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di Luca Betti

Illustrazione di Nicole Pardini

«Sillaro ovest, è questo Gigi?»
«Sì, fermati qui, prendiamo un caffè e vi faccio vedere come ci muoveremo stasera».
Parcheggiarono il mini van e scesero tutti e quattro, dirigendosi verso l’autogrill ai margini della grigia autostrada.
I tre più giovani andarono direttamente al bar aspettando che Gigi facesse lo scontrino.
Iniziavano a sentire la tensione, lui invece era rilassato, se ne stava in fila a qualche passo di distanza dalla persona davanti a lui, sovrastandola con la sua stazza, ma senza mettere fretta a nessuno.
Quando fu il suo turno fece l’ordinazione e pagò in contanti, dirigendosi poi al bancone.
Mostrò lo scontrino e ordinò i caffè.

«Eccoli!» esclamò il barista girandosi. «Cosa c’è meglio di un bel caffettino per riprendersi durante un bel viaggio? Non oso pensare come facessero i pellegrini quando non c’era il caffè. Che si bevevano?».

I tre giovani presero la tazzina e non lo degnarono neanche di uno sguardo. Gigi era un metro dietro a loro, notò la reazione delusa del barista nel vedere ignorato il suo strano tentativo di attaccare bottone.
«Gradite un goccio d’acqua?»
Solo Gigi rispose affermativamente avvicinandosi al bancone e facendo cenno agli altri tre di aspettarlo fuori.

«Eh li capisco i suoi amici se sono nervosi. In realtà tante persone soffrono i viaggi in autostrada. Possono mettere agitazione».
Riattaccò il barista rivolto a Gigi.
«Mia sorella ha sofferto di attacchi di panico e il suo psicoterapeuta le ha spiegato che un fattore scatenante può essere il viaggiare in autostrada. Non ci si può fermare dove si vuole, magari per venti o trenta chilometri non ci sono uscite o autogrill e arriva il panico».
«Addirittura?».
Lo sollecitò Gigi che iniziava a essere divertito dalla situazione.
Il barista non aspettava altro.

«Eh già? Anche a me pareva strano la prima volta che me l’ha raccontato, “panico da viaggio in autostrada, che assurdità”, pensavo…ma poi riflettendoci ha senso.
E vuole sapere un’altra cosa che può scatenare il panico? Mi scusi se chiacchiero, ma io sono così, ho cinquantuno anni, ho sempre lavorato in piccoli bar di paese con molti clienti abituali e mi piace scambiare due parole. Non come gli altri che lavorano qui.
Loro sono solo da “buongiorno”, “buonasera”, al massimo “vuole un gratta e vinci”, senza neanche alzare gli occhi dalla cassa. Mi scusi se glielo dico. Allora lo sa cosa può scatenare il panico in una persona?».

Gigi scosse la testa, ormai era davvero curioso di saperlo.
«Prendere la comunione in chiesa. Ci avrebbe mai pensato? No, vero? Nemmeno io sa, almeno fino a quando me l’ha detto mia sorella. La gente, la folla, il senso di colpa, lo spazio grande, gli occhi addosso. Se uno ci pensa potrebbe anche essere. Anzi, sarà sicuramente così. Se lo dice lo psicoterapeuta di Carla, mia sorella. È uno bravissimo il suo psicoterapeuta, se lo dice lui sarà vero. In pochi mesi è riuscito a farla stare molto meglio».
«Non si finisce mai di imparare. Ah complimenti per il caffè, mi scusi se i ragazzi erano di fretta. Tenga, beve la birra? Gliene offro un paio, alla nostra salute!».

Lasciò una banconota da venti euro di mancia, si girò e si allontanò verso l’uscita senza dar tempo all’altro di ringraziare o proferire parola.

«Quello è il campo e laggiù c’è il casolare abbandonato. Ci aspetterai lì, Toni, col mini van, ci si arriva tranquillamente dalla strada provinciale. Se ci dovessero essere problemi ti sposti e ci chiami».
«Va bene, Gigi. Andiamo dagli altri a preparare i furgoni».
Gigi annuì, gli altri spensero le sigarette, scesero dal terrapieno su cui erano saliti e si avviarono verso il parcheggio dell’autogrill per poi raggiungere col mini van il casello di Castel San Pietro, a poche centinaia di metri dall’area di sosta.

Michele la mattina si presentò a lavoro puntuale, ma il mal di testa si faceva sentire.
Non era più abituato a rimanere fuori fino a tardi.
Anzi, ultimamente non era più abituato a rimanere fuori e basta.
Casa e lavoro.
Da quando il bar dove lavorava era stato venduto le cose erano precipitate. Il nuovo proprietario non aveva bisogno di lui come barista, ma gestiva il locale con moglie e figlia. Cercare lavoro a 50 anni non è semplice. Alla fine la cosa migliore fu il posto in quell’ autogrill, ai margini dell’autostrada A14.

La paga e i turni non erano il massimo, ma ci si doveva accontentare. I venti euro di mancia che si era ritrovato tra le mani il giorno prima gli parvero un modesto, ma giustissimo premio ai suoi sacrifici e gli sembrava corretto usarli esattamente come aveva detto il cliente.
Li aveva investiti tutti in birra al pub del paese. E ora ne pagava le conseguenze.
Entrando nello spogliatoio salutò velocemente un collega, si mise il grembiule e andò nel bar iniziando a prepararsi un caffè.
«Hai sentito di stanotte?» Gli chiese la sua collega Fatima.
«No, perché?».
La ragazza non gli rispose, ma tirò fuori il cellulare dalla tasca e fece partire un video.
Michele intuì subito che si trattava di un servizio del telegiornale.

Colpo spettacolare sull’autostrada A14 tra San Lazzaro di Savena e Castel San Pietro… Due mezzi portavalori stavano viaggiando in direzione Rimini… sorpassati da due furgoni… sette persone armate… hanno bloccato il traffico… hanno aperto con attrezzi da lavoro le fiancate dei portavalori… breve conflitto a fuoco… ferita gravemente una guardia… i malviventi sarebbero fuggiti a piedi attraverso i campi… i sospetti degli inquirenti si concentrano sulla banda “dei pescaresi” il cui capo, Luigi Baldo, detto “Gigi Canne Mozze”, è uno dei trenta latitanti più ricercati d’Italia… ecco la foto più recente…

Michele trasalì. Gli si bloccò il respiro per un paio di secondi. Mise in pausa il video con Fatima che lo guardava senza capire.
Tornò ad osservare quel volto sullo schermo del cellulare.
Sembrava più giovane nella foto, ma gli occhi erano sicuramente quelli. Era il cliente del giorno prima.
Era il cliente della mancia.
Fu sconvolto dalla cosa. Non trovò il coraggio di dirlo al suo capo o alla polizia e si vergognava di questo. Da quel giorno smise praticamente di parlare coi clienti.
“Buongiorno” e “buonasera”, niente di più.

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di Leonardo Vigoni

Illustrazione di Simona Settembre

Piede sull’acceleratore.
La lancetta segna 90km/h fissi ormai.
Il buio della notte ti permette di vedere fino a dove arrivano i fari.

La strada è tortuosa e stretta, riesci a sterzare senza prendere il guardrail per un soffio. Conosci bene la strada.
Corri più veloce che puoi, ora è a 110km/h.
L’abitacolo è diventato un inferno: l’aria condizionata a palla per spannare il parabrezza soffia da fin troppo tempo.

Doppia curva stretta.
Perdi aderenza e l’auto scoda un po’.
Mani salde sul volante, riesci a tenere la traiettoria meglio che puoi.
Ora solo rettilineo ricordi, tiri un sospiro di sollievo con l’idea di accelerare ancora per fuggire più veloce.

Curva a gomito.
Il rettilineo era più avanti.
Non puoi evitare l’impatto con la lamiera bordo strada.
Viene divelta insieme a metà della parte anteriore della tua auto, un frammento sfonda il parabrezza.
Un salto di una ventina di metri, il silenzio infrange il frastuono dell’impatto. I fanali illuminano intermittenti il suolo che si avvicina istante dopo istante.


Un tonfo assordante segna la fine della caduta, il muso dell’auto si accartoccia a contatto con il suolo.
Un secondo tonfo, più morbido, l’auto è ora ribaltata.
Nella tua testa risuona l’intera orchestra angelica con le sue trombe.
Il suono è troppo forte, vorresti quasi colpire più forte che puoi la testa contro un muro, pur di fermare tutto questo.
Se solo non fosse, appunto, dovuto all’impatto con il volante quando hai sfondato il guardrail. Gli airbag e la cintura di sicurezza ti hanno salvato dalla caduta.
Senti le ossa del tuo corpo come se si fossero rotte tutte insieme in un istante.
Riesci a stento ad alzare il capo dal cuscino bianco in cui è avvolto.

Il sangue offusca parte della tua vista, da un occhio non vedi proprio.
La lamiera nel parabrezza si è conficcata tra la tua spalla destra e il collo, ma non in profondità. Nonostante il dolore infernale che senti muovendo il braccio, riesci a slacciare la cintura di sicurezza, con l’altra apri la portiera.
Rovini a terra su un fianco, per poco non svieni.

Riesci a vedere la strada illuminata dalla Luna, affacciata timidamente da dietro una nuvola come se avesse paura di vedere in che condizioni tu sia.
Lo vedi, lì, eretto proprio dove l’auto ha sfondato le barriere.
Ti sta fissando, lo sai. Lo senti.
Fai appello a tutte le tue forze, le ossa scricchiolano mentre tenti di alzarti, i muscoli gridano come anime dannate in pena, il sangue nelle tue orecchie tuona come tamburi da guerra. Un piede, poi un altro.
Ti aiuti con quel che resta della tua auto, sei finalmente in piedi.

Il solo pensiero di fare un passo in avanti è inconcepibile.
Guardi di nuovo su, non c’è più.
Il cuore salta un battito, sai che non puoi restare lì.
Le gambe si muovono da sole, ogni volta che poggi il piede a terra è una pugnalata al petto.
Zoppichi tra gli alberi, la fronte e la spalla perdono sangue gocciolando una scia scura dietro di te. Vaghi con i suoi fruscii attorno a te, senti i rami spezzarsi al suo passaggio e il tonfo dei suoi passi sempre più vicini.

Luce.
Un lampione stradale illumina un incrocio non troppo distante da te.
Vedi un auto ferma a rispettare lo stop.
Non importa il dolore, devi raggiungerla.
Si sta avvicinando sempre più.

Cadi a terra dopo aver scavalcato il guardrail, ti trascini fino all’auto, in moto ma ancora ferma. Ti tiri su in ginocchio, apri la portiera.
Non c’è nessuno dentro. Non importa.

Riesci ad issarti su con le ultime energie e sbatti violentemente lo sportello. È oltre la strada, in penombra, fuori dal cono di luce del lampione.
Il suo sguardo ti trafigge fino alle viscere.
Il silenzio tra voi due con in sottofondo il motore dell’auto in funzione sembra fermare il tempo. Qualche secondo, un paio di minuti, ore.
Non sai quanto tempo siate rimasti a fissarvi.
Muove un passo, ora è sul limitare della strada.
Tiri giù il freno a mano e parti.

Piede sull’acceleratore.
La lancetta segna 90km/h fissi. Conosci la strada.
L’abitacolo è caldo come l’inferno.
Una lacrima scende sul tuo viso.
Il volto di tuo figlio sul sedile di fianco a te, senza cintura e tra le braccia di Morfeo.
Impatti contro il guardrail alla curva a gomito.
Così come hai fatto,
così in eterno.

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di
Luca Betti

Stamattina sono stato piccolo piccolo (e mi è piaciuto molto).
Ore 8:20: autostrada A14 tra Castel San Pietro e San Lazzaro di Savena, corsia di sorpasso.
Velocità: una decina di km oltre i limiti.

All’improvviso un patacca.
Un patacca dalle nostre parti è uno sbruffone. Di quelli che li vedi da lontano.
Con la sua utilitaria smaragliata (elaborata, pimpata, personalizzata e chi più ne ha più ne metta) lo vedi farsi largo nello specchietto retrovisore a velocità smodata.
Chi mi segue o lo precede si butta a destra per fargli posto. Pista arriva il patacca.

Tocca a me. Solo una cosa in autostrada mi dà più fastidio di chi mi “fa gli abbaglianti”, quelli che ti si incollano al paraurti. È pericoloso stare ai 140 km/h a 10 cm di distanza. È per questo che hanno inventato la distanza di sicurezza.
Il patacca opta per la doppietta: si aggancia e inizia a “farmi gli abbaglianti”.

Alle 8:20 di stamattina divento piccolo piccolo.
Non rallento, non accelero e, solo dopo mezzo minuto, decido di farmi a destra.
Lo guardo mentre mi sorpassa per fargli sapere cosa sto pensando di lui. Il patacca fa la stessa cosa. La convinzione sua è che se la sua macchina fa i 160 km/h lui ha diritto di fare i 160 km/h sempre e nessuno lo deve intralciare.

Torno della mia dimensione, potrei restare “piccolo” e mettermi alle sue spalle facendogli gli abbaglianti, ma sono tornato grande e maturo e non lo faccio. Smetto di pensare al patacca e mi riconcentro sulla guida. 3 minuti dopo devo uscire. A San Lazzaro.

Ed ecco all’improvviso la grande livellatrice: la sbarra del casello.

All’improvviso torno piccolo piccolo.

I miei occhi scorgono in fila per il pagamento in contanti l’utilitaria smaragliata del patacca. Sono sempre più piccolo. E non mi tengo più.
Rallento quanto basta per immettere la sagoma della mia utilitaria nella corsia dell’uscita con Telepass. E lo guardo.
Il patacca è innervosito dall’attesa. Spero che quello davanti a lui si sia fermato lontanissimo e non riesca a mettere i soldini o a darli al casellante. E il patacca sta perdendo tempo. E io ora sono piccolo piccolo e mentre io passo e lui sta fermo voglio che lui sappia che io so. Deve saperlo.
E allora suono il clacson e lo guardo.
Sono piccolo piccolo, lo guardo e lui mi guarda e sono certo che ha capito.

E io godo.

In modo infinitamente piccolo godo.