View More

di
Matteo Raimondi

 

Sotto una balbettante luce al neon mi viene in mente un vecchio motto romano: “A Via della Lungara c’è un gradino. Chi non lo sale non è romano né trasteverino”. Il gradino è quello di Regina Coeli (che non è una chiesa ma una prigione). Cinquant’anni fa era una cosa che dicevamo tra ragazzi per ridere.
Oggi le nuove generazioni l’hanno presa sul serio. Sono dei delinquenti. Colpa dei romanzi. Anzi, delle serie TV perché i romanzi non li legge più nessuno.
Una volta sull’autobus e sulla metropolitana si stava coi libri e i giornali. Ora si muove il pollice sullo schermo di un telefono, su e giù come stanno facendo i quattro passeggeri con cui condivido il vagone della metro C che, alle dieci di sera di un sonnolento mercoledì autunnale, sta viaggiando in direzione Centocelle.

Mentre il treno stride, penso che con l’avvento di quegli aggeggi il tempo a disposizione dei ragazzi si è contratto.
I telefoni sono come la marijuana nel ‘70: esagerano tutti ma nessuno lo ammette.
Felicità dei governanti:i drogati sono obbedienti, e questi ragazzi “vanno-molto-alti”. Me l’appunto sul taccuino, mi piacerebbe farne una lezione: Svegliatevi!

Oggi la madre di una delle mie alunne mi ha incalzato: «Questa storia dei selfie sta sfuggendo di mano.»

«È un problema di subcultura»
«Prego?»
«In sociologia è un insieme di persone con caratteristiche simili, come età e razza, o classe sociale e fede politica, che si distaccano dalla cultura predominante. Non esistono più sottoculture credibili. Si stanno adeguando tutti a un’unica grande cultura di massa, la cui offerta è filtrata dall’Industria Culturale, una specie di fabbrica di contenuti».

Lei mi ha guardato con occhi pigri e io ho capito di annoiarla. Ho fatto un cenno con la mano, come a dire di lasciar perdere… sono un vecchio rompicoglioni comunista. Anche se mi vergogno a dirlo credo che la gente lo capisca lo stesso: indosso ancora giacche di tweed con le toppe ai gomiti e pantaloni di tessuto.

«Sa che cosa ho trovato nel telefono di Vanessa?»
«No»
È arrossita. «Primi piani della sua vagina e istantanee di un pene eretto…» ha abbassato la voce e aggiunto:«più grosso di quello di mio marito.»

Ho sentito il bisogno di bere un sorso d’acqua. Questa gente di periferia è fatta così. Si definisce spontanea, senza peli sulla lingua. Terra terra. Per loro è un vanto, per me che invece provengo da una famiglia della Roma bene è un costante imbarazzo.

«Si rende conto?»

Non proprio.

«Crede che dovrei parlarle?»

Mi sono mosso sulla sedia, a disagio. «Direi di no.»

«Ai miei tempi queste cose non succedevano.»

«Quando ero giovane i ragazzi sfogliavano riviste francesi con le signorine in reggicalze». Ho sorriso, ma lei no.

«È l’adolescenza. Stia tranquilla.»

L’ultima cosa che volevo era immaginare gli organi genitali di una ragazzina di diciotto anni, perciò ho aperto il registro e parlato del rendimento di Vanessa, ottimo, e chiesto i suoi progetti per il futuro.
Dopo la maturità, siccome era avanti di un anno, sarebbe andata a lavorare in Inghilterra.
Brava ragazza, Vanessa.
Brava e bella.

(Vagina.)

La metro riparte con uno scossone e in galleria accelera. Faccio in tempo a leggere Torre Gaia su un cartellone prima che il neon ricominci a singhiozzare, rapsodico.

Sono ansioso di arrivare. Dopo venti minuti qua sotto comincia già a mancarmi l’aria.
Ogni volta che esco dalla metro è come riemergere da un’apnea. E ho sempre quella sensazione di cambiamento, come se il mondo fosse andato avanti senza aspettarmi.
Stare in metro a Roma è come entrare in un’enorme macchina per fermare il tempo. E poi puzza. Ha un odore fortissimo, di ferro ossidato e sudore.

Anni fa non ci avrei mai messo piede: la mia ex moglie era claustrofobica, e alcuni disagi sono contagiosi come l’influenza.
Ora non ho alternative: insegno letteratura in una zona chiamata Finocchio, estremo oriente, e vivo in Prati, al centro. Per uno che non conosce Roma non è facile capire che non scherzo quando dico che se non avessero aperto la linea C avrei trascorso la maggior parte del mio crepuscolo in autobus. Forse ci sarei persino morto.

La casa dove vivo era dei miei. L’ho ereditata da mia madre, vissuta vedova per trent’anni. Con lo stipendio che percepisco cercando di mostrare il mondo a ragazzi ciechi dalla nascita potrei permettermi al massimo un affitto in condivisione. Per fortuna mangio poco e vivo solo.

(Vagina.)

Sul sedile accanto al mio c’è un volantino. È propaganda. Dice che un immigrato costa 1000 euro al mese. Tanto si potrebbe dare a una famiglia per il mantenimento di due figli.
Lo accartoccio: populismo.

«Cazzo fai?»

Alzo gli occhi. Davanti a me c’è un ragazzone che avrà vent’anni. Dev’essere salito all’ultima fermata. In una mano tiene una decina di quei volantini. Mi sento in colpa. Ho davanti un esempio di subcultura e l’ho appena trattato da spazzatura solo per un vecchio pregiudizio.

Sorrido, come tutte le volte che sono in imbarazzo, e mi gratto la testa calva.

Lascia andare i fogli. Si spargono ovunque sul pavimento butterato del vagone.
Il neon singhiozza, nel buio sento lo scatto di un coltello.
Ha gli occhi così pieni di rabbia che mi viene da piangere.

La metro rallenta, scorre un altro cartello: Torre Angela.

Dico: «Non avrei dovuto.»

Il treno frena bruscamente, le ruote fanno urlare i binari.

Il ragazzo fa un passo avanti. «Voi comunisti avete rovinato l’Italia».
Mi piazza la lama sotto il collo: Regina Coeli e romanzi criminali.
Il treno bordeggia e strattona. Lui perde l’equilibrio e io sento un bacio gelido sul gozzo: è una tragica fatalità.

Il treno si ferma e le porte si aprono.

Mi guardo intorno. Nessuno si è accorto, stanno con gli occhi sui telefoni. Meglio: non voglio creare problemi.
Va via, provo a dire, ma dalle labbra mi esce solo un bulicame caldo. Lui fugge.

Sto morendo, è triste. Il treno riparte.

(Vagina.)

Spero solo di non andare all’inferno.