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di
Jolanda

 

Ci si aggrappa ai corrimano dell’autobus, dei tram, ci si aggrappa al corrimano delle scale, ci si attacca alla balaustra per non cadere, ci si attacca alla vita, alla maniglia della porta prima di chiuderla, prima di aprirla per prendersi il tempo di un ultimo respiro.
Ci si aggrappa per non perdere l’equilibrio, per provare l’adrenalina della frenata improvvisa senza dover sputare un molare disteso sul pavimento.
Ci si attacca anche al cazzo. 

Quel giorno era stato così. Immagine a campo lungo del tunnel dei vagoni della metro in fila ed io, punto di fuga, in piedi nell’ultimo vagone.
Non c’era giorno, non c’era notte, era uno di quei giorni al neon, di quei giorni istituiti proprio nel progetto della creazione in cui dio oltre al sole ed alle tenebre gridò “Neon!” e neon fu. 

Ero aggrappata al più sudicio degli appigli, sbarre, come li volete chiamare, e stavolta mi aggrappavo forte, così forte che sembrava quasi piacermi, sembrava darmi la stessa sicurezza di una mano, tanto da farmi dimenticare tutta la brulicante popolazione batterica.  

Che fastidio; maledizione che fastidio. 

Questa gonna è troppo corta, perché l’ho messa, perché era nell’armadio? 

Ah sì, la mettevo con lui, me ne fregavo se la mettevo con lui, mi riparava dagli sguardi sferzanti e poi mi piaceva. Sì, mi piaceva il fatto che gli piacesse questa dannata gonna corta (oddio ma perché l’ho messa).  

Stridio di freni e strattonata.  

Tipico. Siamo vicino Anagnina allora.  

L’ho imparato da quando ho sbattuto la faccia a terra l’ultima volta e ben mi sta.
Aveva ragione a dirmi che gli avevo rotto il cazzo con questa storia della fobia dei germi e del non riuscire a toccare niente, dell’appendermi al suo braccio ogni volta.
Ma come dice quella zia che non ho mai visto “non tutti i mali vengono per nuocere” almeno avevo una scusa per il livido sull’occhio, e sul braccio. 

Frenata.  

Non voglio cercare più scuse. 

Fortuna che mi aggrappo da sola. 

Mo’ la butto sta gonna.