’idea di impallinare il Pomata dalla distanza. Lo avrebbe invece affrontato in un corpo a corpo, raggiungendolo alla fermata e costringendolo ad arrendersi. Si era infilato in una camicia scura con diversi stemmi sulle tasche e, col fucile sotto braccio, aspettava l’ascensore fischiettando pezzi nostalgici. La vecchietta dell’appartamento accanto aprì la porta.

«Ma che, so’ tornati i tedeschi?!?» chiese con un filo di voce.

Era Franca, la vecchia dirimpettaia che a malapena si reggeva in piedi. «No, no, stia tranquilla. Entri in casa e ci resti!» sbottò Nando entrando in ascensore. Nando la chiamava “la mummia”. Ogni volta che usciva o tornava a casa, lei apriva la porta per spiarlo. Per un attimo pensò di spararle.

 

Le tue parole sono la mia malattia,

La mia fortuna che sei andata via,

Amore amaro fammi ridere al mattino,

C’è un anticorpo per sottrarsi al mio destino…

 

Quando Nando sbucò dal portone, un 60 express procedeva svelto verso il Pomata.

La fermata era dalla parte opposta della strada e per raggiungerla, in sostanza, avrebbe dovuto volare. Da vero guerriero e senza pensarci troppo, si lanciò in strada in una corsa omicida fuori le strisce pedonali. Una macchina che passava tirò un’inchiodata colossale e l’automobilista lo maledisse dal finestrino. Nando, col cervello ormai fritto dall’adrenalina, imbracciò il fucile e lo puntò sul guidatore. «All’armi… All’armi!!». Correndo ancora più in fretta saltò al volo sull’autobus, non perdendolo per un pelo.

 

Sullo stesso autobus era salita anche Ida.

Il 60 era affollato. Ida si era seduta nel posto singolo alle spalle del conducente, mentre il Pomata, in piedi di fronte alle porte centrali, si grattava il culo con il pollice. Nando era appoggiato in fondo. Aveva nascosto il fucile tra il corpo e la parete dell’autobus, mentre con lo sguardo mentecatto, scrutava fisso il suo obbiettivo.

Alla fermata successiva salì Satif. La missione ora aveva raggiunto il punto del non ritorno. Andre posò lo zaino a terra e finalmente poté sgranchirsi la schiena. Viky si strinse stranamente a lui. Trovò che avesse un odore buonissimo. Gli ricordava il gelsomino.

Conan fissava un cartellino pubblicitario appeso ai sostegni per le mani. Il testo diceva: lasciatevi alle spalle ogni pensiero, non fate cose azzardate, ma fate la cosa giusta. Volate alle Canarie! Sotto l’immagine di un gruppo di surfisti in spiaggia sorridenti.

«Non ho mai preso un aereo» disse improvvisamente Conan.

Andre e Viky si girarono stupiti: «Eh?»

«Non ho mai preso un aereo!»

[continua.. capitolo #07]

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Satif, destinazione Nomentana
di
Arundo Donald

 

Capitolo quarto. Tondini

Tiziano Farro era malato. Era indeciso se uscire per andare a registrare il suo ultimo capolavoro o restare a casa a farsi i pediluvi in pigiama con la birra al limone. Il dubbio era atroce. Era stanco e influenzato, ma la giornata era calda e forse uscire lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio. Del resto, il pezzo che andava a registrare si chiamava: Anticorpi D’amore Vero.

E cosa c’era di più utile agli anticorpi di un po’ di aria fresca?

Si fece coraggio, prese la giacca pistacchio e uscì di casa.

Pochi isolati più avanti, un cinese con la faccia insanguinata per poco non travolse Ida che usciva dal palazzo di Martoni. Correva in preda al panico, trascinandosi su e giù per il marciapiede e gridando cose incomprensibili.
«Ma guarda te sto Viet Cong-muso giallo. Per poco non mi butta a terra, ‘sto maledetto!» disse delicatamente Ida da fan dei film muti anni ’30. In particolare adorava Apocalypse Now  versione integrale. Quello con il pezzo in cui Willard ruba la tavola da surf, per capirci.
Il cinese, non vietnamita, doveva ancora capire cosa lo avesse stroncato, aprendogli di netto quel buco sulla fronte.

Ida proseguì attraversando la strada verso la fermata occupata da un altro strano individuo. Era il Pomata, stremato dal suo stesso errore.

Pomata aveva usato l’oleandro. Ignaro delle proprietà velenose, ne aveva raccolto un mazzetto e dopo essersi pulito il culo era tornato a sedersi alla fermata. La sua igiene prima di tutto!
Ora la lava gli riempiva le mutande. Tale era la sua sofferenza, che neanche riusciva a star seduto fermo.
«Ahhh, ma oggi era da resta’ a casa me sa!» disse Ida, guardandolo contorcersi inorridita «Ma tutti a me i matti de Roma?»

Il Pomata sembrava avesse l’argento vivo addosso. Scorreva il culo su e giù lungo tutta la fermata, dove il grip di plastica, fatto a tondini, gli offriva l’unico sollievo per l’acutissima urticaria. Partiva da un lato, con metodo, e sgambettando raggiungeva il capo opposto. Aveva anche cominciato a fare dei versi. Ora i lunghi movimenti di scorrimento erano enfatizzati da dei lunghi ululati di apprezzamento puro. «Ahhhhrrrrr! Fiuushhh…»
La faccia di Ida era paralizzata. Quella scena era davvero troppo anche per lei! Certo, se avesse saputo che a centocinquanta metri in linea d’aria, un ex parà con una pessima mira stava puntando un fucile in quella direzione, probabilmente le sue preoccupazioni sarebbero andate altrove.

Nando puntava il Pomata. Ida lo fissava rabbrividita.
Lui, strofinava il culo sui tondini.

[continua… capitolo #05]

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di
Arundo Donald

Capitolo secondo. Uno, due e tlé

 

In un attimo Fernando e Ida si ritrovarono nell’imponente attico Martoni con quasi vista su Villa Torlonia. Fernando stringeva quei seni perfetti. Non li ricordava così. «Che se li fosse rifatti?»

Sentiva l’orgasmo crescere dentro di lui.

Quando avvenne, al luminare mancò la vista e tutto divenne nero per pochissimi secondi. Per un attimo, sparirono le mani di lei che stringeva la spalliera di ferro battuto del letto; le gocce di sudore che non smettevano di scenderle tra i seni; le coperte Ikea Luksory per veri intenditori in tinta con tende e copri poltrone. Sparì perfino quel senso di «che cazzata che stai a fa’ a riscopatte questa cagna», che durante tutto l’amplesso non lo aveva abbandonato e a breve sarebbe stato forte come non mai.

Non sapeva perché ma comunque si sentiva un leone. Nonostante l’età, la corsa mattutina e la totale assenza di colazione, si riscopriva sempre un uomo che adempiva i suoi doveri… anche con le cagne! Quando la vista tornò vide Ida con quell’espressione porca di soddisfazione, mista a velina di passaparola, che normalmente le disegnava la faccia dopo le più belle scopate. Allora capì… Era venuta anche lei!!

Mentre sotto le finestre dell’attico, i pesanti filobus sfrecciavano animando e inquinando la via Nomentana, Ida de Martini stringeva la spalliera in ferro battuto del letto e aveva caldo. Quello che fino a dieci minuti prima, per qualche strano motivo, le era ri-sembrato un individuo di sesso maschile con cui concedersi una scopata spensierata, ora le appariva come una moquette ansimante lontana dai bisogni erotici di una donna… di tutte le donne… probabilmente di tutto e basta!

Doveva evadere. Pensò che forse avrebbe potuto cambiare la lavatrice e che quel giorno la palestra sarebbe rimasta chiusa e che il centro commerciale non era poi tanto lontano… Poi udì il rantolo. Era fatta! D’impulso improvvisò come meglio poteva una faccia compiaciuta… e pregò che nel frigo ci fosse del thè freddo.

Mentre nell’appartamento del Martoni, dopo la chiavata, si discuteva su chi dovesse fare per primo la doccia, pochi piani più in alto Nando era sconcertato.

Di famiglia modesta, devota alla divisa, originario e residente in quel quartiere, di porcate nella sua carriera ne aveva viste molte, ma mai di quel calibro.

Una volta, nel cuore della notte, tornando dalla rimessa ATAC, aveva visto un tale che si masturbava dentro una cabina telefonica. Nella cabina aveva poi trovato una gigantografia di Iva Zanicchi, per giunta nel suo aspetto attuale. Un’altra volta aveva visto un tipo con indosso un costume da Uomo Ragno scalare il muro di cinta di villa Paganini per poi denudarsi aggrappato a una quercia.

Ma stavolta Nando Cei era furioso. Cagare per strada… E alla fermata… Questo non gli andava proprio giù!!

Rientrò frettolosamente in casa e ricomparve fiero con la carabina a piombini Beretta. «Per la Buonanima!» strillò.

Nel quartiere San Lorenzo invece, Francesco Bottarga detto Franci, quella mattina aveva messo quattro sveglie, programmando alle nove persino l’allarme del microonde.

Quando suonarono tutte insieme, per il rumore, fu come assistere in prima fila alla parata del 2 giugno.

Franci scattò dritto sul letto e insieme a lui ogni cosa abbandonata sul piumone. Il posacenere fece circa mezzo metro, rovesciando l’intero contenuto sulle lenzuola. Tre lattine di birra vuote rotolarono fino a cadere sul pavimento, producendo un suono troppo sordo per dei timpani così assonnati. Un paio di plettri arrivarono al bagno. Poi Francesco Bottarga osservò la sua stanza.

Non poteva più vivere in quel modo. Ora c’era Ida!

L’odore nauseabondo delle sigarette gli opprimeva il respiro. La luce del bagno accesa. Il fruscio dell’amplificatore valvolare. Le tazze vuote dei cereali e un bong ingiallito contornavano il suo letto. Perfino una mosca, che doveva essersi sbagliata a entrare, sembrava volare con disgusto tra quei rifiuti ammucchiati ovunque. Franci chiuse gli occhi e si lasciò cadere all’indietro rovesciando un altro posacenere. «E che cazzo!»

Intanto dalla finestra Nando puntava il Pomata.

Da giovane, prima di entrare all’ATAC, aveva fatto il militare a La Spezia e sparare gli piaceva un casino. Se avesse avuto anche la mira, probabilmente, sarebbe rimasto nell’esercito.

Il primo colpo non si avvicinò neanche lontanamente al bersaglio. «’Tacci tua…» esclamò Nando strizzando l’occhio per prendere meglio la mira. Il secondo tentativo non andò meglio. Male anche il terzo. Effettivamente non lo ricordava così difficile. Allora cercò un bersaglio più vicino e spostando rapidamente il fucile puntò dritto un asiatico seduto al bar sotto il palazzo.

«E mo’ er cinegro lo inculamo…» disse con tono serissimo di sfida. Di certo le idee politiche le aveva ben chiare.

«uno… due… tlé!» disse premendo il grilletto.

Il piombino squarciò l’aria e diversi moscerini raggiungendo il piccoletto a velocità smodata. Lui improvvisamente si sentì esplodere la fronte!

«Dai cazzooo!», esclamò Nando strizzando il fucile in mancanza di compagni con cui festeggiare. Gli occhi erano lucidi che quasi piangeva dalla gioia. Aveva fatto un centro perfetto.

Euforico, rientrò velocemente per non farsi notare.

Ora toccava al Pomata!

[Continua.. capitolo #03]

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di
Arundo Donald


Capitolo primo. 
Personaggi


Il Pomata:

Franco Vitali detto il Pomata era accucciato alla fermata e partoriva il suo stronzo. Nel bel mezzo della via Nomentana, dopo il rito del caffè e la sigaretta, dopo la parziale lettura de Il Manifesto (che quel giorno titolava «svuotati di tutto») non era più riuscito a trattenersi.
Doveva cagare!

Dopo un’analisi scrupolosa aveva scovato il giusto palcoscenico per quella selvaggia necessità mattutina.  Spalle alla fermata, tra due cespugli di oleandro, si apriva l’angolo più impeccabile, la soluzione più esemplare. L’arena finale!

Franco Vitali detto il Pomata era accucciato tra gli oleandri e partoriva il suo stronzo; e ogni secondo temeva l’arrivo di qualcuno: sua moglie Giordana, il parroco di Sant’Agnese, il suo capo, persino il magrebino al semaforo. Essere scoperto sarebbe stata la sua fine e nel quartiere tutti avrebbero detto: «hai sentito di Vitali? Si si, pare che stesse cagando sulla Via Nomentana!» E ancora: «hai sentito cara? Pare che Vitali sia malato e che riesca a cagare solo per strada! Nooo… non mi dire!»

Aveva calcolato tutto. Il posto molto ben riparato; l’assoluta sicurezza di non imbattersi in vecchi rompicoglioni; l’angolazione ottimale anti macchine in fila.  Poi, quando il peggio era passato, quando solo pochi gesti lo separavano dal tornare al suo giornale, una nuova e struggente angoscia pugnalò la sua mente.

Aveva scordato i fazzoletti!

 Fernando e Ida:

Fernando Martoni stava rientrando in casa dopo la corsa mattutina delle sette quando…

«Ciao Ferni’, ti sei rimesso sotto eh? Da sposati sto fisico te lo sognavi… non mi dire che hai pure ricominciato a scopare?»

Quella che per il luminare, il mite clima romano aveva partorito come una mattina splendida e luminosa, era improvvisamente diventata peggiore di uno spasmo alcolico prima di una vomitata colossale.

Fino a dieci minuti prima, il famoso dott. Martoni, proprietario del rinomato studio medico Martoni in via Po 45, doppiava grassottelli sudati, scansava vecchietti ed evitava feci di cane improvvisando salti alla Edwin Moses.

«Ti ricordi Franci? Quello che viveva in Perù e che studiava le differenze somatiche degli indigeni tribali sui monti Titicaca… quello con la moto… che suonava il basso elettrico… beh sai, usciamo insieme!»

Il medico barcollò. Paonazzo per la corsa e in chiaro deficit di ossigeno, digrignò barbaramente i denti, rivolgendo al cielo lo sguardo. In bocca, il sapore aspro e amaro della bile gli risalì come la schiuma dello spumante versato troppo velocemente. Sentire quella cagna lo faceva star male. Lo devastava.

Esitò un istante. Poi contrattaccò:

«Scusami, hai detto qualcosa? Credo di avere il volume delle cuffie un po’ alto. Sono felice di vederti. Noto con piacere che non hai abbandonato la tua aria da stronza straccia cazzi».
E ancora: «all’inizio non ti avevo notata sai… tutte quelle lampade ti fanno confondere col muro in mattonato del palazzo».

La donna si sentì derubata delle gambe. Tra lei e il marciapiede in lastricato grigio di peperino si era creato il vuoto. Tutto si fece grigio e per un attimo si sentì esplodere.  Poi l’odio la calmò.

Ida de Martini respirò profondamente, riacquistò lucidità e le gambe ripresero a sorreggerla. Il viso serenamente si rilassò addolcendosi.

«Ti va di scopare?»

 Satif:

Satif prese il sentiero sterrato che da via Panama tagliava per il bosco. Da lì avrebbe raggiunto l’ingresso dei cavalli e poi a piedi fino alla Nomentana. Aveva messo da parte ben trentacinque euro e venti centesimi, senza contare i ramini. Camminando attraverso querce e cespugli di alloro ripassava il suo piano e lo trovava perfetto.

«Comprare una bella tanica e poi riempirla al benzinaio più vicino. Nasconderla in uno zaino, salire sull’autobus e poi farsi esplodere».

Il piano non era male. Cazzo se non era male.

Nando:

Nando Cei, ex autista ATAC presso la rimessa di viale Parioli, era affacciato alla sua finestra su via Nomentana e guardava un matto cagare alla fermata.

Franci:

Francesco Bottarga amava farsi chiamare Franci.

Aveva 27 anni compiuti. Iscritto all’Università La Sapienza di Roma, era riuscito a svoltare una triennale in antropologia in appena sei anni e ora si dedicava al suo master in antropologia e cooperazione sub-tropicale. Era stato addirittura capace di ottenere una borsa di studio che riusciva a malapena a pagargli l’affitto della stanza a San Lorenzo e la spesa al supermercato per camparci tutto il mese. Per l’erba, la birra, il cinema, il cinese il venerdì e tutto il resto, si era sempre dato da fare alla meglio, facendo creste agli amici sul fumo e battendo cassa ai suoi genitori.

Le giornate di Franci cominciavano tardi e finivano anche più tardi. Sveglia alle undici se c’erano cose importanti, altrimenti mai prima delle dodici e trenta. Orario sconfacente ma comunque necessario. Doccia veloce senza shampoo, inutile continuare a spremere quelli finiti; ricerca nella vasca di mozziconi di saponette per lavare schiena e ascelle; deodorante stick allungato con acqua; vestizione rapida, phon, occhiata alla mail, mezza moka di caffè, canna spenta la notte prima e la giornata cominciava liscia come l’olio.

Il pomeriggio di solito lo consumava in sala prove a martoriare il basso, le serate col gruppo a martoriarsi lui. Di norma sempre bevendo birra, rum e fumando erba. La musica rock come immancabile sottofondo d’ispirazione.

Ma ora era diverso, ora c’era Ida…

I due si erano conosciuti al mare, a Ostia, durante la festa del calamaro in umido di Ostia Antica. Lei era lì con degli amici e si annoiava; lui era con il gruppo al completo, i Red Butterfly, dopo l’apertura del concerto di fine estate che si svolgeva tutti gli anni allo stabilimento Il Tirrena accanto alla finanza. Lei si era fatta convincere ad andare a quella stupida festa «solo perché a Roma non c’è un cazzo da fare come al solito e in fondo vedere il mare mi fa sempre piacere»; lui si era fatto convincere a suonare per quattro coatti, una mandria di vecchi troppo abbronzati e per giunta accanto a uno stabilimento di guardie, solo perché «a Ostia alla fine se becca sempre qualche trucida cretina».

A un certo punto, in mezzo alla rotonda alla fine della Colombo, i loro sguardi si erano incrociati!

Lei aveva accennato un sorriso, lui si era spiaccicato un calamaro sulla guancia mancandosi la bocca!

«È ’na fregna! Grande… magari MILF. Ma è proprio ’na fregna!»

[continua – Capitolo #02]

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo IV

Credono di aver capito chissà cosa, di aver scoperto l’assassino o aver svelato un grande mistero, ma le telecamere di oggi vedono anche al buio. L’uomo della metro ha tentato di avvicinarsi alle ragazzine, voleva salvarle, tirarle via da un destino segnato, ma è rimasto intrappolato nella folla. Ha raccolto il cellulare da terra e lo ha consegnato al controllore. Soltanto questo.

Se non fosse per i corpi estratti da sotto il treno nessuno direbbe sia successo qualcosa in quei secondi. La fermata è di nuovo chiusa ma domani sarà riaperta, solo perché tenerla così vorrebbe dire bloccare la linea intera, infestare le strade con chissà quante altre macchine e paralizzare il mondo.

 

«Ao’… Scusa pe’ prima…», dice il controllore buono. «Io però gliel’ho detto subito che non c’entravi niente.»

«Grazie», risponde l’uomo della metro in piedi davanti a lui, rannicchiato nel suo cappotto.

«Però ’na cosa… Me dispiace, ma te ne devi anna’ comunque…»

L’uomo della metro non reagisce alla notizia, sembra non esserne capace. Riesce solo a sedersi nel suo angolo e guardare il muro della galleria davanti a sé, fissando il vuoto.

«Non ce posso fa’ niente. La gente s’è lamentata, e poi ce sta pure chi pensa che sei stato te.»

«Ma…»

«Che te devo dì? Già s’ammazzano da soli, ce manca pure che tipo te dànno foco pe’ vendicasse.»

Il controllore si china sulle ginocchia, cerca lo sguardo dell’uomo della metro, senza trovarlo.

«Stanotte puoi sta’, poi domani insomma… Ecco…»

«Va bene… Stanotte va bene.»

 

Il rumore dell’ultimo treno diretto al deposito arriva fino ai binari davanti all’uomo della metro. È notte, ma qualcosa nei suoi occhi sembra voler dire che non ci sarà più tempo per riposare o tentare di dormire. Beve un sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica spiegazzata, tira fuori dalla tasca del cappotto il pacchetto di sigarette e i fiammiferi. Ne sono rimasti pochi, rimbalzano uno sull’altro nella scatolina di carta. Prova ad accendere il primo ma, quando la scintilla diventa una fiamma, un soffio di vento freddo la spegne. L’uomo della metro cerca un’ombra nel buio della galleria, senza trovarla. Prova ad accendere il secondo, il terzo, ma i fiammiferi sembrano essere bagnati dalla luce che inizia a dissolversi, fino a sparire.

L’uomo della metro alza lo sguardo verso l’unico neon che balbetta segni di vita. Respira, beve l’ultimo sorso d’acqua e si alza. Non c’è altro da fare: deve entrare nella galleria.

 

Cammina, i passi rimbombano uno alla volta tra i muri e i binari. Si avvicina una mano agli occhi ma non vede nemmeno quella. Il tunnel dell’intera linea sembra essere al buio. Lo squittio di alcuni topi gli passa di fianco veloce, lasciandogli un brivido lungo il collo. Il vento freddo soffia leggero dietro di lui, lo invita a fermarsi o a scappare via da tutto, a dimenticare per sempre quello che è rimasto da vedere. L’uomo della metro cammina, non cede, continua a camminare senza mai fermarsi, fino a quando una luce si accende su una banchina in lontananza. La raggiunge, ma quello che trova non è che il suo angolo, lo stesso posto di tutti quegli anni, lo stesso spazio di sempre. È tornato dov’era, il buio lo ha riportato al punto di partenza. Non potrà mai scappare.

L’uomo della metro avanza, poggia una mano sul muro per risalire, ma qualcosa lo paralizza. Il sangue si gela. Da un lato c’è il buio appena attraversato, che ora sembra un luogo da rimpiangere, dall’altro due bambini, tornati in questo mondo solo per poco.

Respira profondo, prende coraggio e guarda…

[Continua…]

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo V

I due bambini sono fratelli, uno appena più grande dell’altro. Sembrerebbero gemelli se non fosse per qualche centimetro di differenza. Giocano con un pallone di carta a ridosso della linea gialla. Il più piccolo dei due provoca l’altro, lo sbeffeggia dimostrandogli che non lo potrà mai battere. L’altro sta al gioco, accetta la sconfitta ma il più piccolo insiste per giocare ancora. Continuano, ridono, mentre il treno in lontananza si avvicina percorrendo la galleria. I due bambini giocano, ognuno cerca di segnare all’altro in due porte immaginarie grandi come tutta la stazione. Il treno è sempre più vicino. Il bambino più grande segna, esulta, smentisce ogni pronostico e vince la partita, ma il fratellino non ci sta e corre verso di lui. Vuole una rivincita immediata, non è abituato a perdere. Il più grande si gira, non lo guarda, cammina esultando con le mani al cielo in equilibrio sulla linea gialla. E il più piccolo lo spinge, con tutte le forze. Per scherzare, per reagire, per dimostrare a sé stesso di non essere in grado di perdere. È un gioco da bambini, nient’altro.

Il più piccolo rimane in piedi, pietrificato di fronte al suo gesto, di fronte al corpo del fratello ora sparito fra il treno e i binari. Stavano giocando, non l’ha fatto apposta, deve essere stato qualcosa, un fantasma, non può averlo spinto lui.

 

L’uomo della metro osserva la scena dall’altro lato della banchina. Guarda il bambino paralizzato ed è come se tutto tornasse insieme, venendo fuori da quel buio. Vede sé stesso, trent’anni prima, nel momento che lo ha imprigionato per sempre, costringendolo a nascondersi, a rimanere fermo in quella colpa.

Ora invece è la luce a tornare, è già mattina, la fermata riapre, e di quella scena rimane traccia solo nei suoi ricordi ritrovati. Passano i primi treni, le persone salgono, scendono, nessuno sembra in pericolo. Del vento freddo nessuna traccia.

Basta uno sguardo del controllore buono a far capire all’uomo della metro che è arrivato il momento di andarsene e togliere il disturbo. L’uomo raduna le sue poche cose in uno straccio arrotolato, piega il cartone come fosse una tovaglia ricamata, si alza ma lascia tutto a terra. Cammina verso il controllore, senza più nulla. I neon sembrano accorgersi dei suoi primi passi. Le voci delle persone si rincorrono sulla banchina, sembra poterle sentire tutte, percepire ogni sguardo fin dentro la pelle. Credono sia lui ad aver spinto i ragazzini, ed è come se lo accusassero ancora, per sempre.

 

Il treno è a una fermata di distanza, la luce inizia a fare scherzi. Ed ecco anche il vento freddo a rigare gli occhi di tutti. Il controllore buono si avvicina, lo scorta tra la folla con una mano sulla spalla. L’uomo della metro sente che il momento è vicino, si guarda intorno cercando di capire chi sarà la prossima vittima. Vede qualcosa, un movimento sospetto di due ragazzini che rubano gli occhiali a un compagno più piccolo e iniziano a spintonarlo verso la linea gialla. Il treno è in arrivo. L’uomo della metro scosta la mano del controllore, corre verso di loro. Sembra essere in gara col treno a chi arriverà prima nel buio. Accelera, supera i due ragazzini e spinge via il più piccolo verso il muro, finendo lui al suo posto, senza potersi più guardare indietro.

 

È quasi mezzanotte, la stazione è pronta ad essere chiusa. L’ultimo treno si dirige al deposito, mentre i passi del controllore buono rimbombano tra i muri. Riguarda i filmati delle telecamere un’ultima volta. Rivede quel momento in cui l’uomo della metro si è staccato da lui e si è buttato sui binari salvando il piccoletto, che ci ha rimesso solo gli occhiali. Vorrebbe tornare indietro di qualche ora, qualche giorno al massimo e dare più peso alle sue parole, ma non sarà possibile. Meglio pensare che quelle storie sui fantasmi fossero solo i deliri di un pazzo vissuto per anni sottoterra. Meglio così.

Uno degli schermi mostra ancora la banchina in diretta. Il controllore nota lo straccio arrotolato e il cartone, rimasti lì a terra, nel solito angolo. Scende. Forse almeno le sue cose meritano una specie di sepoltura.

 

Il controllore raccoglie tutto ma una sigaretta cade a terra, rotola, e al balbettare di un neon si accende da sola. Il fumo viene aspirato via tutto in un attimo, sparendo nella galleria. Il sangue nelle vene si scuote in un brivido. Vorrebbe girarsi e sfidare lo sguardo del buio, ma non lo farà. L’uomo della metro aveva ragione. Lì non c’è nessuno, solo qualcosa che non si fa mai vedere.

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo III

È mattina presto, i cancelli della fermata cigolano e riaprono. La pioggia bagna le scale più di quanto dovrebbe. Ricomincia tutto, nessuno parlerà più di quel suicidio.

La banchina accoglie le prime persone, ma il treno non arriva, lo schermo elettronico non funziona. L’uomo della metro dorme ancora, si sveglia solo quando la ressa diventa quella dei giorni peggiori. È finito lo spazio anche per girarsi, risalire e tornare a casa. Del treno nessuna traccia, mentre le persone si moltiplicano. La sigaretta consumata è ancora lì, accanto al cartone, come a testimoniargli che quello che è successo non può essere ignorato. L’uomo della metro si fa piccolo nel suo angolo, si guarda intorno. Cerca quell’ombra della notte prima, ma non c’è nessuno, soltanto centinaia di sconosciuti in attesa di iniziare la giornata.

L’orologio segna quasi le otto. Lo sguardo cade allora su un gruppo di ragazzini diretti a scuola. Ridono, scherzano, due classi intere pronte ad andare chissà dove a perdere una mattinata. Lo zoo, il planetario, un museo pieno di sassi di un’altra epoca. Li osserva per capire se sia tra loro la prossima vittima, e il vento freddo soffia di nuovo. Sì, succederà ancora. Lo sa, i neon prossimi a spegnersi gli dicono tutto, ma quello che non ha capito è che oggi sarà peggio di ieri e domani peggio ancora.

 

Il controllore buono scende ad annunciare che il treno è in arrivo. Il vociare si dissolve in un sospiro di sollievo. L’uomo della metro lo guarda facendogli cenno di avvicinarsi. Il controllore lo raggiunge, svicolandosi tra le persone.

«Dormito bene, sì?»

«Fermate il treno.»

«Eh?»

«Fermate il treno.»

 

Dall’altro lato della banchina due ragazzine si tengono per mano accanto a una professoressa appena più alta di loro. Si scattano una foto con il cellulare, inchiodano quel momento sugli schermi di chi potrà solo ricordarle. Non importa di che colore abbiano gli occhi o i capelli, come passano i pomeriggi o cosa vorrebbero fare tra qualche anno. Non importa più, non è mai importato. Il treno è vicino, il macchinista è un altro, ma non cambierà nulla.

Le due ragazzine si guardano, poggiano la testa l’una sull’altra, ancora assonnate. Lasciano la professoressa indietro di qualche centimetro, poi di qualche passo. Il treno sbuca dalla galleria. Si muovono tutti verso la linea gialla, hanno aspettato troppo per non salire adesso. C’è chi spintona fingendo di essere spinto, chi guadagna spazio un millimetro alla volta. Il controllore lascia l’uomo della metro seduto, a ripetere di fermare il treno, e prova a calmare le persone. La luce si spegne, il treno si avvicina. Il controllore urla di stare calmi, le corse sono riprese, ne arriveranno altri, ma nessuno sembra capire. È il buio a cambiarli, a isolarli da qualsiasi altra cosa, a muovere tutti verso i binari. È il vento freddo a rendere ogni passo più pesante, impossibile da fermare.

L’uomo della metro vede qualcosa in mezzo alla folla. Qualcosa che si sposta senza lasciare traccia, senza farsi mai vedere. Si alza, prova a raggiungerlo, ma non c’è più tempo. Il vento freddo spinge le due ragazzine sui binari. Sembra sia stata la ressa, o che siano cadute da sole, saltate giù anche loro. Si guardano quasi senza sapere dove siano finite. La loro foto sul cellulare illumina il soffitto in cerca d’aiuto, dalla banchina. La gente non vede, il buio riempie gli occhi di tutti, nessuno può capire. Ogni urlo rimane soffocato, le ragazzine si abbracciano. Il treno frena, ma è troppo tardi.

 

La luce si riaccende. Nessuno sa cosa sia successo, sono solo sparite, scomparse. Il controllore buono si fa largo tra la folla, si avvicina ai binari, chiama i soccorsi, ma sarà inutile anche questo. Si gira verso l’uomo della metro, convinto di trovarlo nel suo angolo, ma sul vecchio cartone non c’è nessuno. È lì dietro, a pochi passi da lui, in mezzo al fiume di persone che lentamente si dissolve in preda al panico verso le scale d’uscita. Non sembra sapere neanche lui il perché del suo essere lì. Trema, stringe qualcosa fra le mani. Abbassa lo sguardo all’avvicinarsi del controllore.

«Che c’hai in mano?»

L’uomo della metro non risponde, svelando il cellulare delle ragazzine tra le dita.

[Continua…]

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo II

Non sempre basta guardare per poter vedere, se ne accorgeranno presto.

Il corpo del ragazzino è sulla banchina, coperto da un telo troppo grande per lui. Una fibbia dello zaino sbuca appena da un lato, quasi volesse staccarsi e provare a ricominciare per conto suo. I treni continuano a scorrere sui binari dietro di lui, ignorano la fermata chiusa e vanno avanti; il corpo viene portato fuori dalla polizia, di nuovo su. Lo aspetta una donna che non fa che piangere e riempirsi di dubbi. Dovrà conviverci, per lei è uno di quei giorni che tracciano una linea tra il prima e il dopo. Chissà come farà, si chiedono tutti i curiosi lì intorno. Chissà come farà.

 

Il gabbiotto della sorveglianza è solo un quadrato pieno di schermi, non è certo qui che si scoprirà qualcosa. I controllori studiano i filmati delle telecamere, continuano a guardare la stessa scena, avanti e indietro, cercando una spiegazione diversa a quello che è successo.

«S’è buttato…»

«Secondo me nun se ne è accorto… C’aveva ’e cuffiette.»

«Magari s’è distratto…»

«Ma te pare… Non è er primo, eh…»

«Guarda che stanno fori de testa… Dice pure che ce sta ’n gioco su internet…»

«Ma falla finita… ma te pare.»

Continuerebbero per ore, scambiandosi ruoli e battute, confondendosi l’uno con l’altro. La fermata riaprirà domani, c’è poco da fare nascosti sotto terra. Indagano a modo loro su quello che non possono capire, tirando dentro ipotesi e smentendosi da soli per paura di avere ragione. Scendono anche i poliziotti, li interrompono, serve una copia dei filmati per l’indagine in centrale.

«Lei ci segua…», dicono al macchinista che si guarda intorno come cercando qualche alleato per una fuga da improvvisare. Ma di alleati c’è poco bisogno. Gli schermi e le facce di tutti lasciano pensare la stessa cosa: è una formalità, una pratica da compilare. Il ragazzino si è buttato, non è colpa di nessuno, c’è poco da aggiungere. Si può tornare a casa.

 

«L’ha spinto.»

La voce dell’uomo della metro emerge dalle scale della banchina.

«E te ancora non te ne sei annato?», dice il controllore che lo ignora sempre, «… vedi de ringraziacce che non t’avemo fatto arresta’».

«E dài… Lascialo perde’», risponde quello che lo ha preso in simpatia.

L’uomo della metro però non chiede un po’ d’umanità, vuole qualcosa di più: vuole essere ascoltato.

«C’era il fantasma. L’ha spinto lui», dice guardandoli negli occhi uno alla volta.

«Ao’… vedi de finilla. È morto un ragazzino: ce sta poco da gioca’.»

«Basta cazzate… Vattene a dormi’.»

E qui sono d’accordo tutti.

Ma l’uomo della metro insiste, anche mentre i controllori se ne vanno. Ormai sussurra. Guarda i tre uomini allontanarsi verso l’uscita. Parla da solo.

«Vive nella galleria… È tornato.»

La frase si dissolve a terra tra gli ultimi passi di una giornata da dimenticare. I tre lo guardano come per dirgli di tornarsene al suo posto e non chiedere altro. Domani ricomincia tutto, a lui è concesso il suo angolo, c’è chi non ha più nemmeno quello.

 

L’orologio sul muro segna le due di notte, ma l’uomo della metro non riesce a prendere sonno. L’angolo è sempre lo stesso, il cappotto e il cartone lo avvolgono quasi come un letto vero, ma c’è qualcosa che non lo lascia dormire. La galleria. Non riesce più a guardarla da quando ne ha parlato a voce alta. È quel buio lì in fondo che lo tiene sveglio, sembra avere un peso, una forma, sembra possa avvicinarsi e nasconderlo per sempre, portarlo via. L’uomo della metro si gira faccia al muro, non vuole più pensare al ragazzino, a quel momento, a cosa ha visto, a cosa è nascosto in quel buio.

 

Fa freddo qui sotto, sempre più freddo. Il fiato caldo sulle mani non basta più, e l’uomo si rannicchia, cerca qualcosa. Una scatola di fiammiferi, un pacchetto di sigarette. Gliene sono rimaste poche, regalate da uno sconosciuto che quel giorno aveva deciso di smettere. Ne accende una, aspira due, tre volte. Tossisce, non è più abituato. La posa a terra, ancora a metà.
Il fumo leggero gli passa intorno al viso e lui si rannicchia di nuovo, pronto a dormire. Chiude gli occhi. L’unico neon acceso a quest’ora balbetta di nuovo, una folata di vento percorre tutta la galleria, quasi intonando una nota, consumando una frequenza. L’uomo della metro riapre gli occhi, sa che è arrivato il momento di guardare. La sigaretta si consuma in un attimo, tirata via dal soffio freddo che sembra correre e sparire lontano, dove la luce non entra mai.

Chi ha spinto il ragazzino si nasconde lì dentro [continua…]

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo I

Nessuno lo sa, ma sta per morire un ragazzino.

Sono tutti qui, appena svegli. Chi in piedi, chi seduto, chi con la testa nascosta in uno schermo grande mezzo palmo, tutti impegnati a distrarsi da qualsiasi cosa meriti un po’ d’attenzione.
È un giorno come un altro, sotto terra, ad aspettare un treno.

Dicono sia la stazione più buia della linea. Non c’è un motivo vero e proprio, nessuno si è mai sforzato di capirlo, ma è ormai quasi un anno che anche la luce sembra voler scappare da qui sotto.
I neon balbettano di continuo, pronti a spegnersi da un momento all’altro e non riaccendersi più. Forse è colpa del pavimento consumato dai passi e dagli anni: non riflette come dovrebbe, e allora la luce si offende e minaccia di andarsene.
Sì, deve essere questo il motivo. Così, come ha fatto adesso, proprio così. Qualche falso contatto dovuto al peso dei vagoni sui binari ed eccoci nascosti nel buio.

Il rumore del treno che arriva si fa strada nella galleria, un soffio freddo sfiora le guance di chi è troppo vicino alla linea gialla e la luce si spegne. Solo per un attimo, il tempo di chiedersi se stia davvero per succedere qualcosa, poi un nulla di fatto, si torna a vedere. Di nuovo nel mondo, sempre gli stessi.

Un’ultima accelerazione in lontananza. Un ragazzino si fa strada tra la gente, non serve chiedere il permesso, è ancora presto, c’è spazio per tutti e per tutto. Avrà undici anni, lo zaino più grande di lui, le cuffiette infilate nelle orecchie, una scodella di capelli a nascondergli gli occhi. Guarda fisso a terra, controlla di aver fatto bene ogni passo. Il treno si avvicina, il ragazzino continua a camminare. Le luci della stazione balbettano ancora, il vento freddo soffiato dai binari scivola su tutta la banchina. Questa volta non è come al solito, ma non se ne accorge nessuno.

Nessuno tranne un uomo seduto a terra, per tutti l’uomo della metro.
Non fa che starsene su quel cartone, riparato in un cappotto che ne ha vissute troppe, chiuso nel suo angolo. Avrà quarant’anni ma ne dimostra tanti da farne perdere il conto.

Vive e dorme lì, ogni sera, senza mai uscire, in quello che ormai per tutti è il suo posto, la sua stanza. I controllori fanno finta di non vedere, si sono abituati a lui, a quella macchia per terra, non fa più nessun effetto. Uno di loro ogni tanto si avvicina, gli porta un giornale, un panino riscaldato, gli ricorda di esistere. Il controllore buono, è così che lo vede lui.
Ma l’uomo della metro non ricorda neanche più di avere avuto un’altra vita diversa da questa, e forse non ce l’ha mai avuta davvero. Non fa che stare fermo a contare i secondi tra un treno e l’altro, con gli occhi persi nelle ombre dei binari o nella folla.
Guarda, osserva, spesso vede più degli altri, prima degli altri, e ora vede anche il ragazzino superare la linea disegnata a terra.

I neon si spengono e riaccendono ancora, il ragazzino guarda l’uomo e gli sorride appena, come a dirgli di non preoccuparsi. Ma l’uomo vede qualcosa dietro quel sorriso, come se quel soffio freddo avesse preso forma. Qualcosa che non c’è, che non si fa mai vedere.

Il treno emerge dal buio della galleria ed è questione di un attimo. Il ragazzino si lascia cadere, il macchinista cerca di inchiodare ma è solo un riflesso involontario. Non ci sono tasti da premere o leve da tirare in momenti del genere. Niente può fermare in tempo il treno, nemmeno le urla di chi realizza che cosa è appena successo.

La gente si blocca e di fronte alla morte prende vita un ritratto collettivo di anime che si risvegliano.

Sembrava un ragazzino così normale… Che cos’hanno in testa i giovani d’oggi? È caduto, forse è caduto e tra poco starà bene… Non è possibile, non è successo… Povero ragazzo, poveri genitori…

Il macchinista non riesce a uscire dal suo abitacolo. Guarda nel vuoto, paralizzato. Non è colpa sua, ma è la prima volta, nessuno gli ha mai spiegato come reagire a certe cose. I passi veloci dei controllori invadono la banchina; non c’è niente da guardare, la fermata è chiusa. Vanno via tutti, risalgono, non dovranno far altro che continuare la giornata e dimenticare.

L’uomo della metro invece rimane sul suo cartone, ancora non si muove, i tre controllori non sembrano nemmeno averlo visto. Si alza e si avvicina al capannello di divise.

«Non puoi sta’ qui… ’mo no» gli dice uno dei tre mentre dà una pacca sulla spalla al macchinista con gli occhi lucidi.

Ma l’uomo della metro insiste, rimane lì, e parla.

«L’ha spinto… non si fa mai vedere.»

[Continua…]