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di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Ero solo nella mia macchina e potevo guardare dal finestrino: succedeva tutto senza un vero motivo.
Succedeva tutto e basta.

Già da qualche giorno, sui social e in tv, iniziavano tutti a parlare di questa fine del mondo, di una specie di esplosione. Forse una profezia scritta con il sangue.
Avrebbe dovuto ucciderci tutti, ma c’è qualcuno che ci crede davvero a queste notizie? Gente che si gioca tutto quello che ha, immaginando che il giorno dopo sarà ben che morta? Non credo proprio.

Comunque, quel pomeriggio, mi ero messo in macchina per andare a comprare un panino o un pezzo di pizza. Non avevo troppa fame, giusto un buchetto scomodo da riempire.

Ero nel traffico, con la freccia che ticchettava, una canzone merdosa che scorreva fuori dalla radio, quando vidi, dallo specchietto, il fuoco.
Una specie di bomba, uno scoppio assurdo.
Prima fuoco, poi rumore.

Per qualche attimo non riuscii a sentire nulla, pensavo di essere diventato sordo. Ogni oggetto, per me, aveva perso i suoi confini e il mondo mi sembrava una massa unica. Quasi un flusso uniforme. Solo colori diversi. Come quando, a scuola, da bambino, creavo delle enormi palle con plastiline di diversi colori. Il risultato finale era piacevole, ma confusionario.

Per qualche minuto rimasi immobile.  Non riuscivo a costruire un pensiero, a passare da un nodo ad un altro. Una bomba, un pazzo esaltato, la fine del mondo: non potevo saperlo. Avevo solo visto uno scoppio dallo specchietto. Avevo quasi perso l’udito per l’esplosione.

La gente urlava, usciva dalle macchine e scappava.

Mi rimisi in marcia. Ero inutile e avevo, comunque, pur sempre fame. Esplosione o non esplosione, pizza o panino.

Sciami di camion dei vigili del fuoco, di macchine della polizia, di ambulanze, sfrecciavano nella corsia opposta alla mia, vuota.
C’ero solo io, con la mia vecchia macchina e la voglia di mangiare qualcosa. Non troppo, un boccone.
Giusto lo sfizio pomeridiano.

Un pazzo si era fatto saltare in aria. Ormai non era più una novità così cruda. Si sa che esistono, l’hanno già fatto e lo rifaranno.
Che senso ha perderci la testa dietro?

Poi la gente a cui piace guardare le catastrofi: ecco, quelli non li capisco proprio. C’è qualcuno che ancora sostiene che l’uomo nasce buono, che cattivi si diventa, che Dio ci vuole bene, però poi scoppiano le bombe alle sei del pomeriggio.
In un giorno sceneggiato come tutti gli altri, mentre uno vuole solo mangiare un boccone.

Misi la freccia a destra, ormai arrivato al piccolo negozio.

Fuoco, dallo specchietto. Ancora.
Forse, se possibile, anche più forte del primo scoppio. Frenai di botto a causa del rumore.
Sentivo la testa scoppiare.

Un’altra bomba? Non ci capivo più nulla con quel dolore assurdo alle orecchie.

C’erano urla ovunque.
Il locale “della felicità”, della mia felicità almeno, era chiuso o comunque abbandonato: la gente pensava a scappare, non a sfornare pizze o panini. Allora uno che ha fame cosa diavolo deve fare?
Può essere anche la merdosa fine del mondo, ma uno deve pur riempire i buchi allo stomaco o no? Almeno moriamo sazi.

La strada era vuota. Da brividi.

Cercavo di capire la situazione, ma c’era solo confusione e di tornare indietro, verso casa mia, non se ne parlava proprio.
In quel momento realizzai che casa mia, probabilmente, non era più in piedi. Che quel fuoco doveva aver avuto effetto anche su di lei.
Bombe di merda.
Almeno la macchina era salva.

Non ricordo bene cosa mi passasse per la testa in quel momento. Avevo solo una strada dritta davanti a me e una città infuocata dietro.
Non c’era troppa scelta.

Iniziai a tirare con l’acceleratore.
Non che fossi un grande conoscitore di strade, ma se si va dritti si arriverà sempre da qualche parte. Magari ad una città vicina dove trovare una pizza veloce o un panino, al massimo un tramezzino.

Vidi una donna sulla strada.
D’altronde, c’eravamo solo io e lei.
Era sul ciglio che chiedeva un passaggio, con il pollice in su: vecchia scuola.
Misi la freccia per accostare, sempre ligio alle regole.

Terzo scoppio.
Fuoco, poi il solito rumore, forte, da orecchie bucate.
Non riuscii a frenare per bene.
Quella salì al volo, mentre la macchina ancora camminava e subito ripresi a massacrare l’acceleratore.

«Indiani del cazzo» mi disse la vecchia.
«Crede che siano bombe?»
«Cosa cazzo dovrebbero essere?»
«La fine del mondo, dicevano al tg».

Era abbastanza incazzata con il mondo ma almeno non puzzava.
Era sempre quello il mio problema con gli autostoppisti: la puzza.
Di solito non si lavano e sono sudati da morire. Se c’è una cosa che non sopporto è proprio dover guidare con una puzza costante di sottofondo, non so mai come uscirne.
Quella non puzzava come un autostoppista, perchè non lo era.

Era solo una vecchia che si faceva una passeggiata su una strada a scorrimento veloce.
Non  sapeva nulla della fine del mondo. Era convinta fossero indiani del cazzo, anche se non capivo il maledetto collegamento.

«Indiani del cazzo, sono troppi, ci vogliono mangiare».

Alla fine era vecchia abbastanza per poter dire quello che voleva. Erano solo parole di pura follia.
Forse aveva perso il cervello, forse il tempo l’aveva rosicchiato, poco alla volta. Giorno per giorno.

La nuova città faceva abbastanza schifo.
Sembrava tutta uguale. Le luci erano spente e non c’era nessuno in giro.
Solo io e la vecchia, nel mio carro a motore.
Diceva che la figlia abitava in quella zona. Voleva trovarla.
Doveva avere anche una bambina, ma non un marito.
Mi faceva fermare, si guardava intorno e mi faceva ripartire.

«Più avanti, è più avanti quella merda di palazzo».

Diceva sempre così. Io non avevo idea di dove stessimo andando. Avevo la sensazione che quella fosse totalmente fuori, ma non volevo contraddirla.

«Gira a destra ora».

Tirai su la freccia.
Dallo specchietto vedemmo il fuoco, poi, collegato da un filo invisibile, arrivò il rumore “spacca orecchie”.

 La vecchia continuava ad urlare questa frase.
Come un’isterica.
«Indiani maledetti del cazzo».
Mi faceva paura, quasi più della fine del mondo.
Sbatteva i pugni contro il finestrino, lasciava scorrere le unghie, come la strega di qualche fiaba.

A destra non potevo più girare. Saremmo finiti dritti nel fuoco.
Ripresi a massacrare l’acceleratore e continuai dritto.
La vecchia fissava il fuoco, in velocità. Fissava sua figlia, forse vera o forse no, ma comunque morta. Fissava la sua nipotina bruciata.
Vittime della fine del mondo, come tutti.

Mi sembrava quasi di essere al sicuro nella macchina. Sentivo che se fossimo usciti, respirare quell’aria ci avrebbe uccisi.

La vecchia non sembrava pensarla come me.
Tirò il freno a mano, con una forza impressionante per quelle braccia solo ossa. La macchina sbandò e si fermò, girando per un poco su sé stessa. Le urlai qualcosa contro, ma non mi stava proprio a sentire.
La vecchia scese.
Non morì, non eravamo sulla Luna.

Si mise in ginocchio e guardò il fuoco dietro di noi.
A quel punto scesi anche io, mi accesi una sigaretta e guardai lo spettacolo.

La fine del mondo.
Mi sembrava di essere in spiaggia o ad un cinema all’aperto.
La puzza di bruciato, però, era fastidiosa. Il fuoco sembrava aver voglia di bruciare tutto. Sembrava avere una fame pazza.
Non lo sfizio pomeridiano, ma un pranzo di Pasqua fatto bene.
La vecchia stava zitta, fissava solo.
Forse pensava agli indiani o alla figlia.

Dopo la sigaretta rientrammo in macchina e tornai a massacrare l’acceleratore.

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di Antonella Dilorenzo

Illustrazione di Simona Settembre


Ho visto un morto sul ciglio della strada.
È successo ieri sera mentre tornavo dall’appuntamento con rocky43,
il coglione di Tinder di cui mi ero innamorata per il suo viso orientale.

Era figo in foto. Peccato che solo all’incontro abbia scoperto che quelle cazzo di foto non erano sue, ma di Nagase Tomoya, un giapponese famoso.
Me l’ha detto, si è scusato.
Ma la serata è andata a finire male: la conversazione si è interrotta a metà Spritz.

Viaggiavo a velocità sostenuta con la mia Matiz scassata che sta venendo via a pezzi. “Mai una gioia”, pensavo, quando all’imbocco del raccordo dall’Aurelia ho inchiodato di botto incolonnandomi in una fila infinita di auto che procedeva a passo d’uomo.
Niente di nuovo. Traffico noioso. Vita noiosa.
A Roma è così: rimani incolonnato per ore nel traffico e non sai mai il perché. Arrivi alla fine della fila con l’ansia di conoscere il motivo, e magari non c’è nulla. La colpa è solo degli automobilisti curiosi che rallentano per guardare magari un cane che passeggia, o un tipo che piscia sulla corsia d’emergenza, oppure carabinieri in procinto di fare l’alcol test a qualche ragazzino. Rallentano, commentano da soli o con il passeggero accanto, e poi riprendono la loro velocità. Se c’è una situazione grave o qualcuno in pericolo, il rallentamento può solo aumentare. Credi che almeno qualcuno si fermi ad aiutare, per esempio, ma nulla.
Solo lunghe colonne di macchine lente.

Stavolta la questione era seria.
No cane, no piscio.
C’era un morto sul ciglio della strada e i curiosi erano tanti, ma nessuno accostava per fare il proprio dovere.
Nulla.
Era coperto con un telo bianco. Solo, immobile.
Tutti abbiamo bisogno di una degna sepoltura. Pure lui.
Mi è preso il panico.

Superato il morto, ero tra Montespaccato e Casalotti/Boccea e non potevo lasciarlo lì da solo. Ho deciso di prendere la prima uscita e rifare il giro.
No, non ho paura dei morti.

Il primo cadavere l’ho visto a 7 anni, quello della nonna Rosetta. E di lì in poi è cominciata la serie funerea della mia famiglia e dei vicini di casa, tutti anziani.
Ho visto nonno Filomeno morto stecchito dopo essersi scolato un cartone di Tavernello; la comare Agatina, pure lei morta sul colpo dopo essere caduta all’indietro trasportando otto forme di cacioricotta nella sporta.

I morti non mi fanno paura. Tant’è che andare ai funerali era diventata una festa di paese: rivedevo i miei cugini, e i nipoti dei
vicini. Tutti insieme a giocare fuori dal cimitero mentre seppellivano il vecchietto di turno. I morti non mi fanno paura e quello andava assistito. Era una questione di principio: perché nessuno si ferma?
Che stronza la gente!
Volevo dare anche un senso a quei venti minuti di fila che mi ero fatta per aspettare le comari che guardavano senza avvicinarsi.

Superata l’uscita di Montespaccato mi sono messa sulla corsia destra procedendo a 30 km/h circa onde evitare di perdermi il corpo esanime. Sarei andata lì, avrei preso i documenti, il cellulare e avrei chiamato la
Polizia.
Procedevo lentamente, e tra lampeggianti e colpi netti di clacson alle mie spalle, ho trovato il mio morto.

Ho accostato in corsia d’emergenza, sono scesa dall’auto lasciando i fari accesi puntati sul cadavere e mi sono avvicinata. Lungo, steso sull’asfalto c’era un telo bianco, uno di quelli che si usano per fare gli striscioni da portare allo stadio. Il morto non mi è parso coperto bene, il telo era disordinato.
A debita distanza con il pollice e l’indice della mano destra l’ho sfilato facendomi coraggio. Grande respiro. Uno, due, tre, via.

Sotto c’era l’asfalto.
Era solo un telo. Aggrovigliato. Nessun morto.
L’ho sgrullato d’istinto come a voler cercare quel cadavere: ma come?
Io avevo visto il morto!
Ma l’unica cosa reale era la scritta su quello striscione:
“Genitore 1, Genitore 2 #iosonogiorgia”.

Ho lanciato il drappo del cazzo in aria e mi sono infilata in auto.
Ho preso dalla borsa la bottiglia d’acqua e nel cercarla mi è caduto tutto: chiavi, rossetto, fazzoletti e la custodia dei miei occhiali da miope.
Con dentro gli occhiali da miope.
Li avevo tolti per mostrarmi più bella al finto giapponese.

Li mortacci sua!