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di Heiko H. Caimi

Illustrazione di Anastasia Coppola

Berlino.
Postdamerstrasse.
Fermata dell’autobus.

Persone salgono, persone scendono.
L’autista, impaziente, le fissa attraverso lo schermo. Le telecamere gli rimandano immagini dall’alto di gente comune che si affretta a salire.
Teste calve, teste appena uscite dal parrucchiere, teste unte, teste tonde, teste quadre.
Le detesta, le detesta tutte.

Attende con impazienza che una vecchietta riesca a fare l’ultimo passo per entrare. Con il desiderio di partire sgommando e di farla cadere.
Improvviso gli ritorna in mente il sogno dell’altra notte: lui alla guida dell’autobus che corre su una strada di campagna a tutto gas, al massimo della velocità consentita dal mezzo. E poi inchioda, all’improvviso. Tutti morti.
Quanti? Quaranta, cinquanta.
Cinquanta teste, cinquanta anonime mediocrità che sono salite sul suo autobus.
Gli piacerebbe, eccome se gli piacerebbe!
Gli piacerebbe che non fosse solo un sogno.

Riesce finalmente a richiudere le porte.
Parte piano, mentre la vecchietta si siede. Quella si lamenta che lui non abbia aspettato: «Così poteva anche farmi cadere!».
Vorrebbe inchiodare, uscire dal posto di guida, prendere la vecchia per le spalle e scaraventarla giù dal finestrino.
Ma non può, deve guidare.
Anche lentamente, perché il traffico procede a passo d’uomo.

Guarda nello specchietto retrovisore.
Cinquanta teste, sedute o in piedi, proprio come nel sogno.
Cinquanta teste in attesa che lui arrivi a destinazione.
No, non gliela darà questa soddisfazione.

Ferma di colpo e tra qualche scossone, tante urla e qualche urto ben assestato, il bus fa fischiare le gomme sull’asfalto per poi bloccarsi, di traverso, in mezzo alle corsie grigie ora strisciate di nero.
Quindi, schiaccia il pulsante che fa aprire le porte anteriori e, quasi fischiettando, esce e scende.
Si incammina in mezzo alla strada immaginando le facce dei passeggeri: il loro smarrimento, la loro paura di non arrivare in tempo, il disorientamento e l’odio.

Poi ci pensa su un attimo.
Torna indietro, quasi con l’aria di chi ha capito l’errore commesso: ma è in errore chi pensa questo.
Infatti, sempre con fare normale, ignorando le espressioni interdette dei passeggeri e le loro iniziali, timide richieste di spiegazioni, aziona dall’esterno i comandi manuali. Le due porte si chiudono contemporaneamente in un sonoro sbuffo d’aria, e le blocca da fuori con il chiavistello che, per sicurezza, porta sempre in tasca, creando una sorta di acquario, mobile ma immobile, fermo di traverso in mezzo al grande viale.
Sorride mentre attraversa la strada col rosso e senza voltare le spalle, senza ascoltare neanche i clacson delle automobili costrette a fermarsi per non prenderlo in pieno.

Di fronte alla fiancata del mezzo, si siede al tavolino di un bar che ha il vantaggio di avere una vista spettacolare: le vetrate del bus.
Popolato adesso da cinquanta teste e cinquanta mezzibusti che si agitano sbattendo i pugni contro gli spessi vetri di quell’acquario fatto d’aria.

«Un caffè americano macchiato, grazie e sì…anche uno di quei croissant al miele: adoro il contrasto del miele con il sapore burroso dell’impasto, sa?», ordina al cameriere che, fermo accanto a lui, non lo ascolta ma, inebetito, guarda impalato verso quel mondo sottovuoto che una volta era un autobus.

Continuando a sorridere, l’autista – ex autista in realtà, ora solamente spettatore interessato, se non artista di un quadro di esistenze sofferenti e iraconde – si gode lo spettacolo: il suo sogno che, bene o male, prende vita.
Beh sì sa, la realtà è sempre diversa da quello che uno immagina, ma anche così questa giornata ha assunto tutto un altro senso.

Sì, questa è proprio la più bella giornata della sua vita.

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di Fabrizio Sani

Illustrazione di Anita Zanetti

Tra Garbatella e Basilica San Paolo non si volta lo sguardo: si esce e si entra sempre a sinistra.

Le luci della metropolitana di Roma cambiano in base alla stagione.
I grugni della metropolitana anche, pur se in misura minore.
Le persone che fanno serpentine e il sapore amaro delle unghie sporche quando le mordicchi, non cambiano.

Remo non diventerà un sismologo, e probabilmente non lo ha mai voluto. Al capolinea passerà un’altra volta la tessera dei mezzi sopra il lettore per tornare indietro. La sua stazione è passata da tre fermate: ha deciso di percorrere l’intera tratta, vedere tutta la gente che sale e scende, con un fasullo e immobile sorriso, rimastogli sospeso sulla faccia soltanto perché non saprebbe più nemmeno da che parte buttarsi.
Perfino quello che gli è sempre piaciuto fare, lo intristisce: guardare la gente e immaginarsi quale sarebbe il loro rapporto se si conoscessero, in che modo gli parlerebbero e se magari, per Capodanno, gli manderebbero o meno un messaggio di auguri e una foto dei fuochi.

Il suo amico è da poco partito per Berlino, «lì sì che si trova lavoro».
Fra otto mesi sua moglie partorirà un bambino, suo figlio, e lui non ha nessuno a cui raccontarlo.

A Roma l’inverno si mostra in ruggine, sui campi e le piante, sui tetti, sui binari e sui deboli esseri che su queste cose passeggiano.
In questa stagione, sapere da che parte guardare è faticoso come sapere dove posare le mani su una donna.
Remo le posa sul grembo della sua fidanzata e la convince a fare le valigie. Le giunge per chiedere un favore alla padrona di casa, senza sfiorarla.
Le accosta alle guance di sua mamma per salutarla.
Cambierà appartamento, condominio, quartiere e città.
Remo prenderà un aereo per Berlino.

In un bar pieno di beige, il suo amico indosserà un maglione bianco facendo sembrare tutto sporco.
Ordinando due birre in inglese, spiegherà a Remo che il tedesco non è semplice, sta imparando.
Che fare il magazziniere qui è comunque meglio che farlo in Italia, ma si aspetta certamente di trovare di meglio.
Racconterà orgoglioso quell’avventura con una signora di una certa età, «perché con il freddo, si è più focose. Qua le donne si guardano intorno alla ricerca di un partner, esattamente come gli uomini».
Li divertirà per molti minuti.
Remo parlerà al suo amico del figlio che sta arrivando, dirà «a Berlino sì che un bambino può crescere bene».

Remo penserà che il suo amico sia meno esuberante di prima, ma non lo sarà di meno.
Penserà che sia la sua voce ad essere un po’ arrochita, ma non sarà diversa.
Penserà che sia sicuramente qualcosa nel suo aspetto, nei suoi capelli o nel contorno dei suoi occhi, a ispiragli, per la prima volta da quando lo conosce, una qualcosa che non sa affatto definire ma sa di subalternità, eppure né nei capelli, né attorno né negli occhi stessi, ci sarà una cosa diversa da prima.

Remo fisserà il vecchio stereo che disperde una nenia dolce e violenta di sottofondo, intanto che le spie del volume si arrampicheranno sul suo volto.

«Ti ricordi la tombola a casa di Valentina?»
«Certo. “La gatta”». Risponderà Remo.
«La gatta», ribatterà, allusivo, l’amico. «Non siamo più tornati da lei», e di nuovo si metteranno a ridere entrambi.
«Abbiamo vinto noi quella volta.»
«Che abbiamo fatto, poi, con quei soldi?» domanderà l’amico.
Remo gli guarderà il polso, l’amico s’imbarazzerà un attimo e chiuderà le spalle, ma dandogli di gomito Remo dirà: «ormai è tuo, non ci pensare», e si sentirà sollevato nel percepire il suo volto distendersi.

Chiederanno il conto in inglese, ma uscendo dal locale l’amico dirà: Hallo.
«Io prendo l’autobus qui, tu devi andare laggiù e attendere il 163.»
«Dov’è che ti sei sistemato?»
«Per il momento sono a Hohenschönhausen, ma è provvisorio, senz’altro. Appena tutto avrà preso la strada giusta mi avvicinerò al centro.»
Remo annuirà e farà un cenno di saluto con il mento.
«Ci sentiamo domani», dirà incamminandosi.

Il 163 sarà pieno e lui noterà quella creatura alla sua destra.
Con lo sguardo desolato come tutti quelli con cui spartisce la corsa. Minuta e bassa; caspita quanto è bassa, penserà.
Tanto da chiedersi se mai ce la farà.

Lei starà lì, con quegli stivali blu, la sua maglia blu, i suoi jeans blu chiari e i suoi occhi blu che guardano quello strano attrezzo a forma di goccia che pende dall’asta con aria di sfida.
Si renderà conto presto che non può farcela e senza prendersela metterà le cuffie nelle orecchie.
Poi alla fermata degli operai cambieranno i cartelli.
Remo penserà che qua rinnovino sempre tutto. L’autobus si arresterà un po’ prima e un motorino inopinato lo supererà a destra – nemmeno fossimo in Italia – mentre la donna bassa scende.
La corsa si interromperà per circa sei minuti, il tempo sufficiente per poter dire che non sei rimasto indifferente.
Un signore eletto a Dio notificherà che non c’è più niente da fare.
E l’autobus ripartirà.