View More

di Daniele Israelachvili

illustrazione di Anastasia Coppola

La rubrica di Daria Giacomelli

Ora basta! Dopo aver letto l’ennesimo articolo green contro le auto brutte e cattive, non ce l’ho più fatta. Sì, è vero che non si trova mai un parcheggio, che le auto inquinano e che si potrebbe risparmiare; sono tutte argomentazioni giuste e razionali, ma sono sempre le stesse ormai da decenni. È come dire che un bambino costa moltissimo, limita i rapporti sociali, e causa divorzi che neanche se aprissimo la porta di casa e trovassimo Jason Momoa a torso nudo sarebbero così lampo, eppure continuiamo a procreare.
Perché? Semplice, non siamo animali razionali.
Così ecco a voi 5 validi motivi per usare l’auto al posto dei mezzi pubblici:

UNO

Forse qualcuno vive ancora come Unabomber in mezzo ai boschi, e la notizia non gli è giunta, ma ehilà, c’è una pandemia là fuori. E come se non bastasse avete una vaga idea del quantitativo di germi che si trova abitualmente sui treni, autobus e metropolitane, soprattutto nei momenti di massimo affollamento? Solo con la tuta spaziale, e in assenza di gravità, potrebbero convincermi a salirci sopra. Anche se rimarrebbe comunque il problema della messa in piega sotto il casco.

DUE

Non so voi, ma a me piace ascoltare la radio alla mattina.
Ne ho bisogno.
Lo faccio da quando, con i miei primi risparmi, mi sono finalmente comprata l’auto. È vero che potrei farlo anche sui mezzi pubblici, ma dovrei sempre mettermi le cuffie. Un’ora ad andare e una a tornare, tutti i giorni lavorativi dell’anno. Non sono brava in matematica ma a spanne, visto quando hanno intenzione di mandarci in pensione, viene fuori un numero molto grande. Avete un’idea di quanto facciano male le cuffie? Io sì, perché mio marito è un otorinolaringoiatra e per lui le cuffie sono l’equivalente della Coca Cola per un dietologo.
Onde zuccherate sparate nelle orecchie.

TRE

Al lavoro sono circondata da persone.
A casa ho due figli e un marito che mi stanno sempre a chiedere qualcosa.
E anche il momento del bagno caldo con candele profumate è stato sostituito negli ultimi anni da una doccia tiepida, tra quando i bimbi fanno colazione, ancora assonnati, e le prime grida di lotta dopo aver ingerito qualcosa. Così il viaggio in auto è l’unico momento solo mio in cui, dopo averli portati a scuola, posso truccarmi al semaforo, spettegolare con un’amica e se voglio, al ritorno, persino urlare ai miei figli in santa pace, per sgridarli o anche solo per sfogare su di loro le mie frustrazioni al lavoro. Senza sentirmi addosso gli sguardi accusatori di gente estranea.

QUATTRO

Voglio anche tentare di affrontare uno degli aspetti più smaccatamente a favore dei mezzi pubblici, quello dell’inquinamento.
Non c’è ombra di dubbio che un’auto inquini. Però quanti progressi sono stati fatti negli ultimi anni, grazie all’avanzamento tecnologico, permettendoci di produrre auto che consumano (e inquinano) molto meno? Immaginiamo per un momento che sempre più persone decidano di non acquistarla e di usare esclusivamente i mezzi pubblici. Il mercato diventerebbe meno appetibile e le case automobilistiche si troverebbero costrette, come minimo, a dimezzare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Invece più auto girano, maggiori soldi entrano nelle casse delle case automobilistiche e maggiori investimenti saranno costretti a fare per produrre auto che abbiano un sempre minore impatto ambientale, mitigando così i sensi di colpa dei potenziali clienti. Forse, un giorno, è proprio grazie a gente come me, se le auto andranno ad acqua piovana. Adesso immagino che molte di voi stiano storcendo il naso ritenendolo un ragionamento un po’ azzardato e anche fuori dalla portata di una che di solito scrive frivolezze. Ma basta cambiare i termini ed eccovi accontentate. Facciamo il caso che improvvisamente le donne comincino a partorire 1 bambino ogni 499 bambine e che questo rapporto si protragga nel tempo. Secondo voi tra cinquant’anni qualcuno inviterà ancora una ragazza a cena fuori, passandola a prendere, dopo essersi fatto una doccia per l’occasione, o se ne starà invece bello comodo, in mutande, a finire di vedere la partita, mentre alla suddetta ragazza toccherà starsene in fila fuori dalla porta, in attesa che il suo numero compaia sul pannello luminoso?

PUNTO BONUS

Non è proprio un valido motivo, essendo molto personale, ed è per questo che non ho voluto inserirlo nell’elenco. Me ne vergogno anche un po’. Devo confessarvi che vado matta per l’odore della benzina. A volte, anche se non sono neanche lontanamente in riserva, faccio 10 euro e mi rannicchio a terra con la pompa in mano e gli occhi chiusi. In un attimo sono di nuovo bambina, accanto a me le mie sorelle ridono e giocano, sfiorando con le loro esili dita il palloncino appena fatto, mentre io sniffo avidamente un tubetto di Crystal ball. Il profumo del tempo perduto, la mia madeleine.

CINQUE

Ho lasciato per ultimo un motivo sicuramente non probabile, ma comunque possibile viste le cose strane che si vedono al giorno d’oggi (chi di voi, alzi la mano, avrebbe mai detto che le Birkenstock sarebbero diventate un articolo di moda?!).
Mettiamo il caso che un giorno, mentre sono in auto che porto i bambini a scuola, interrompano la mia trasmissione preferita per un’edizione straordinaria: a causa di un errore informatico entro mezz’ora una bomba verrà sganciata sulla città. In auto potrei fare subito inversione di marcia, dirigermi verso l’autostrada e, prima che la gente sugli autobus abbia il tempo di capire quale uscita usare, la mia famiglia sarebbe in salvo. A parte mio marito che, avendo lo studio in pieno centro, non farei in tempo a raggiungere e sarebbe costretto ad arrangiarsi, scappando via con il suo monopattino elettrico da fighetto, mentre si maledice per non avermi dato retta comprando la seconda auto.

View More

di Stefania Coco Scalisi

illustrazione di Egle Pellegrini

Uscito dalla stazione dei treni mai si sarebbe immaginato di ritrovarsi in mezzo a quella bufera di neve.
Eppure, i meteorologi l’avevano detto: in arrivo quest’autunno una perturbazione polare di grandi proporzioni, una cosa mai vista, insomma. Non avevano proprio detto così ma l’avevano lasciato intendere.
Tutti l’avevano presa come un altro strano fenomeno di quello stranissimo anno, e sulla preoccupazione per quello che avrebbe potuto comportare per la vita quotidiana, prevalse la curiosità di vedere quanto ancora sarebbero riusciti a sopportare.

Persi tra meme e battute sulla sfiga che si era abbattuta da quel 1° gennaio 2020, nessuno, insomma, aveva davvero capito la portata di quell’evento. Così, complice la temperatura anestetizzante dei vagoni e lo spettacolo desolante delle gallerie, fu davvero una sorpresa inaspettata quella coltre bianca sopra la città. Muta e infreddolita, la gente attorno lui correva qua e là, come impazzita, presa dalla frenesia di raggiungere un riparo.
Lui che di solito percorreva quei 2 chilometri scarsi fino a casa a piedi, si ritrovò pervaso dalla stessa ansia di mettersi al coperto, per cui, invece di imboccare la solita strada, si precipitò verso un autobus che lo avrebbe condotto proprio sotto il suo portone senza dover temere di morire di freddo.

Una volta sul bus, l’aria tiepida dei riscaldamenti mischiata al tepore della gente a bordo, fu la conferma che aveva fatto la scelta giusta.
Si accomodò accanto a un finestrino libero e si mise a contemplare lo spettacolo delle auto incolonnate sotto la neve che continuava a fioccare davanti ai vetri.
Le auto sembravano quasi un presepe, rosse, gialle e luminose.
Ma soprattutto immobili.
Come le statuette dei pastori fermi a contemplare la natività, anche loro restarono fissi ad ammirare quello strano spettacolo della natura. Dopo qualche insistenza, l’autista esperto riuscì a divincolarsi dall’ingorgo e partì.

«Speriamo di farcela ad arrivare a casa in tempo», disse all’improvviso un passeggero seduto proprio dietro di lui.
«In che senso?», chiese voltandosi.
«Beh, non lo sa che oggi è entrato in vigore il coprifuoco? Dalle 22 niente più mobilità, tutti fermi a casa».
«Vabbè ma mica possiamo restare così, in mezzo alla strada. Il bus finirà il suo giro!».
«Ma no guardi che questo è l’ultima corsa del giorno. Anche i mezzi pubblici devono adeguarsi, hanno cambiato tutti gli orari. L’hanno pure detto al telegiornale, sa?»

Perplesso, si girò.
Certo che quel tizio era proprio scemo, credere che tutto il paese si bloccasse come stessimo giocando ad un’enorme partita di un due tre stella. Rassicurato da quel pensiero, tornò a guardare la strada.
L’autobus, seppure lentamente, procedeva.
Non si fermò quasi mai, solo una volta per far salire un ciccione che con fatica si schiantò a sedere, sudando come fosse piena estate.

Mancavano solo due fermate da casa, che di nuovo ci si bloccò.
Un motociclista stava ferocemente litigando con il conducente di una macchina che aveva sfiorato nel tentativo di superarlo. L’autista, infastidito dall’intralcio, iniziò a suonare selvaggiamente per far spostare quei due. Tra le urla dei litiganti e il clacson del bus, passarono i minuti, ma nessuno sembrava voler fare qualcosa.
Senza rendersene conto, gli occhi si posarono sull’enorme orologio a led appeso sopra la testa del conducente: le 21.54.
In teoria se fosse stato vero quello quanto detto dall’altro passeggero, aveva circa 6 minuti per riuscire a rientrare.
Senza capire perché, inizio ad agitarsi.
Prese a fare gestacci ai due per la strada picchiando selvaggiamente sul polso, li dove c’era l’orologio. Quelli, quasi alle mani, sembrarono capire immediatamente, e, come spinti da una forza esterna, salirono sui propri mezzi e filarono via.
La loro fretta gli mise addosso ancora più inquietudine.
L’autobus riprese la corsa: 21.56. Se tutto filava liscio, ce l’avrebbe fatta. Ma perché credeva a quell’assurdità? Continuava a ripeterselo, mentre le lancette scorrevano.
Alle 21.58, l’autobus imboccò il viale dove si trovava il suo appartamento. 21.59: vedeva quasi casa, era a giusto due isolati da li.

22.00: l’autobus si fermò.

«Mi dispiace signori, ma ci fermiamo qui!»
Poco male, pensò, era praticamente arrivato.
Si alzò, prese le sue cose e si diresse verso le porte d’uscita.
«Dove va, mi scusi?».
«Sono arrivato, se apre faccio gli ultimi metri a piedi, grazie».
«No, mi dispiace. C’è il coprifuoco, non posso aprirle».
«Sta scherzando, vero? Mi faccia scendere immediatamente! Altrimenti chiamo la polizia, è sequestro di persona».
«Chiami chi vuole! Io ho disposizioni chiare: alle 22 fermo tutto. Se la faccio scendere, lei viola il coprifuoco e la colpa sarà anche mia».

Si girò di scatto verso gli altri passeggeri: tutti erano d’accordo con l’autista. «Ha ragione lui!» o ancora, «Colpa nostra che abbiamo fatto tardi!», furono le cose che sentì ritornando a sedere.

Gli sembrava tutto così surreale, che non riuscì più a dire nulla.
Vide l’autista prendere una copertina dal cruscotto e reclinare il sedile. La gente attorno a lui iniziava a chiamare casa per avvisare che non sarebbero tornati prima delle 6 del mattino. A un certo punto un passeggero disse:

«Se vi va possiamo metterci a coppie così da scaldarci, giuro che non ho cattive intenzioni!», ma mentre lo diceva guardò l’unica ragazza a bordo che, schifata, distolse subito lo sguardo.

Lui invece guardò il ciccione: era sudato sì, ma con tutto quel grasso lo poteva davvero tenere al caldo. Stava per andare a fargli quella proposta indecente, quando l’autista tuonò:

«Siete pazzi! E il distanziamento sociale? Ritornate subito ai vostri posti, nessuno si tocchi!».
Nessuno lo fece, aveva ragione l’autista.
Tutti tornarono a sedere.

Guardò l’orologio: le 22.07.
Di sicuro a quel punto sarebbe già stato a casa, vicino ai termosifoni caldi, con le pantofole ai piedi.
Con quell’ultima immagine in mente, si voltò di nuovo verso il finestrino.

La neve continuava a cadere, rendendo tutto perfettamente immobile.

View More

di Matteuccia Francisci

Dobbiamo cambiare, lo so.
Ancora un’altra volta. Non so più da quanto tempo non faccio altro che cambiare nome. Solo così possiamo continuare ad esistere, hanno detto.
Lo so, lo sappiamo tutti ormai, inutile ripetercelo ogni volta.

Vorrei riuscire ad avere paura, ma non posso fare neppure quello.
Vado avanti e indietro in questo vagone della metropolitana, sapendo che la mia ora sta per arrivare. E che però non morirò.

Sono così stanco, vorrei quasi morire se sapessi cosa voglia dire.
Mi domando cosa ne sarà di me quando, di nuovo, cambierò nome.
Ce lo domandiamo in tanti. Ce lo siamo domandati prima e ce lo domanderemo ancora e ancora, lo so.

Una signora ha abbassato la mascherina e dice «Mamma mia, mi sento soffocare». Ha i capelli rossi, ma non sono naturali, si vede che sono tinti e neppure troppo bene.
Si alza per scendere e la seguo, devo farlo, è quello che dobbiamo fare. Alcuni ci chiamano assassini, ed è buffo che lo facciano con quel disprezzo. Siamo tutti assassini di qualcun altro, è così che funziona, ma loro sembra lo abbiano proprio dimenticato. È il Sistema, io uccido te che uccide lui che ha ucciso l’altro. Ne parlano come se fosse un crimine e non, semplicemente, ciò che deve essere

La signora con i capelli rossi parla al telefono, ora.
Alza la voce, parla sincopato, poi taglia corto dicendo «Senti, io non ce la faccio a parlare ora, questa mascherina mi sta soffocando».
Sono proprio dietro di lei, mi basta farmi un po’ avanti e…no, ha attaccato. Si rimette la mascherina sul naso e se ne va a passo svelto per la scala mobile.

Fanno tenerezza con queste mascherine, hanno dimenticato chi sono.
Noi, invece, non dimentichiamo e non ricordiamo.
Se non trovo subito del cibo, ho paura che morirò.
Non voglio morire, non voglio neanche vivere, che questa non è vita.
Forse non so neppure cosa sia la volontà.

In banchina sono in molti. Tesi, arrabbiati, sporchi. Sono sempre sporchi. Credono di essere puliti, ma sono sporchi. Popolati da ogni genere di cosa che se la vedessero rabbrividirebbero. Ricoperti dalla testa ai piedi di polvere, batteri, acari. Cumuli di immondizia in cui tuffarsi e nuotare fino a trovare l’entrata.
Sono molto stanco, sento che mi sto indebolendo ogni giorno di più.

Ogni volta è lo stesso, provo la stessa paura, e poi accade qualcosa e ricomincio da capo. Da millenni, forse milioni di anni.
Ricordo ancora la prima volta che ci hanno scoperto, pensavamo fosse finita per tutti e invece si trattava solo di cambiare aspetto.
Cambiare tutto per non cambiare niente.

Con gli umani riesce sempre il trucco.
Anche con gli altri, ma è più divertente con gli umani, perché si affannano così tanto, perché si credono così tanto.
E soprattutto perché si spaventano così tanto.
Oh, gli umani hanno così tanta paura che ci si potrebbe riempire una galassia.
Gli altri no, si abbandonano senza paura, quasi affidandosi.
Sono meno divertenti, ma più…giusti.

Eccone un altro con la mascherina abbassata, che buffi che sono con la loro tecnologia e la loro stupida inconsapevolezza. Del resto sono così giovani, che ne sanno di come si sta al mondo?
Ha toccato il sedile, si sta toccando il naso.
Ecco, si è reso conto, sento che ha paura.
Lo sa, lui lo sa. Beh, comunque lo saprà.
Una ragazza con le gambe lunghissime sta venendo verso di me.
Se rimango fermo non dovrò fare assolutamente nulla, lei è già predisposta, lo vedo chiaramente.
Direi che posso annusare il suo essere mia, se potessi sentire gli odori. Vorrei dire che ho un fremito nel vederla venire verso di me, che provo una qualche emozione fortissima, che…ma noi non parliamo.
Nessuno parla. Solo loro. Parlano, parlano, fanno rumori di ogni tipo.

Quante cose fanno, questi maledetti. Dicono di avere paura quando tutti hanno paura di loro. Tranne noi, non abbiamo paura di loro.
Né di alcun’altra cosa, in ogni caso. Noi, semplicemente, esistiamo.
Da sempre e per sempre.
La ragazza bionda è arrabbiata, sai che novità.
Sei mia, umana.
Staremo insieme per un po’. Per te forse per sempre, per me solo il tempo di una corsa.
So che poi dovrò scappare ancora per un po’ e poi abbandonare questo nome, questo luogo, questo tempo, e aspettare di poter tornare.

Dai, avvicinati ancora un po’, bella mia eccoti qua, ora faremo conoscenza piano piano e poi sarò dentro di te e farò con te quello che mi pare per il tempo che mi pare. Ehi, bella biondina, come ti…oh! No! Che fai! Maledetta bastarda, no, ero così vicino alla tua bocca…no, ahia, cazzo se fa male, devo scappare via immediatamente.
Stronza.
Gli assassini siete voi, maledetti schifosi, feccia dell’Universo.


Il ragazzino, oh, eccolo finalmente, voilà.
Facile facile.
Ciao ciao bel cucciolo, sai che una volta ho conosciuto un cucciolo come te, ma era moolto più carino, aveva ali e un udito molto sviluppato e non mi ha mai odiato e non mi ha mai chiamato nemico, mi ha ospitato e poi è semplicemente morto.
Come deve essere.
Si vive, poi si muore, poi si vive di nuovo.
Come so queste cose?
Perché io sono l’eterno, l’immortale, il mai vivo e mai morto.
Gli altri neppure mi hanno dato un nome, ma tu sì, piccola sottospecie di mammifero.
Mi hai chiamato Virus e mi hai dichiarato guerra, ma io sono un pacifista. Io esisto.

Oggi mi hai dato un nome, perché tu hai sempre bisogno di un nemico da chiamare. Dirai che mi hai sconfitto, ma io avrò cambiato nome e aspetto. Giusto un po’, un’aggiustata ai baffi, uno spostamento della riga dei capelli, una lente colorata. Ahahahah!
Dai si scherza scemo, io non ho corpo e non ho anima.
E non ho paura.
Tu mi troverai e mi eliminerai e io, beh, qualche cosa farò.
Cambierò, ecco cosa farò e tu non mi troverai più e poi….peekaboo!

A te piacciono gli scherzi, vero, coso?
Dolcetto o scherzetto? Scherzetto, Uomo.

View More

di Matteuccia Francisci

Illustrazione di e con Simona Settembre

La finestra sbatte.

C’è vento, e sbatte. Non le va di chiuderla, vuole che entri aria e luce in casa in primavera ed estate, almeno tanto quanto la vuole chiusa in inverno. L’inverno non esiste, è un passaggio dell’anima, buio.
Ogni anno sembra impossibile da superare, e quando arriva la primavera vorrebbe aprire anche i muri, vivere solo di luce e di calore.

Sbam!


Che fastidio il vento.
Neanche il vento le piace, le fa anche paura, sembra un’entità invisibile che si aggira intorno a noi e che può spazzarci via senza che neanche vediamo da dove arrivi.

Sbam!

La signora si alzò e riaprì il finestrino del vagone della metro B.
I vagoni della metro B erano ancora quelli vecchi, quelli della A li avevano cambiati e non si potevano più aprire perché c’era l’aria condizionata, quelli della B ancora si potevano tenere aperti, unica fonte di aria (schifosa) nei millemila gradi che si sviluppavano d’estate.
Era il 30 luglio, l’ultimo appello della sessione, e l’avevano bocciata.
Aveva studiato due libri su tre, le avevano chiesto Peròn.
Però stava nel terzo libro.
Bocciata all’esame facoltativo.
“Clap, clap! Per gli autografi dopo, grazie” pensò mentre l’aria sporca e calda le veniva in faccia dal finestrino.

«Può chiudere per favore?» chiede il signore alla donna seduta sotto il finestrino.
«Ma fa caldo!» risponde la donna.
«Sì, ma l’aria in faccia mi dà fastidio» replica il signore.

È un po’ anziano, ha una camicia bianca a maniche corte e dei pantaloni grigi con le pinces, da vecchio insomma. Alla ragazza piacciono i pantaloni con le pinces, lei non li trova da vecchio, si dice da sola come se qualcuno avesse fatto quel commento ad alta voce.

«Io ho caldo, se chiudo soffoco» Replica la donna, con poca grazia.
Il vecchio, inaspettatamente veloce, con uno scatto repentino si sporge in avanti e chiude il finestrino.
Sbam!
«Ma vaffanculo, va!»

Hai capito il vecchietto, pensa la ragazza, e le scappa un sorriso.
La signora si rialza e riapre il finestrino.
«‘A stronzo!»,e si risiede.
«Allora sei de coccio!» dice il vecchio, e richiude il finestrino.
Sbam!

No, non è vero, è solo il rumore della finestra che sbatte.
Le ha ricordato quando sulla metro si creavano delle vere e proprie faide su “finestrino aperto/finestrino chiuso” perché d’estate i vagoni erano caldissimi, ma l’aria che entrava era fastidiosa se ti arrivava in faccia.
E lei non sapeva mai che parte prendere perché avevano ragione tutti e due.
Ci ripensa quasi con nostalgia, adesso che deve stare chiusa in casa in questa nuova vita a “Fasi” che sembra tanto la stessa storia dell’Anno Nuovo, che è uguale a quello vecchio.

Non è vero neanche questo.
Ma quale nostalgia. Di cosa?

Dei mezzi pubblici affollati, dei turisti che salgono a Colosseo tutti sudati? Delle conversazioni altrui a voce troppo alta o del tipo che non sa levare il suono allo stramaledetto giochino idiota?
Non lo sa, eppure la nostalgia è sempre là.
Forse dei suoi vent’anni.
Ma no, odiava avere vent’anni, odiava l’università e tutto quello che stava intorno.

Sbam!

Forse ha nostalgia di uscire, vedere gli amici, andare al cinema. Si fa una risata. Ma quando mai, sta benissimo in isolamento. Tanto non usciva quasi più lo stesso, ormai.

Sbam!

E allora? E allora niente. Chiude la finestra, e pensa a quel vecchio. Sarà morto ormai.

Beato lui.

View More

di Giuseppe Fiore

Illustrazione di Liliana Brucato

Avevo parcheggiato la vecchia Twingo nel giardino pieno di erbacce e aghi di pino. Battevo a macchina per 6 ore al giorno.
Mangiavo pasta, di solito al sugo, ma quando potevo ci mettevo anche il tonno.
Passavo ore nel giardino, steso sulla sdraio, guardavo il cielo, cercavo di seguire le nuvole, di capire se fosse davvero il vento a muoverle.

Cercavo di scrivere una storia, qualcosa che parlasse di me, ma non della persona che tutti conoscevano, volevo scendere in profondità, partire dalle unghie per arrivare agli occhi.

Non sono mai stato davvero uno scrittore, non ci avevo nemmeno mai pensato, ma quella macchina da scrivere, così vecchia e rumorosa, mi aveva incatenato, mi torturava e spingeva le mie dita a battere di continuo, in certi momenti la odiavo, volevo solo smettere di pensare, chiudere quel flusso.
Non rileggevo quello che scrivevo, ricordavo ogni particolare della storia: forse faceva schifo, forse c’erano incongruenze, errori, oppure era solo brutta, senza nessuna scusa, ma non mi importava.

Ero nella vecchia casa al mare del nonno, dove avevo passato ogni singola estate della mia infanzia, ogni stupido gioco, ogni stupida goccia di sudore, ogni stupida doccia per lavare via la maledetta sabbia dal corpo.
Odiavo quella casa, quei ricordi, quelle persone che avevo amato, che mi avevano regalato i loro sorrisi, il loro tempo, lasciandomi poi solo, come tutti, con tanti soldi e nessuna emozione da soddisfare.

La mia storia parlava di Maria, una ragazza con le palle, che aveva lasciato l’università per diventare un’ attrice: bella, tenebrosa, sempre pronta a criticare tutto e tutti.

Parlava di Giulio, un ragazzo magrolino che aveva voglia di conquistare il mondo con le sue parole, ma aveva paura, di non essere capito, di non essere bravo, di annoiare.

Parlava di Roberto, che voleva sposare Maria, ma faceva il poliziotto. Così normale, mediocre, un non artista in un mondo di parole e false speranze.

C’era una parte di me in tutti questi personaggi.
La storia di tre amici, con sogni diversi, rinchiusi nella mia mente, in celle di paura e malinconia, sporche e trascurate nel tempo.

Non avevo iniziato a scrivere con una precisa idea, non sapevo davvero che tipo di messaggio volevo inviare.
Qualcosa di deprimente, qualcosa che facesse sentire il lettore solo tra quelle parole tutte uguali, così piccole e potenti.
Cercavo un modo per chiedere scusa per tutto quello che non avevo fatto durante quegli anni, un modo per apparire diverso.

La mia infanzia era stata bella, piena di amore.
La mia adolescenza aveva stuprato tutto il bene ricevuto.
Mi aveva reso cieco. Avevo cambiato mille scuole, mille compagni, mille danni.
Ho perso i miei genitori quando avevo 18 anni ed ero nel pieno della pazzia, nel vortice più scuro.
Una famiglia ricca come la mia, dove da generazioni non c’era bisogno di lavorare per tirare avanti: sono nato per spendere e questa è stata la mia sfortuna.

I miei personaggi, invece, sono tutti poveri.
Cercano vendetta contro un Dio che li ha rinchiusi in quella situazione, vogliono essere me e io vorrei essere loro.

Ero venuto in questa casa per allontanarmi da tutto, da quella persona che ero diventato, da quell’essere così simile ad una bestia che andava rinchiusa, qui i ricordi mi avrebbero accarezzato, mi avrebbero calmato, ma ho scoperto di odiarli più di qualsiasi cosa, più di me stesso.

Così un giorno simile ad altri, noioso e senza colore, avevo preso la mia vecchia Twingo che usavo al liceo, un regalo del nonno per la mia maggiore età, lasciando nel garage le macchine di lusso che non avevo voluto io, che mi erano rimaste sulle spalle, quasi come un peso; volevo provare la sensazione adrenalinica di uno sterzo duro, di un viaggio pericoloso, la sensazione di essere sorpassato da tutti, di essere bestemmiato per la mia lentezza, per la mia prudenza sulla strada. Volevo riprovare quel senso di immobilità che mi dava quella macchina, così vecchia da non accelerare mai, come se il pedale non funzionasse davvero, come se spingerlo non servisse a nulla; quella macchina che mi aveva insegnato a guidare, con quei sedili tutti rotti, bloccati, con i finestrini lenti e una leggere puzza di chiuso, sempre presente, dal primo giorno.

Stavo per scappare, fuggire via da quel posto, ormai una prigione, quando il mondo si è bloccato: forse un segnale, anche se è troppo stupido pensare che Dio mandi una tragedia solo per farmi capire qualcosa.

Ma esiste veramente Dio?

Così sono rimasto qui, in questa vecchia casa costruita in una località marina, vuota in questo periodo dell’anno: c’è solo un negozio dove fare la spesa, ma il commesso non ama parlare.

Ci sono io, c’è Giulio, Roberto e Maria, basta.
Loro vogliono me e io voglio loro.
Poi c’è la macchina da scrivere che muove i nostri fili.
C’è la vecchia Twingo fuori, immobile.
Giorni tutti uguali, fatti di parole e nuvole nel cielo, fatti di respiri e pasta con il tonno.
Non ho nemmeno il wi-fi, solo una vecchia Tv dove danno il telegiornale.

Sono vecchio già a 28 anni.
Maria, Roberto e Giulio hanno rubato la mia giovinezza, hanno rubato i sogni che avevo, mi hanno addomesticato.
Vorrei che il mondo conoscesse questi tre ragazzi, vorrei che il mondo leggesse quello che provano, vorrei che il mondo li amasse come io li amo, ma non credo succederà, non credo lasceranno mai quelle parole.

Certe volte Maria inizia ad urlare parolacce, di solito contro di me. Non riesco a fermarla: è così forte, così determinata, vorrebbe non avere paura di amare il piccolo Roberto, così perso nella bellezza della sua amica.
Un bravo poliziotto, dovrebbe essere libero di esprimere la propria dolcezza verso qualcuno, ma è incatenato dal contorto amore, stupido e irrealizzabil.
Poi Giulio: lui spesso piange per le ingiustizie nel mondo, per le lettere che scrive ai suoi genitori e che lascia ristagnare nei suoi zaini, per le persone che vede nei pullman e su cui vorrebbe scrivere, per i pensieri malinconici che lo accompagnano mano nella mano.

Quanto durerà ancora tutto questo?
Quanto ancora dovranno rubarmi?
Quanto ci metteranno ancora a prendere un corpo loro e a farmi fuori?
Mi odiano e sono arrabbiati con tutti, usciranno dalla macchina da scrivere e sarà la mia fine.
Sarà bello per qualche attimo vedere le loro facce, i loro occhi.
Le mie creature, i mie figli che taglieranno il mio corpo e ruberanno quello che ancora sarà rimasto.