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di Leonardo Vigoni

Illustrazione di Simona Settembre

Piede sull’acceleratore.
La lancetta segna 90km/h fissi ormai.
Il buio della notte ti permette di vedere fino a dove arrivano i fari.

La strada è tortuosa e stretta, riesci a sterzare senza prendere il guardrail per un soffio. Conosci bene la strada.
Corri più veloce che puoi, ora è a 110km/h.
L’abitacolo è diventato un inferno: l’aria condizionata a palla per spannare il parabrezza soffia da fin troppo tempo.

Doppia curva stretta.
Perdi aderenza e l’auto scoda un po’.
Mani salde sul volante, riesci a tenere la traiettoria meglio che puoi.
Ora solo rettilineo ricordi, tiri un sospiro di sollievo con l’idea di accelerare ancora per fuggire più veloce.

Curva a gomito.
Il rettilineo era più avanti.
Non puoi evitare l’impatto con la lamiera bordo strada.
Viene divelta insieme a metà della parte anteriore della tua auto, un frammento sfonda il parabrezza.
Un salto di una ventina di metri, il silenzio infrange il frastuono dell’impatto. I fanali illuminano intermittenti il suolo che si avvicina istante dopo istante.


Un tonfo assordante segna la fine della caduta, il muso dell’auto si accartoccia a contatto con il suolo.
Un secondo tonfo, più morbido, l’auto è ora ribaltata.
Nella tua testa risuona l’intera orchestra angelica con le sue trombe.
Il suono è troppo forte, vorresti quasi colpire più forte che puoi la testa contro un muro, pur di fermare tutto questo.
Se solo non fosse, appunto, dovuto all’impatto con il volante quando hai sfondato il guardrail. Gli airbag e la cintura di sicurezza ti hanno salvato dalla caduta.
Senti le ossa del tuo corpo come se si fossero rotte tutte insieme in un istante.
Riesci a stento ad alzare il capo dal cuscino bianco in cui è avvolto.

Il sangue offusca parte della tua vista, da un occhio non vedi proprio.
La lamiera nel parabrezza si è conficcata tra la tua spalla destra e il collo, ma non in profondità. Nonostante il dolore infernale che senti muovendo il braccio, riesci a slacciare la cintura di sicurezza, con l’altra apri la portiera.
Rovini a terra su un fianco, per poco non svieni.

Riesci a vedere la strada illuminata dalla Luna, affacciata timidamente da dietro una nuvola come se avesse paura di vedere in che condizioni tu sia.
Lo vedi, lì, eretto proprio dove l’auto ha sfondato le barriere.
Ti sta fissando, lo sai. Lo senti.
Fai appello a tutte le tue forze, le ossa scricchiolano mentre tenti di alzarti, i muscoli gridano come anime dannate in pena, il sangue nelle tue orecchie tuona come tamburi da guerra. Un piede, poi un altro.
Ti aiuti con quel che resta della tua auto, sei finalmente in piedi.

Il solo pensiero di fare un passo in avanti è inconcepibile.
Guardi di nuovo su, non c’è più.
Il cuore salta un battito, sai che non puoi restare lì.
Le gambe si muovono da sole, ogni volta che poggi il piede a terra è una pugnalata al petto.
Zoppichi tra gli alberi, la fronte e la spalla perdono sangue gocciolando una scia scura dietro di te. Vaghi con i suoi fruscii attorno a te, senti i rami spezzarsi al suo passaggio e il tonfo dei suoi passi sempre più vicini.

Luce.
Un lampione stradale illumina un incrocio non troppo distante da te.
Vedi un auto ferma a rispettare lo stop.
Non importa il dolore, devi raggiungerla.
Si sta avvicinando sempre più.

Cadi a terra dopo aver scavalcato il guardrail, ti trascini fino all’auto, in moto ma ancora ferma. Ti tiri su in ginocchio, apri la portiera.
Non c’è nessuno dentro. Non importa.

Riesci ad issarti su con le ultime energie e sbatti violentemente lo sportello. È oltre la strada, in penombra, fuori dal cono di luce del lampione.
Il suo sguardo ti trafigge fino alle viscere.
Il silenzio tra voi due con in sottofondo il motore dell’auto in funzione sembra fermare il tempo. Qualche secondo, un paio di minuti, ore.
Non sai quanto tempo siate rimasti a fissarvi.
Muove un passo, ora è sul limitare della strada.
Tiri giù il freno a mano e parti.

Piede sull’acceleratore.
La lancetta segna 90km/h fissi. Conosci la strada.
L’abitacolo è caldo come l’inferno.
Una lacrima scende sul tuo viso.
Il volto di tuo figlio sul sedile di fianco a te, senza cintura e tra le braccia di Morfeo.
Impatti contro il guardrail alla curva a gomito.
Così come hai fatto,
così in eterno.

Liliana Brucato - Ombretta View More

di Eleonora Santamaria

Illustrazione di Liliana Brucato


Trentotto minuti ogni giorno da Anagnina a Battistini in metro A, nelle ore di punta, quando non si distinguono i propri piedi da quelli degli altri.

Ombretta vedeva dietro di sé una massa indistinta di cappotti, giornali e cellulari, un organismo pluricellulare che si spostava con diecimila scarpe, tutte in ritardo.
Fino a qualche anno fa, anche lei era costretta a stare al centro della folla; cartella di cuoio e occhi verdi, invisibile.

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura?
Per Ombretta, in metro, significava sapere cosa la folla avrebbe mangiato a pranzo, nelle loro valigette che fingevano di contenere documenti, invece trasportavano cotolette e insalate di riso.
Nei trentotto minuti Anagnina-Battistini, Ombretta diventava, nel migliore dei casi, un sostegno per i gomiti di chi non aveva fatto in tempo a lavarsi le ascelle; nel peggiore, non aveva scelta su dove andare, trota in un mare di pesce spada, si ritrovava sulla banchina sbagliata, scendeva dalla metro, agganciata a qualche ombrello, a qualche zainetto, a qualcuno con più odio in corpo del normale.
Ogni volta, lei si scrollava di dosso l’umiliazione e ripartiva verso il call center dove avrebbe dovuto cominciare il turno.

La sua voce non era bassa;
quando la ringraziavano a telefono senza dirle “adorabile”, “piccola” o “chicca”, sentiva in gola il sapore dell’emancipazione.
In trent’anni le avevano cucito addosso tutti i nomi più piccini, infiocchettati e offensivi che si potessero concepire.
Al liceo era “la tipa alta un metro e una ciabatta”;
all’università, con gli omini con cui usciva “non era un problema che fosse così bassa”, eppure lei non aveva mai detto loro che non fosse un problema che fossero così stupidi.
Al lavoro, per la nuova policy politicamente corretta dei call center, era quella dai pizzicotti sulle guance, la mascotte, il jolly, mai una carta vera, mai la regina di cuori.

Quella mattina in metro, poté concedersi il lusso di occupare lo spazio vitale che il suo metro e mezzo richiedeva; aveva il turno dalle sei a mezzogiorno, certo, si sarebbe presa le maledizioni delle persone svegliate dalle telefonate alle sei, ma in metro poteva prendersi la sua vendetta.
Era il conte di Montecristo sui binari.
Seduta con le gambe e le braccia a stella, allungava schiena e collo per i centimetri che meritava. A Re di Roma, una signora si era seduta accanto a lei, una sfida, forse; le occhiaie di chi stava tornando e non andando da qualche parte e la ricrescita grigia, le sorrise; Ombretta la perdonò.
La donna delle occhiaie abbassò lo sguardo sui piedi penzoloni di Ombretta, poi cercò i suoi occhi.
Sentiva chi era, l’aveva riconosciuta come essere umano, al di là della bassezza, al di là di tutto, forse.
“Certo che sei coraggiosa a uscire… così”

La compassione.
Ecco cos’era quello sguardo.
Ombretta aveva il cuore gelato.
Decise che basta così, non le bastava prendersi le rivincite graziose mentre nessuno guardava, all’alba, a stella.
Lei non era coraggiosa a uscire di casa; anzi, aveva deciso di punire il disagio e la compassione degli abitanti della metro che la incrociavano.
Li avrebbe sottoposti tutti i giorni alla sua presenza bassa, magari avrebbero ragionato su come si sentivano, su come la trattavano.
Dopo un po’ di tempo, si sarebbero vergognati del loro disagio, della pietà, dei pizzicotti sulla guancia, delle ascelle altezza fronte, non più della mia fronte altezza ascelle.
La madre l’aveva sempre chiamata “topina”, lei avrebbe combattuto nel sottosuolo: sarebbe diventata autista di metro.

Superò le perplessità dei parenti, il primo, il secondo, il terzo colloquio ed ecco il suo primo giorno di lavoro: metro A direzione Anagnina.
«Sarà ‘nturno difficile, subbito dopo la quarantena» le avevano detto, ma le sembrarono parole in replica.
Si posizionò al suo posto di guida, solo una vetrata grigiastra la separava dalla folla, Ombretta in vetrina.
Dopo le prime due fermate, il primo vagone aveva iniziato a sussurrare della fatina che guidava;
il secondo di Campanellino al comando;
il terzo di un pasticcino autista.
Tutti gli altri vagoni si spostarono dietro alla vetrata per assaggiare con gli occhi la delizia della bassa.

Ombretta neanche si accorse della gente, l’una sull’altra, con il naso attaccato allo sporco del vetro.
«Aò, è la prima cosa carina dopo tutto sto periodo de merda! Io me la pijo» si sentì a Termini e la folla spalancò la porta che la divideva da Ombretta.

La presero sotto le braccia e se la passarono tra loro, lanciandola da una testa all’altra del primo vagone.
Ombretta si agitò, protestò ma la sua voce aizzava la folla.
Uno di loro, dopo aver rubato la scarpa dell’autista, ne sentì il profumo e nella frenesia esclamò: «Me la magnerei».
La gente smise di passarsi Ombretta ed emise un unico enorme sospiro d’amore, tutte le pupille si riversarono sull’autista, affamate di gioie, di chicche, di fatine e pasticcini.
Ombretta si sentì gazzella nella savana, urlò e li maledisse tutti: sarebbero morti a breve, li avrebbe uccisi tutti.
La metro A direzione Anangnina, ormai senza autista, si schiantò a San Giovanni; non sappiamo se la folla riuscì, prima di morire, a mangiare Ombretta.