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di
Federico Cirillo

 

Sveglia, suona, buco in pancia… Uhm di nuovo lunedì. Vabbè, potrebbe andar peggio… ma chi cazzo l’ha impostata ‘sta suoneria? 

Scendo, moka, radio, canna… Vabbè, poteva andar peggio, potevo avere Gigi D’Alessio… Caffè. 

«Buongiorno Fede, caffè finito, sorry! I.» un post-it profetico, dono di “coinquilinaggio”.
Caffè, finito. Caffè. Finito. Sorry? Caaazzo. È finito il caffè… vabbè, calma, può sempre andar peggio.

Colazione veloce, camicia, banana – la mangio qua stavolta (vedi maènabanana) – lenti, borsa, cuffie, giù, di corsa: il 23.
8.10: mi rode il culo, ok, ma potrebbe andar peggio.
8.15: non passa… sta andando peggio.
8.37: eccolo! Vedi? Poteva anda’ pure peggio su. 

Gente, folla, cuffie, musica: Sveglia, suona, buco in panciabasta! Mo la cancello. Quiete… 

«Aoh – più forte – Aoh – ancora – AOHHHH!». La mano pesante che sbatte sulla mia spalla destra costringe il mio busto ad andare in sintonia con la brusca fermata che il 23 fa per non entrare in una smart inchiodatasi sul lungotevere. Mi giro e… cazzo la pelata, quella pelata! Mo sta a andando decisamente peggio e sto ancora a Trilussa… «Ah – dico – buongiorno eh…» con sguardo di chi ancora conserva una ferita difficilmente sanabile (vedi, Stanno dappertutto). Sotto la pelata, la bocca si muove ma non emette suono. È diventato muto! – penso con giubilo – Ah no… e con rassegnazione tolgo le cuffie…
«…che mi sono sbagliato e pioveva!»
«Cosa? Avevo le…» provo, per ristabilire connessione umana.
«Dicevo: tieni questo è l’ombrello tuo, che l’altra volta mi sono… sbagliato, insomma, e poi pioveva!».
«Grazie eh!» ironizzo.
«Prego figurati» senza cogliere.

«Hai visto che mito, coso là, Ronald Trump!» esordisce gonfiando il petto e scandendo nome e cognome.
Qualcuno si sposta, qualche altro si gira, una ragazza con la kefiah alza gli occhi al cielo e quasi si morde le mani per non entrare, saggiamente, nella questione.

«Donald…» lo correggo. «Sti cazzi, è uguale» mi fa notare ridacchiando. «Era ora che si svegliassero là, che usassero un po’ de pugno duro co sti cinesi, coreani o quello che so, così magari anche noi iniziamo a prende’ spunto e magari arriviamo ad alzare un bel muro per non far entrare più nessuno che viene qua a… – il mio sguardo tra l’interrogativo e l’incazzato lo blocca per un attimo, ma poi, come trapassato da una scarica di qualunquismo all’ennesima potenza esulta – rubarci il lavoro! Che poi possibile che tutte le attività qua chiudono pe’ colpa di ‘sti cazzo di cinesi? Sai quanti sono? Secondo gli ultimi dati so’ tipo 1 milione! ‘cazzo di cinesi».

«Ah sì? li ha contati?» chiedo distratto cercando di reggermi ad un seggiolino occupato da un’ orientale.
«Mica io – risponde di getto – quelli dei dati. 1 milione, ti rendi conto? Ma che ci vengono a fa’ qui? Lo so io lo so. Perché lì da loro non possono aprire negozi chè tutto è di tutti e devi dare i soldi al governo e invece qui si fanno i cazzi loro. Pensa che a scuola di mia figlia sono tutti cinesi. Vabbè la maggior parte. Ah guarda qua – e, concitato, estrae dal portafoglio una carta A4 stampata a colori con l’immagine di lui che tiene per mano una bambina dai tratti asiatici – eccola qua mia figlia, caruccia ve’?».

«Ma è cine…» azzardo io.
«Giapponese: un’altra razza, un’altra cultura…ma che ne sai? Si chiama Anna, carina è? L’abbiamo adottata che c’aveva due anni, adesso ne ha 8, è una bellezza, bella de papà» quasi l’accarezza con gli occhi: ma allora prova dei sentimenti! «Ah che poi – spezzando l’incantesimo – porella, ha visto l’ombrello tuo, ce se è messa a gioca’ e me sa l’ha mezzo spezzato, s’apre male… vabbè so’ bambini. Oh fermata mia: forza Trump! Alla prossima!» e scende rinfilandosi il foglio A4 in tasca.

Alla prossima? Ma anche no. M’ha pure rotto l’ombrello… cazzo de cine… vabbè coreani…o giapponesi?
Sceso a Sforza Pallavicini, prima di buttarlo e cercando inutilmente di aprirlo, leggo: MADE IN CHINA stampato sul manico.

Vabbè potrebbe andare peggio… potrebbe piovere…e un tuono in lontananza, sottolinea il mio verso.

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di
Federico Cirillo

 

I colori dell’autunno in città: alzi gli occhi, grigio; abbassi gli occhi, grigio.
Poi cambia fuso orario e alle 18 cambiano i colori dell’autunno: è notte e il 23 non passa. È notte, il 23 non passa e piove.

Ed ecco, è già pallido, sepolcrale autunnoLa nebbia agli irti colli, piovigginando salel’ombrello a cui tendevi la pargoletta mano… vabbè, apriamolo va.

Stormi di bimbi, come esuli pensieri, saltano da una pozzanghera all’altra, sfiorando l’immagine grinzosa e tremolante di un Castel Sant’Angelo che lì si specchia. Mamme sbraitanti, ripetono il loro verso. Si ode il 23 far breccia.

Ma dove ve ne andate, povere foglie gialle come farfalle spensierate?  Autunno mansueto, io mi posseggo e piego alle tue acque a bermi il cielo, Respiro il fresco che mi lascia il colore del… «’tacci loro aoh, stanno dappertutto» – eh no, questa era meno poetica – «Dappertutto!» ribadisce, gracchiando mentre si scrolla di dosso le ultime gocce di brina dalla pelata madida di acqua e sudore con la manica di un giubbino nero di pelle.
Se parla delle foglie gialle come farfalle, o mi legge nella testa o è Trilussa, penso. «Dice le foglie autunnali?» azzardo con aria ancora lirica.
«Ma che cazzo stai a di’?» risponde con tono meno lirico. «Quelli, i negri, gli estracomunitari, nun senti che casino che stanno a fa’?» agitando il pollice della mano destra verso il nugolo di gente alle sue spalle. Tre bimbi sinti in fondo all’autobus, ancora affannati dalle corse nelle pozzanghere, provano a svincolarsi dalle mani sicure e vigili delle due mamme.

«Ma so bam…» provo ingenuamente a ribattere. «Mo’ so bambini, poi crescono… crescessero al paese loro!» risponde lui anticipando ogni mia mossa con aria e fare di chi la sa lunga.

Il 23 taglia il tragitto, la pioggia insiste, il tipo anche. Si libera un posto doppio, mi siedo, poggio l’ombrello accanto alla borsa. «Che poi – continua sedendosi accanto a me, con fare più accomodante ed amichevole – dico io no, già c’abbiamo tanti problemi noi qui in Italia, ce li dobbiamo pure porta’ da fuori? Questi vengono, stru… stuprano, rubano e fanno quello che je pare».
«Ma quei bambini lì dice? – provo a stemperare con la mia tipica vena humor – Ma non credo che…»
«e nun cazzeggia’! Sto a parla’ serio!» mi riporta all’ordine con discrezione il tipo: altero come un Francisco Franco, rigido quanto un busto di mussolinana memoria, aperto al dialogo quasi quanto un Erdogan. «Stiamo tutti co’ le pezze ar culo e li facciamo entra’. Ci starebbe da alza’ un muro e fa passa’ solo quelli che servono» non fa una piega. Il tizio, non il ragionamento.
«Ma poi è tutto un business sai? – cambia tono diventando improvvisamente molto keynesiano, guardandomi fisso come a cercare un appoggio etico – Vengono, sbarcano, si mettono nelle strutture d’accoglienza e poi… je danno 30 euro al giorno! Al giorno! 30! E poi girano con l’iphone – che fine ha fatto lo stile keynesiano? – macchenesai te? Ma te sembra normale? Ce rubano il lavoro, ce rubano le donne, ce rubano le case… tutto si rubano. Li trovi ovunque, stanno dappertutto, stanno» e mentre ripete questo mantra, dello “stanno dappertutto, stanno scende a Vanvitelli e se ne va.

Che tipo – penso –  l’elogio al qualunquismo insomma. Che poi continua a bofonchiare da solo, anche sotto l’ombrello. Buffo, è simile al mio. Sicuro l’avrà comprato fuori la metro pure lui.

FERMATA – Via Ostiense Matteucci: e piove ancora. Sarà lirico quanto ve pare st’autunno però checcazzo pure la poesia m’ha tolto quell’Hitler de Testaccio. Vabbè, si scende. Cuffie, borsa a tracolla e ombrell… dove cazzo? NO! ‘tacci sua altro che uguale… era il mio!! Ma guarda che testa de…

Non faccio in tempo a scendere a Mercati Generali che, aperte le porte, nel buio dell’autunno, mi si para davanti tra il 23 e il marciapiede, un porta-ombrelli umano: scuro quasi come le 19 di sera, i denti bianchi brillano in un sorriso, i capelli bagnati incollati sulla fronte, alto quanto gli ombrelli che tiene appesi tra braccia e mani. «Ombrello amigo? – dice sorridendomi e lanciando uno sguardo verso la pioggia – Ombrello? 10 euro».

Meno male – penso – state dappertutto.