EROE – ULTIMO CAPITOLO (parte 1)

di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi: eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri.

…My need is such I pretend too much / I’m lonely but no one can tell / Oh yes I’m the great pretender (ooh ooh) / Adrift in a world of my own (ooh ooh)…

Grande Freddie. Brividi: ogni volta che lo ascolto mi vengono i brividi. E il viaggio sul 766 scorre rapido. Rapido e indolore… anche se tra tutta ‘sta gente rimanere in piedi è un po’ come fare l’equilibrista: sembro un circense. Tiè, guarda che equilibrio, neanche gli scossoni del 766 che s’impantana nelle pozze grigie che la pioggia battente ha riempito per tutta la giornata mi spaventa.

I’m wearing my heart like a crown / Pretending that you’re still around…

Yeah ooh…

«Ah, i Platters! Gran gruppo: ricordo che da giovane era uno dei miei pezzi preferiti… eh, gli anni ’50» fa all’improvviso il signor Alfred, e la sua voce mi giunge come dalle cuffiette del cellulare che, nel frattempo, ha fatto partire Rockin’ Robin.

«Signor Alfredo, buonasera. Non l’avevo vista, ma speravo di incontrarla. L’ultima volta mi ha lasciato con l’ennesimo interrogativo aperto: ho il cervello in bilico come un trapezista – ancora paragoni circensi, penso – e non vorrei cadere, insomma…»

«…eh sì – continua Alfred, come perso nei ricordi – gli anni ’50… sembrano passati più di 50 anni. Eh R,. ascolti buona musica, bravo. D’altronde l’animo dell’artista lo hai sempre avuto, lo hai ereditato dai tuoi.»

I miei? Un insegnante di asilo e una logopedista? Cosa c’è di artistico nella logopedia, mi chiedo. «Signor Alfred – provo a svegliarlo dalla sua estraniante estasi, quasi psichedelica – cosa c’è di artistico nella logopedia?».

Niente. Non mi guarda, non risponde: è nel suo mondo.

«Vedi R., non appena si accendevano le luci tutt’intorno, il pubblico rimaneva muto, occhi e mente fissi a quel cielo blu pastello. I tamburi rullavano, i clown smettevano per un attimo le loro pagliacciate, le tigri si calmavano, gli elefanti, muti, alzavano le loro proboscidi: mentre loro volavano, roteavano nell’aria, si scambiavano sguardi e posizioni, cenni e piroette. Era la magia dell’equilibrio disegnata sulla linea dei sogni. Erano perfetti lassù, a volteggiare tra le stelle.»

«Guarda – fa poi, riprendendosi e tirando fuori dal portafogli una vecchia e sgualcita fotografia – ero come uno zio, per loro. Questa la scattammo il giorno prima che… vedi? C’è la data…»

16-05-1990: una giovane coppia sorride all’obiettivo e al centro, come ad unire i due, un bimbo. Indice in bocca, sguardo accigliato e cappuccio rosso della felpa sulla testa, tiene le loro mani e quasi non fa caso alla posa da assumere.

Ma certo, penso con aria intenerita, il buon vecchio Alfredo sta pensando a questa famiglia di circensi, probabilmente suoi parenti. «16 maggio del ’90, io avrò l’età di questo bambino qui. Ma chi sono? Ma poi il giorno prima di cosa? Che è successo il 17 maggio?»

Ora sono curioso. Dannato Alfred, è riuscito di nuovo a mandarmi in tilt il cervello…

How many roads must a man walk down / Before you call him a man…

Su queste note, intanto, il 766 riprende la sua marcia, lenta quest’oggi, compassata e nostalgica, quasi. Come ad accompagnare il tutto, inizia a piovere e, dal finestrino semi aperto del bus, qualche goccia, tonda e lieve, cade sulla fotografia. «Ogni volta – fa Alfred senza riuscire a nascondere il leggero tremolio che condiziona le sue ruvide mani – ogni volta che parlo di loro, il cielo se ne accorge. La domanda, caro R., non è chi sono loro ma chi sei tu. R., chi sei tu? Hai ancora lo stesso sguardo accigliato, ogni volta che non capisci. Ricordi?

Nelle notti buie e nere sta avanzando un cavaliere/ non ha sella né cavallo ed è nero il suo mantello/ Lotta contro l’ingiustizia, la sua arma è la furbizia./ Non è solo ma ha scudiero che lo segue sul sentiero/ sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme…»

«…Batman e Robin!». Chiudo quella filastrocca sciocca quasi senza pensarci, con naturalezza, e la cosa mi spaventa. «Come… come sai – domando ad Alfred con la bocca impastata di ricordi – questa canzone? Signor Alfredo, chi sei?». Quelle stupide rime avevano risvegliato dentro di me un vortice di immagini lontane, sfocate. Quelle strofe… le conosco benissimo, ma non ho idea del perché. Le immagini nel mio cervello, inizialmente annebbiate, si fanno più nitide: un letto, il mio probabilmente, ed una donna… mia madre. Ma non quella che conosco, non quella che mi aspetta a casa e che ritrovo ogni sera, non la logopedista… no. È diversa, e ha… il mio stesso sguardo. Canta. Canta questa filastrocca, la sussurra quasi e mi abbraccia. Ora in un vicolo… dopo una serata passata… al circo. Ancora mia madre e c’è anche mio padre… il mio vero padre. Mi abbracciano entrambi… e con l’ultimo respiro intonano ancora questa maledetta, ingenua, meravigliosa storiella. Voglio urlare, forse piangere, ma riesco solo a fissare Alfred ripetendo a mente le ultime due strofe.

«Guarda R., guarda qui» Alfred mi porge una seconda foto. C’è ancora quel bambino, un po’ più grande. Ha sempre quella felpa con il cappuccio rosso sulla testa. L’espressione è arrabbiata, il volto corrucciato. Appoggia la mano su un antico pianoforte sul quale sta una cornice: dentro, un’immagine di due equilibristi che, in aria, si congiungono in un eterno abbraccio. «Questa è casa mia, Robin, e questo sei tu, vedi?» mi domanda toccandomi la cicatrice sul sopracciglio destro che, ormai, non ricordavo neanche di avere: la stessa del bambino nella foto che si scorge, in primo piano, poco sotto il lembo del cappuccio.

«Qualche giorno dopo, dall’ospedale in cui ti trovavi, ti portarono da me: ero l’unico “parente” che avevano i tuoi, un vero e proprio zio per loro e anche per te. Ma non potevo accudirti per sempre: il lavoro dal signor B. mi allontanava costantemente e nonostante ti portassi con me quell’ambiente non era adatto per un ragazzino. Certo, ti dimostrasti utile con lui, lo aiutavi, imparavi e crescevi ma, arrivato ai 10 anni avevi anche bisogno di… di una vita normale, ecco. Così ti affidammo alla famiglia che ti ha cresciuto fino ad oggi: è grazie a loro se hai superato quel trauma, ma contemporaneamente hai anche dimenticato chi sei, per vivere un’adolescenza più felice, normale. Ma ora B. ha bisogno di nuovo te, perché…

sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme Batman e Robin…».

Come evocato dai ricordi, dalla nebbia mentale che mi attanaglia o dalla pioggia che il cielo continua a far cadere sul 766, che ormai viaggia in un non-tempo all’interno di uno spazio che racchiude solo noi e il nostro mondo, tra la folla spunta Batman.

«Ultima fermata, Robin. Bentornato.»

[continua…]