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di
Valter Chiappa

 

Faceva comodo salire al capolinea: si poteva scegliere il posto.
Meglio se il primo autobus era appena partito: si aspettava il successivo con l’assoluta certezza di conquistare proprio quello, terza fila, accanto al finestrino.
In verità non c’era un motivo logico secondo cui lei dovesse sedersi un’altra volta lì, di fronte, come quel venerdì; ma costruire un rituale permetteva l’infinita ripetizione di un piacere che, giunto inatteso, V. voleva fosse immutabile.

Giovedì 22 Maggio

S. si era fatta largo, goffa ed irruente, fra le signore burbere e gli zaini dei pischelli e si era seduta proprio lì, di fronte.
V. la guardò. L’attrazione non segue canoni, ha radici in qualche piega profonda del vissuto. Viso rotondetto ed accaldato, piccoli occhietti verdi, capelli lisci di un semplice castano.
V. sentì ancora il desiderio disilluso per una felicità che non gli era dovuta.
Ma poi successe. Il testo di analisi aveva funzionato, assieme a qualche appunto scribacchiato. Si sa, matematica è un esame ostico per le matricole di economia: derivate, integrali, le temutissime funzioni.

«Cosa stai preparando?» esordì lei, con una naturalezza a lui sconosciuta.
Lui timido: «Analisi I»
«Analisi che? Ma non sei di economia?»
«No. Faccio ingegneria»
«Ingegneria? Dai… allora mi puoi dare una mano. Ho l’esame fra 15 giorni e sono disperata!»

Per una convinzione comune, gli ingegneri hanno le risposte ad ogni problema, ma V. non le aveva nemmeno per i suoi.
Cominciò così. Nei 40 minuti del tragitto, fila di Montesacro compresa, V. provò ad esporre ordinatamente la metodologia corretta per affrontare lo studio di una funzione: il campo di esistenza, asintoti, flessi. Ma S., con domande a raffica, smontava il filo solido dei suoi ragionamenti.

Martedì 27 Maggio

«Ciao! Ti disturbo se mi siedo qua?»
V. non sapeva rispondere.
«Come va?»
«Un disastro! La funzione modulo. Proprio non l’ho capita»
Lui paziente: “È facile: se x<0, allora y = -x. Insomma, la devi prendere sempre positiva»
«Sì, ok. Ora però mi aiuti a risolvere quest’esercizio?»
V. scrollava la testa: per lui non si poteva studiare senza un metodo rigoroso. Ma S. diceva ogni cosa con quel sorriso che non ammetteva repliche. E V. si sentiva scaldare il cuore. E si sentiva accolto mentre S. lo ascoltava.

Mercoledì 28 Maggio

«Hai studiato?»
«No, ascolta. Mi è successa una cosa buffissima»
E V. rideva. Di cose che non gli sembravano più sciocche o insensate. Era bello, ridere, senza la catena di un pensiero conduttore; essere felice senza una regola. Decise di abbandonarsi a quella corrente disordinata, gioiosa ed ignota.
Nei giorni successivi parlarono di tante cose: delle vacanze ormai prossime e di un paesino in Calabria. Della loro stanza, dei dischi. Dei genitori. Dei sogni. Del futuro. Il futuro…

Lunedì 9 Giugno

«In bocca al lupo per domani. Fammi essere orgoglioso di te»
«Ci sentiamo, no?»
Balbettio.
«Ah, che sciocca! Non hai il mio numero!» e lo appuntò sulla copertina immacolata del libro di analisi.
Scese veloce, lanciando un bacio.

Martedì 10 Giugno

V. guardava nervosamente il numero di telefono.
Provò a desistere: «Magari mi racconterà tutto domani in autobus»

No: il giorno dopo non sarebbe andata all’Università. Panico. Respirò forte.
Chiamò.
Il muro, gigantesco avanti a sé, si sgretolò in un attimo al suono squillante della sua voce.

«Finalmente posso andare in vacanza, non ce la facevo più»
«Parti?», deglutì.
«Scendo con Mamma. La casa in Calabria, non ti ricordi?»
«Dai… che bello!», il cuore in una pressa.
«A Settembre ci raccontiamo tutto. E tu fai il bravo, non rimorchiare troppo…»

Le altre parole si confusero nel ronzio che gli riempì la testa.

Lunedì 22 Settembre

V. ripeteva mentalmente, ormai a memoria, quel numero di telefono. Un giorno avrebbe chiamato. O magari no: non sarebbe stato più bello incontrarsi nuovamente sull’autobus? Sorrideva. Sì: sarebbe stato più bello così.

Lunedì 9 Gennaio

Freddo e nebbia, palpebre pesanti, pensieri ovattati. Il capolinea era un miraggio, là in cima a Via Verga.
«Quanto ci mette a partire?».
V. non sentì nemmeno il motore avviarsi, le persone che, come spettri silenziosi, affollavano la vettura. Poggiata la testa sul vetro appannato, cadde in un sonno profondo.

«Signore, il biglietto per cortesia».

La voce più ferma e uno scossone appena brusco fecero dissolvere in un attimo le immagini dei sogni che, rapidi, avevano popolato la sua mente. Solo il ricordo di un raggio di sole caldo rimase, sospeso nel vuoto dei pensieri lucidi.
«Tessera» disse V., frugando fra le tasche, da cui estrasse un cartoncino lacero.

«Questa cos’è?»

«Intera rete, non vede?»

«Signore, questa non è valida, controlli bene»

«Ma l’ha vista anche il bigliettaio!»

«Il bigliettaio? Quale bigliettaio?»

V. tese la mano verso la porta posteriore, a indicare l’omone bonario con la pancia appoggiata sulla vaschetta di ferro con le 50 lire. Sbarrò gli occhi: non c’era. E neanche la vaschetta, e il suo trespolo. E le facce intorno? Non erano le stesse. Dov’era la vecchietta col carrellino per la spesa, quella che faceva solo due fermate? E i ragazzi con la svastica disegnata a penna sulla Tolfa?

Rimase così, la bocca spalancata.

Il controllore guardò perplesso quell’uomo con i grigi capelli arruffati, la barba lunga, lo sguardo spento.

«Signore, si sente bene?»
«Certo… sì…»
«Scenda con me alla prossima»
«No! Non posso, devo incontrare una persona…»
«Venga… venga con me»
V. cominciò ad agitarsi scompostamente. Il controllore infilò un braccio sotto il suo e cominciò a trascinarlo, cortese ma fermo. Un vecchio libro cadde fra i piedi della calca.
«Stia tranquillo. Sistemiamo tutto»
«No! Non posso…»

Le loro voci si persero, sfumando nel rumore di fondo del traffico.

La scena si era svolta nell’indifferenza della gente, ognuno isolato nei suoi pensieri o ipnotizzato dallo schermo di un telefono.

Solo una donna aveva osservato tutto in silenzio. Raccolse il libro, ne guardò la copertina.

Una lacrima scorse via da due occhietti verdi, piccoli e tristi, e andò giù veloce a rigare un viso rotondetto.

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di
Federico Cirillo

 

23- Fermate Pincherle/Marconi – Marconi/Pincherle

Quella partita non fu una partita qualsiasi, fu una partita che lasciò agli spettatori il compito di stabilire dov’era il confine tra la memoria e la leggenda…
(Edson Arantes do Nascimento, Pelè)

1942 – La guerra imperversa, l’Italia è divisa, lacerata, ferita ma non ancora morta. L’Italia calcistica, soprattutto, è bloccata dagli eventi: i combattimenti, infatti, hanno imposto il cessate le partite, strappando via sogni e speranze di cuoio vestite. Eppure vi era ancora, nascosta e celata, voglia di calcio, quello vero che sbuccia le ginocchia, quello che rompe le tute e le toppe sopra le tute. Quello fatto di terriccio e pali delle porte che sono felpe ammassate a sei passi le une dalle altre… quello della partita Pincherle/Marconi – Marconi/Pincherle per intenderci.
Così, proprio mentre dalla Patagonia soffiavano voci di un mondiale fantasma, ai piedi dell’Ostiense, Roma, c’era aria di derby…
Bombe in lontananza, il ventre, anzi i ventri di Roma si aprono ovunque. Aerei che sfrecciano, radiogiornali che riportano bollettini del conflitto.
Lorenzo, Pietro, Paolo, Sebastiano e Andrea Marconi sono i cinque fratelli più piccoli della numerosissima famiglia Marconi.
Claudio, Giulio, Adriano, Augusto e Cesare, invece, sono rispettivamente i tre gemelli Pincherle e i loro due cugini.
Il teatro è il campetto di fango, terra molliccia e polvere di una zona nascosta dell’Ostiense, ai piedi della Basilica di San Paolo. In palio il pallone di pezze e stracci confezionato da mamma Rosa e mamma Letizia, le due donne delle due rispettive case, sarte entrambe. Chi vince avrà pallone e Gloria, la ragazzina più bella del quartiere della quale i due rispettivi capitani (Lorenzo e Claudio) sono follemente innamorati (lei non lo sa e magari alla fine non li degnerà comunque di uno sguardo, ma chi vince può provare a chiederle di tenerle la mano mentre l’accompagna a casa dopo che è scesa dal 23…).
L’allarme di una bomba caduta, probabilmente poco lontano, dà il via al match. Tira vento freddo e il pallone ne risente: le due donne hanno usato indumenti e stracci estivi, sacrificabili in inverno, tanto il piccolo Marco Marconi indossa sempre lo stesso maglione: tre anni e mezzo, scampato alla poliomelite, osserva un po’ sbilenco la partita mentre si gusta il sapore acro e salato del suo indice.
Lorenzo prende in mano le redini del gioco, macina il campo come aratro fa con le messi; scarta come un fulmine gli avversari e sembra un giovane Silvio Piola. A 9 anni ne dimostrava già 12, ora che ne ha 10 ne dimostra 11, sembra infermabile, irraggiungibile da tutti, un Girardengo del pallone… per tutti ma non per Claudio Pincherle, lo stopper/libero dei Pincherle appunto. È il più esperto di tutti perché da giovane ha giocato per due mesi nella squadra locale, poi un infortunio al piede ne ha limitato la crescita, tanto che non può più tirare d’esterno e, da allora, fa il difensore: con Lorenzo è sfida aperta, lo blocca e riparte come baio selvaggio.
Le ali Adriano e Augusto sono mingherline – la pellagra li ha fortunatamente solo sfiorati – e rapide e anche se perdono tutti i contrasti hanno nel lancio la loro arma migliore: spesso insieme al pallone parte una scarpa senza lacci e per l’avversario sono dolori. Il cross di Augusto è perfetto, Cesare si traveste da Levratto tira e… gol?
«’N’ ce prova’ a Ce’, è passata troppo sopra, è fori!»
«Maddechè, ahò quello sei te che hai le braccia corte…»
«Vabbè decidiamo a morra, vinci tu, rigore pe’ voi, vinco io palla nostra».
La morra: Cesare ha nel sasso il suo punto forte, d’altronde la mano destra ha solo 3 dita, 2 saltarono con un petardo scagliato lo scorso capodanno troppo in ritardo; Sebastiano, il portiere prova il tutto per tutto con la forbice «magari scaglio, che me vo’ frega’»: rigore per i Pincherle, gol, Cesare non perdona.
Lorenzo rosica; Claudio se la ride e dà uno sguardo veloce a Gloria che passa di lì insieme a Bianca e non se li fila di striscio; Lorenzo rosica ancora di più; Sebastiano accenna uno «scusa»; Marco continua a succhiarsi l’indice.
Palla al centro 1-0. Il capitano Marconi non ci sta, scambia con Pietro, triangola con Paolo e prima di entrare in area, sbraca letteralmente di fisico Claudio e tira ‘na pezza: Giulio ci prova, ci mette la mano, si spezza un’unghia, s’accavalla il medio, la mano si piega… gol 1-1. Palla al centro. Gloria di nuovo in bilico.
Fiati sospesi, il sole, opaco e bianco latte, inizia a dare i primi cenni di ombratura. Il freddo diventa più pungente, ma le tute servono per i pali. Fango, polvere, scarpe rotte che volano, ginocchia sbucciate, gambe incrostate, toppe. La sirena… lunga, lunghissima, interminabile. L’aereo, vicino, basso, grigio e rumoroso. La bomba, vicina, troppo vicina…
…il confine tra memoria e leggenda: Pincherle/Marconi 1-1.

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di
Sabrina Sciabica

 

Una ragazza, appena dopo mezzanotte, aspetta il notturno che la riporterà a casa, a pochi chilometri da lì.
Porta Pia è una bellissima piazza nell’aria notturna, un leggero velo di umidità su quelle mura antiche dà ancora più solennità alla statua del bersagliere che aspetta, da tempi immemori, infiniti autobus.
Si avvicina alla fermata un settantenne.
Capelli bianchi, bombetta nera in testa. Indossa una giacca nera dalla quale fuoriesce una camicia colorata, cravatta bianca. Tiene in mano una busta rossa, con dentro oggetti strani che si intravedono appena, una specie di vischio natalizio, altre buste colorate.
«Mi scusi – chiede distintamente alla ragazza – dovrebbe passare alle 0,50, le risulta?»

Lei risponde: «Eh sì, speriamo».

«E che ore sono, che ore sono?»

Non è la frase, ma le scarpe un po’ lacere sotto a quei calzoni neri ma un po’ corti e quella camicia un po’ troppo vivace, a trasmetterle qualcosa di strano.

Risponde: «Mezzanotte e 40».

«E come mai una signorina come lei a quest’ora ancora per strada?»

«Eh, sono appena stata ad un concerto», risponde ancora lei.

«Ah, io sono stato all’Opera questo pomeriggio!»

Ho visto lo Schiaccianoci, Ciajkovskij. Sa, fanno due turni, alle 15 e alle 21. Io sono stato a quello delle 15 e poi sono andato al bingo».

Qualche istante di concentrato silenzio e riprende ancora più seriamente: «Ma lei lo sa che la storia dello Schiaccianoci deriva da un racconto dell’orrore di Hoffman? Lo schiaccianoci di legno è un regalo di Natale per una bimba ricca e, a notte fonda, si anima e si ritrova a dover combattere contro il re dei topi, con sette teste e sette corone, e il suo esercito di roditori.

Era così cruento che Alexandre Dumas padre dovette riscriverlo da capo per il libretto dell’opera. La protagonista si chiama Clara, come la mia signora; e quindi al nostro secondo appuntamento la portai in teatro e sulla delicata danza della Fata Confetto mi avvicinai dolcemente e la baciai sulle labbra.

Mi disse, anni dopo, che era stato il momento più bello della sua vita. E io non lo dimenticherò mai».

«Bello lo Schiaccianoci!» – dice la ragazza tossendo parecchio.

«Uh – saltella lui allontanandosi immediatamente – Raffreddata? Sa, io sono tenore, non posso permettermi di ammalarmi, mi perdoni se mi sposto leggermente, non è per scortesia, è che devo stare attento per la mia professione! E lei che concerto ha visto?»

«Bossa nova, Jazz, ma anche Paolo Conte e Gino Paoli».

«Ma…. Gino Paoli la musica, non lui!», contesta l’anziano e arzillo signore.

«Certo, la sua musica, non lui» spiega la ragazza in attesa.

«Ma che ore sono, che ore sono?»

«Mezzanotte e 41 minuti».

«Mh, questo N4 è un po’ manigoldo! Eppure a quest’ora non c’è traffico».

«No, per niente, è tutto così tranquillo».

«Sa l’altra volta quanto ci ho messo dal bingo per arrivare a casa? Un’ora ci ho messo! Un’ora! Invece stasera è tutto più libero.
E domani come sarà? Come sarà il traffico? Vede, domani devo andare a visitare un paziente all’ospedale di Porta di Roma. Sa, io sono medico. Ho salvato così tante vite nel mio lavoro, mi ringraziano ancora. Mi capita di fermarmi in auto al rosso di un semaforo e sentirmi dire da un uomo che attraversa la strada “Uh! il Dottore che mi ha operato al braccio”».

«Porta di Roma? Ma è un centro commerciale!» bisbiglia lei confusa… «e poi non ha detto di essere tenore?» e riprendendosi gli dice: «No, no, domani è domenica, tranquillo, non troverà traffico».

E finalmente ecco il bus, in cui saliranno una ragazza divertita dalla fantasia di un distino settantenne e un tenore-medico- giocatore di bingo pieno di vita e di immaginazione.

Fantasiosi discorsi che non stanno né in cielo né in terra, proprio a metà strada, ai surreali incroci di questa meravigliosa umanità notturna.

Chissà come sarà lei, a settant’anni, adesso pensa.

Chissà quante vite avrà vissuto e quante ancora ne vorrà vivere.

Chissà se, come il vecchio con la bombetta nera, ne avrà vissuta una soltanto, una che non è bastata per tutto quello che voleva fare, una che le stava stretta e la obbligava a compiti indesiderati ma necessari.

E allora alla fine del percorso potrà scegliere di vivere con la fantasia le vite più belle, anche se immaginate.

E sarà ballerina classica al Bolshoi, sarà soprano al Teatro dell’Opera di Roma, sarà chirurgo al Campus Biomedico, sarà scrittrice famosa in Francia, sarà reporter di grido in America…o sarà stata semplicemente amata, vedova e mamma di 4 figli. Forse sarà nonna di altrettanti nipoti che, invece di farle prendere un autobus notturno, andranno a prenderla per portarla a casa, dopo una serata passata al bingo, con altri amici un po’ estrosi e un po’ fuori di testa come lei… e come il vecchietto con la bombetta nera.