Genova verticale

di Ottavia Marchiori

Illustrazione di Serena Borioni

Le auto schizzano come schegge e il rombo dei loro motori riempie tutto lo spazio, arrampicandosi lungo i muri grigi di Galleria Garibaldi.
Affretto i passi sulla striscia consumata di marciapiede davanti a me cercando di trattenere il più possibile il fiato per non inalare gli scarichi insalubri del traffico che si lascia inghiottire veloce sotto il tunnel per poi sbucare dall’altra parte del centro città.

Cammino con le spalle ricurve, lo sguardo basso: non voglio che la gente si accorga dei miei occhi rossi, dei miei sforzi per domare il groppo che mi si è infilato in gola.
Ma è una preoccupazione immotivata: a chi mai può importare di come mi senta io in questo momento?

Quando il semaforo del passaggio pedonale che taglia a metà la galleria vira al verde, attraverso la strada e prendo l’ingresso all’ascensore di Ponente che porta a Castelletto. Al di là della porta automatica non c’è nessuno, provo sollievo per questa temporanea solitudine.
Tra le pareti tinte di giallo chiaro sotto la luce severa dei neon, riecheggia solo il rumore dei miei tacchi che scandiscono una cadenza regolare sul marmo decorato da volute tondeggianti. Premo il pulsante per chiamare l’ascensore e aspetto, rovistando nel mentre il fondo della borsa per cercare un fazzoletto con cui limitare il tracollo del mio mascara. Ho bisogno di lasciarmi il caos della città alle spalle, ho bisogno di un attimo di pace.
E so di poterlo trovare alla fine di questa salita.

Le porte dell’ascensore si aprono sugli arredi eleganti in legno lucido perfettamente levigato.
Il viaggio dura solo una manciata di minuti ma tutte le volte che metto piede qui sopra, ho l’impressione di essere altrove, proiettata in uno spicchio di passato in qualche modo non ancora concluso.
Questo luogo suscita la mia riverenza: mi emoziona vedere la cura di chi lo tiene in vita, gli sforzi per preservarlo dallo scorrere del tempo.
Le porte si aprono: sono arrivata a destinazione.

Fa decisamente caldo per essere maggio e io che per l’appuntamento mi sono voluta vestire di tutto punto per fare buona impressione, realizzo di aver esagerato. Tutto troppo aderente, troppo accollato, troppa stoffa. Mi sento soffocare.
Tolgo la giacca, me la metto sotto braccio, arrotolo le maniche della camicia fin sopra i gomiti.
Così va meglio.

Sotto le chiome dei pini marittimi mamme con i passeggini chiacchierano sulle panchine.
Turisti con gli zaini in spalla e le mani a taglio a coprirsi gli occhi dalla luce del sole, gettano sguardi sorpresi ad abbracciare il panorama sulla città fino a incontrare il riverbero del mare.
Il canto parossistico delle cicale si dipana nell’aria del pomeriggio intrecciato al profumo persistente della resina che cola dai tronchi. Una donna con gli occhiali da sole dalla montatura bianca e una maglietta a righe azzurre che le scopre le spalle arrossate, armeggia attorno al vecchio cannocchiale, accanto all’ingresso invetriato dell’ascensore di Levante, cercando di inserire una moneta.
Qualcuno dovrebbe avvertirla che sono anni che quell’affare non funziona, meglio lasciar perdere.
Lo stesso consiglio che dovrei seguire io stessa: lasciar perdere.

Il problema è chiaro: ho fatto un grossolano errore di valutazione.
Ho caricato di eccessive aspettative questo incontro.
Mesi e mesi a scambiarsi messaggi senza nemmeno una telefonata. Non so nemmeno che suono abbia la sua voce. Sarebbe bastato questo a dovermi mettere in guardia. Le sue risposte elusive alle mie domande, le sue domande sparute sulla mia vita, lasciate cadere senza slancio di tanto in tanto, tutte le cose che ho detto precipitate nel vuoto del suo disinteresse.

Laggiù al porto, dietro al profilo dei Magazzini del Cotone, la massa poderosa di una nave da crociera si allontana lentamente verso il largo, lordando l’aria trasparente con sbuffi di fumo scuro. Mi rendo conto che il mio ruolo è stato quello di spettatrice passiva e pateticamente entusiasta dei suoi monologhi, l’ennesimo specchio in cui potersi rimirare ricevendo approvazione.
È stato lui a proporre di incontrarci oggi e a me non è sembrato vero avere finalmente occasione di conoscerlo. L’ho aspettato per due ore al tavolino di un bar dalle parti dell’università, su da via Balbi. Ho ordinato un Asinello che ho centellinato fino a che sul fondo è rimasto solo del ghiaccio liquefatto mentre mandavo messaggi rimasti senza risposta. Ho fatto i salti mortali per avere il pomeriggio libero, ho fatto fatica a farmi concedere il permesso in ufficio. Per cosa? Cos’è questa messinscena?

Ho provato a chiamarlo: irraggiungibile.
Un gruppo di bambini gioca a pallone mentre la spianata si lascia inondare placidamente dalla luce intensa del tramonto come fosse un bicchiere di aranciata dolce.
Le cicale hanno smesso improvvisamente di cantare, sembrano ammutolite dallo spettacolo che si sta svolgendo in questo istante. Tutto è immerso in una dimensione onirica, con la città distesa come un drappo d’oro ai miei piedi, i tetti dei palazzi affastellati l’uno sull’altro e l’orizzonte del golfo che cinge lo sguardo fino a dove lo si riesce a spingere.

Sento vibrare il cellulare nella borsa.
Lo ignoro.
Chiudo gli occhi e lascio che il malumore si stemperi nei raggi obliqui del sole mentre i versi di Caproni mi disegnano arabeschi nella mente: «Quando mi sarò deciso / d’andarci in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto».

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