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di Marco Di Travertino

Illustrazione di Stefania Brandini

Quella specie di tartaruga è un uomo: intabarrato nel pastrano stinto in un alba che potrebbe esser livida, ma è il mondo reale e, quindi, un’alba di merda.
Esita nell’atrio del casermone scrostato, fatto apposta coi piedi per farti sentire inferiore. Il chiarore fuori è un riverbero grigio tra le pozze fangose increspate da pioviggine e vento, spasmi terminali di una notte squassata dalla tempesta.

Le sette meno un quarto: l’ora del raccapriccio.
Strattona il cancello e si lascia investire dalla tramontata.
Quel po’ di stufelettrica-moka-carezzalgatto, disperso in un attimo.
La tartaruga incassa le gocce, rabbrividisce e allunga il passo.
Va a lavoro coi mezzi, che non passano o sono in sciopero, zeppi di carne o prendono fuoco. Ci sarebbe da ridere ma è lunedì.
La sera ha bevuto e mancano otto mesi alle ferie.
La tartaruga si sente truffata e stanca.
Un inizio giornata tragico. Anche eroico, però: il lavoratore che soffre a testa alta… Un eroe proletario!
Bell’eroe del cazzo, pensa la tartaruga, che tra mutuo, alimenti e spese varie non può mandare tutto a puttane.

Da quando ha lasciato la patente in mano a un appuntato – guida in stato di ebbrezza – ha bisogno ogni giorno di una metro e due bus.
L’attesa del primo è febbrile, non ci si abitua mai. Al momento giusto guadagna un buco senza troppi complimenti nel marasma umido: cappotti impregnati di fritto, ombrelli, zainetti cenciosi, adipe, membra, respiro.
La tartaruga non riesce a timbrare il biglietto e se ne cruccia.
La forza dell’abitudine.
Se ne guarda bene il controllore dal mischiarsi a cotanta canaglia…
È al bar, mastica una bomba alla crema. Lo zucchero gli atterra sul golfino alla faccia di quel quarantotto di monossido di carbonio, cipolla-sudore e alitosi impiegatizie al cappuccino-cornetto.

Il traffico? Un patimento.
Si striscia lungo la dolorosa arteria di periferia, un tempo industriale. Fracasso persistente di clacson punteggiato di cordiali vaffanculo.
Un fiaterello di operai, alcol stantio, si incunea nell’aria già di per sé vivace. Sciami di motorini zigzagano tra le vetture ferme, il medio dal finestrino è quasi un “baci ai pupi”. L’orologio non fa sconti.
La tartaruga reprime una loffa.
«Se avessi il teletrasporto – pensa – sarei ancora a letto. Farei la doccia solo qualche minuto prima di arrivare a lavoro fresco e pulito, in orario. Ma se avessi il teletrasporto, avrei bisogno di lavorare?».

Il metrò: l’ingresso è una bocca sdentata in cima alla salita.
Mandrie intere, armenti ferrigni giù per le scale sdrucciolevoli per la fanghiglia. Si lotta per guadagnare terreno.
Un ragazzotto in pettorina spinge in mano alla gente un “notiziario” gratuito: monnezza, propaganda, merda. La tartaruga ha fretta, lo maledice gettando l’almanacco com’è verso un bidone.
Manca il bersaglio, le pagine tutte per terra e neanche un minuto per raccoglierle. Un colpo al suo senso civico.
Tre raccapriccianti fermate: porte che frollano arti, asfissia generale, gomiti in testa, per aria, nel culo. Due ragazzine commentano il fatto del giorno: un tizio ha sparato alla moglie davanti alla figlia, ha sparato alla figlia davanti al cane, poi s’è sparato.
Non bisogna far male agli animali, pensa la tartaruga.

«SAN GIOVANNI», gracchia l’altoparlante.
Una marea solo vagamente umana, partecipe della stessa convulsione si riversa all’allungo finale: il bus delle sette e trequarti, ultimo possibile per l’altra parte del mondo.
La tartaruga corre e ridacchia: assurdo che esistano corse delle otto meno un quarto da “prendere o lasciare”, ritardi, contestazioni disciplinari e lavori da sciacquatazzine.
Ride come un cretino e corre: mica è semplice farlo assieme.
Il ragazzo ha talento ma viene bloccato da un semaforo.
Il “ragazzo”, non il talento: quello è pietrificato da tante cose.
Depressione, pigrizia, un discreto alcolismo, autostima zero fin dalla culla e quasi quarant’anni di sfiducia nel prossimo. Flusso infernale di macchine e il rosso più lungo dell’universo. Tre minuti più preziosi dell’acqua persi per sempre, la lancetta lunga in fuga sull’orologio del Laterano e le gambe a friggere. Le automobili continuano a sfrecciare…
Il 714, Dio Cristo, l’autobus!
Miseria impotente.
Quel serpentone verde, quella cazzo di fiera dell’est che ci mette venti minuti per fare tre metri, stamani inforca la curva sciolto come una ballerina russa! La tartaruga realizza, s’arrende, lo dice ad alta voce perché trova giusto assaporarne il peso esistenziale: Sono In Ritardo.
Il transito è ancora impedito. Un leggero tamponamento ha l’effetto d’ingigantire l’ingorgo.

Fuoristrada manovrano per rubacchiare mezzo metro di strisce pedonali.
Il frastuono è ovunque. Assoluto filosofico: clacson come urla di strazio. Ominidi in piena escandescenza a rantolare tricchetracche di madonne dietro a finestrini appannati, capacissimi di ammazzarsi a vicenda.
Ma ecco il pezzo forte: un vigile urbano tutto marziale, maschio latore del nerbo quirite, farsi largo come un centurione tra SUV e berline per fischiare contro tutti e nessuno, gesticolando come il Direttore Maligno dell’Orchestra dell’Indistricabile.
Fa casino anche peggio!
La mischia appiedata ondeggia su e giù dal marciapiede decisa a saltargli alla gola, a quel pezzo di merda frapposto tra la luce verde e l’altra sponda selvaggia…
Scatta l’arancione, è troppo!
Esonda, lo lascia ecce homo al pizzardone: culo a terra e ben gli sta! Il nostro è nel mucchio, ma il mezzo è già oltre.
Inutile pure affacciarsi alla traversa: perso quello persi tutti.

 Il taxi lo scarica a qualche metro dal bar.
Venti euro per incassarne quaranta e un quarto d’ora di ritardo.
«Alla buonora!», sibila la cassiera dall’alto del suo sgabello. Quel paio di metri.
Insulti soffocati dalla porta della cucina.
Il capo è già all’opera. La tartaruga afferra il caffè che un qualche collega gli lancia sul banco e lo butta giù incendiandosi lingua, esofago e budella: sofferenza sorda che è innesco a curvare la schiena e sgobbare anche oggi.

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di
Annalisa Maniscalco

 

«Ah, c’era ancora lei, la segretaria non mi ha avvisato.»
«Nessun problema, Avvocato, le rubo solo un minuto.»
«Ora ho un appuntamento… Senta: mi accompagni in taxi così intanto parliamo, le spiace?»
L’avvocato fa cenno al taxi Pisa 47 fermo davanti al portone. La targa d’oro sul citofono recita: Studio Querelli, dal 1870.
«Oh, Alfredo, di turno anche stasera?» dice l’avvocato al tassista, chiudendo la portiera con uno schiocco secco. «Facciamo il giro lungo, così accompagniamo questo ragazzo alla metro. Lei prende la metro, no?»
«Grazie, Avvocato» dice il ragazzo, che si chiama Ugo Speranza, ha ventisei anni e un curriculum umido di nervi e d’attesa tra le dita.
«Dia qua» dice l’avvocato: afferra il foglio e lo studia per qualche secondo, mentre il taxi si immette nel traffico. «Oh, ecco un ottimo percorso. Laureato in tempo all’Università *** — voto 110; beh, la lode farebbe un’altra figura, no? Ma comunque; qui vedo uno stage e un apprendistato in uno studio prestigioso… Come mai non è rimasto lì?»
«Vede, Avvocato, l’esperienza è stata proficua sia per me che per lo Studio, ma alla scadenza del contratto…»
Il taxi si ferma in coda e l’avvocato sbuffa.
«Alfredo, non di qua, fai la parallela. Ma le pare» aggiunge a mezza voce l’avvocato, chinandosi appena verso il ragazzo, «che devo fare pure il lavoro di questo. Che altro c’è… bene, sì, nella norma… Ah. Certo, l’inglese andrebbe migliorato, qui lei dichiara “livello buono”.»
«Ho fatto una vacanza studio a Dublino, due anni fa.»
«Mhm. Ascolta, Sapienza, consentimi il tu. Ti do un consiglio: torna all’estero a fare pratica. Le lingue sono importanti. Inoltre, in UK hanno delle ottime scuole di legge, mio figlio ne frequenta una a Oxford. E poi, si sa, qui non c’è futuro; e sbrigati, prima che le porte si chiudano del tutto».
Il taxi svicola in una traversa e il ragazzo si divincola sul sedile, ma non risponde. Non risponde più.
«Accetta un consiglio da padre, Prudenza: vai via dall’Italia
Il taxi si ferma davanti alla metro e il ragazzo scende.
«Costanza» lo chiama l’avvocato dal finestrino, «il curriculum».
«Lo tenga pure» dice il ragazzo, voltandosi appena. «E comunque, mi chiamo Speranza».
«Meglio ancora, è di buon auspicio» ribatte l’avvocato, alzando il finestrino. Poi: «Alfré, portami a casa, ne ho fin sopra i capelli.»

Il taxi riparte. Lo stereo suona piano la sigla del giornale radio.
«Ma che me ne faccio, Alfré, di tutti ’sti curricula? Quasi non c’è lavoro per noi, figurarsi. Non mi fraintendere: io li capisco, ’sti ragazzi; però si piangono troppo addosso

Londra: ragazza italiana trovata morta nel suo appartamento, dice lo speaker della radio con voce grigia, e Alfredo rallenta per alzare il volume. La giovane lavorava nella capitale inglese come cameriera. A dare l’allarme è stata la madre che non la sentiva da giorni.

«Già c’ho i figli miei a cui pensare» sta dicendo l’avvocato tra sé, con una sigaretta pronta tra i denti, «la piccola s’è intestardita che vuole studiare lettere. E poi, anche ai tempi miei ci toccava la gavetta… Alfredo, dove vai?»
La radio è spenta e il taxi non si ferma.
«Ha ragione, dottò» dice Alfredo, che ha una voce da basso lirico e la guida lenta, rassegnata, «’sti giovani hanno proprio stufato. Glielo dico io che ho un figlio all’estero, come lei. Il mio ha la triennale in fisica e intanto fa il cameriere. Dottò, lei sa i sacrifici che si fanno per i figli, e i sacrifici che fanno i figli per sudarsi un 110 pure senza lode, per lavorare quasi gratis nei tirocini, per imparare ’st’inglese che io, mi creda, non so manco dire buongiorno.»
«Ci credo, Alfré.»
«Ecco. Ma io ho detto a mio figlio: e che, non ce li abbiamo qua, i ristoranti? Papà, mi fa, le lingue sono importanti, la pratica, la gavetta… Giusto, dottò? E io: ma stai tranquillo, un domani ti intesto il taxi, ti passo la licenza… Lo sa che mi ha risposto? Che lui vuole fare altro, nella vita; che tutti iniziano così e poi trovano la loro strada. E qua non è lo stesso? gli ho detto, non si deve partire da zero pure qua, come ho fatto io, o come ha fatto lei, dottò, nello studio di famiglia, che lo porta avanti dal 1880?»
«Dal 1870, veramente.»
«Meglio ancora. No, m’ha risposto quell’ingrato: non ci provo nemmeno. Tanto lo so, che qui non c’è futuro.»
Il taxi accelera di colpo per anticipare un semaforo rosso.
«Io lo guardavo e non gli rispondevo più. Che possiamo dire a ’sti figli, dottò? La verità? Che dovrebbero resistere anche se non li possiamo aiutare? Che dovrebbero insistere, co’ ’sti sacrifici, anche se noi siamo i primi a prenderli in giro? Che l’Italia che io e lei, dottò, ci siamo mangiati, la possono ricostruire solo loro, faticando più di noi?»
«Alfré, io dovrei scendere.»
Il taxi fa un altro giro dell’isolato.
«No, dottò: mio figlio si piangeva addosso già abbastanza così. Allora sa cosa ho fatto io, da padre? L’ho lasciato andare. E ora mio figlio sta là, a Londra, e siccome il lavoro non lo spaventa, al ristorante gli hanno offerto un contratto a tempo indeterminato.»
«Me ne compiaccio, Alfré. Ora accosta.»
«Eppure, dottò, mio figlio è contento solo a metà, ci crede? Perché, anche se non lo dice, io lo so che gli manca casa sua.»
Il taxi accosta, si ferma, tace.
«E poi finisce che si sentono ’ste cose…» mormora Alfredo, con uno sguardo buio verso la radio.
«Quanto ti devo, Alfredo?»
«Ha ragione lei, dottò» continua il tassista, che si guarda le mani sulle ginocchia, «certo che non c’è futuro, se qua restiamo solo io e lei, con la nostra saggezza di padri, a fare il giro del solito isolato
Silenzio. L’avvocato aggiunge una banconota al prezzo della corsa.
«Beviti un bicchiere in onore di tuo figlio, Alfré. Devi essere fiero di lui.»
«Lo sono, dottò. E, a proposito» risponde Alfredo senza girarsi, «dato che stavolta l’ho fatto apposta davvero, a sbagliare strada, questa corsa gliela offro io.»
L’avvocato esita, poi scende e chiude piano la portiera.
Sul sedile, un poco gualcito, il curriculum di Ugo Speranza.

 

Questo è l’articolo che ha ispirato il racconto: Londra: 18enne genovese trovata morta nel suo appartamento. Si chiamava Benedetta Podestà. A un anno dalla sua morte, le indagini erano ancora ferme.

(Photo credit: Modelcarsmag.com)

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di
Matteuccia Francisci

 

«Beeeee!» DLAN! DLAN! DLAN! «Beeeee!!!»

Ma che cazz… Alzo la mia stanca faccia dalle mie letture resistenti all’idiozia al suono di un… belato?

Oibò. Alla mia sinistra avanza una capra.

Ma che è, la pubblicità delle caramelle alle erbe? No, eh, io non voglio apparire in nessun video capitalista. Per quanto, se mi dessero qualche soldo mi farebbe comodo, ’sto periodo. In fondo, le caramelle alle erbe so’ bone.

E so’ pure socialiste, secondo me.

«Beeeee!!!» DLAN! DLAN! DLAN!

La capra ha un campanaccio attaccato al collo e pure un cartello. Si ferma proprio davanti a me. È bella, pure se puzza un po’ e le sue zampe non sono proprio pulite. Sul cartello ci sta scritto:

 

Un piccolo aiuto per le capre di Palmaria!

Hanno deciso di sgomberarci dall’isola perché saremmo nocive per l’habitat. Ma ci hanno portato loro, sull’isola. Rischiamo di morire se non troviamo un’altra sistemazione. 

Anche 20 centesimi ci aiutano.

 

La capra mi guarda dritto negli occhi e poi: «Beeeee!»

Uomo 1: «Ma che è ’sta puzza?»

Donna 1: «Aò, ma che è ’sta capra?!»

Donna 2: «Oddio ma che semo matti? Me fa pure paura, mo’ chiamo la polizia.»

Uomo 2: «Ma sarà ’na pubblicità, nun sanno più che inventasse, pora bestia.»

Donna 2: «Ma quale pora bestia! Chissà quante malattie porta, io chiamo i carabinieri.»

Guardo la capra che sta ancora ferma davanti a me e dico: «No, tranquilli, è un flash mob dell’ENPA» e sfodero la mia tesserina con la faccia del lupo sopra, n’altro che avemo reintrodotto e mo je sparamo.

Uomo 3: «De che? È robba tua? Guarda che io te denuncio, mica se ponno portà l’animali selvaggi in metropolitana.»

«Beeeeee!»

La capra fa due passi e quattro DLAN!

Uomo 2: «Ah, l’Ente Protezione Animali! E di cosa si tratta?”»

«Beeeee!»

La capra torna verso di me e mi fissa.

Donna 1: «Ao’, a me nun me ne frega gnente de che se tratta. Puzza, portatela via.»

Mi alzo in piedi nel mezzo del vagone a Re di Roma e dico: «Signore e signori, un attimo di attenzione per favore. Questo è un flash mob per le capre dell’Isola di Palmaria, di cui Clementina qui accanto a me è una rappresentante».

“Beeeeee!”

«Grazie Clementina. Le capre devono essere spostate dall’isola per preservarne l’habitat, ma per evitarne l’abbattimento stiamo chiedendo a tutti un piccolo contributo.»

DLAN! DLAN! La capra si avanza tra la folla.

«Ma che vòi, ma pòrtate ’sta cosa fori de qua». È un ragazzo col bomberino color ghiaccio e le scarpe brutte, e dà una manata sulla groppa della capra.

«Beeeeeeeeee!?»

Clementina si gira verso il bomberino con le sue corna ritorte e forti. Bomberino istintivamente si tira indietro, si vede che se la fa un po’ sotto, ma dice: «Aò, te la vòi portà via prima che la sgozzo?».

Faccio segno alla capra di lasciar perdere e mi avvicino alle porte di Vittorio Emanuele. Scendiamo insieme tra un DLAN! e l’altro.

«E manco oggi amo fatto ’na lira, eh?»

«Eh no, Clementì, manco oggi. Tocca proprio trovà un lavoro.»

«Annamo proprio beeeeene.»