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di
Matteuccia Francisci

 

Once Were Gods…

 

«Non mi piace prendere la metropolitana, non potevamo andare in qualche altro modo?»

«Tutte le volte la solita storia, Anselmo, lo sai che no, non potevamo.»

«Non mi piace prendere la metropolitana!»

Anselmo e Agata si guardano e poi tacciono. Agata ricomincia a guardare le immagini sul cellulare, Anselmo continua a sbuffare e muoversi a disagio sul sedile.

«Ho caldo.»

«Non è possibile, c’è l’aria condizionata, si sta benissimo.»

«Tu stai benissimo, io ho caldo.»

«Abbassa la voce, ti stai rendendo ridicolo.»

«Con chi? Lo sai che a nessuno importa niente degli altri.»

Intorno a loro, in effetti, nessuno sembra prestare la minima attenzione alla conversazione tra Anselmo e Agata, o al fatto che Anselmo si sieda e si alzi dal sedile in continuazione, come se scottasse. Sono tutti chini sugli schermi, proprio come facevano…

«Tutto questo spostarsi, poi, non lo capisco.»

«Si chiama mobilità, è una grande conquista.»

«Conquista di cosa? Siamo diventati come loro.»

«Per questo è una grande conquista.»

«Poveri voi. Io sono vecchio, non mi rimane molto, ho vissuto una vita libera e felice, una vita da dio…»

«Ancora con questa storia del dio? Ora siamo noi che comandiamo, Anselmo, non te ne rendi conto?»

«Sei tu che non ti rendi conto. Eravamo dèi e loro i nostri schiavi. C’eravamo noi su quelle cose diaboliche, erano loro a guardare le nostre foto, adesso è il contrario. Siamo diventati come loro, siamo degli schiavi.»

«Ma smettila Anselmo, stai vaneggiando, devo portarti di nuovo dal dottore per rivedere il dosaggio delle medicine. Rilassati, tra poco arriviamo. Guarda che carina questa foto che mi ha mandato Zia Giustina!»

Anselmo si rimette a sedere sul sedile e dà le spalle ad Agata. Comincia a leccarsi, piano. Prima una zampa, poi l’altra.

Accanto a lui un giovinetto sta guardando il video di un umano che dorme, sta commentando «Quanto è dolce!» e subito compaiono dei «mi piace» al suo commento.
Il giovinetto fa le fusa dal piacere.

«Eravamo dèi, ora siamo come loro» borbotta tra sé e sé Anselmo, mentre scende dal sedile dove ha appena pisciato.

 

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di
Sabrina Sciabica

 

«Mi ha tradito. Cristiano mi ha tradito» diceva in modo concitato Katia parlando con Debora, sul 60. «Dopo che ho lasciato Giuliano pe’ stare co’ lui, dopo che ho interrotto co’ Paolo per farlo felice, solo perché ieri sera ho rivisto il mio ex, Giovanni. E poi perché Giovanni aveva lasciato Maria e aveva bisogno di parlare co’ qualcuno… e così Cristiano mi ha fatto il dispetto».

«Dài, non puoi saperlo, Cì, anche di Giovanni lo dicevi e invece era rimasto a dormire da su’ sorella» cercava di calmarla l’amica. Io le ascoltavo attentamente e tenevo le cuffiette attaccate al cellulare per far credere che ascoltassi musica. Sapevo già di Giovanni, di Giuliano, ma di Cristiano non ancora! Le vedevo quasi tutte le mattine, belle, super truccate, artigli rossi e tacco 10, impiegate alle poste, brave lavoratrici, sempre puntuali, leggermente pettegole, decisamente istintive, vita sociale a mille.

«Da su’ sorella? Fino alle 3 del mattino? E col rossetto sulla camicia? E quel profumo, poi… era così stanco che me l’ha pure lasciata là sulla lavatrice e apposta stamattina ho capito tutto. Ma vedrà. Se ne pentirà. Nun ha capito che noi donne abbiamo mille poteri. Sta ancora a dormì, e quanno me chiama nun rispondo proprio. Mo’ ce penso io. Mo’ ce penso proprio io. Se lo sogna di stare ancora da me. Mo’ vedrai, vedrai. Vedraaaaaaaaai!» terminava, sottolineando la “a”.

«Ambè, se è così! Eppure, Cì, io da lui popo popo nun me l’aspettavo! Valli a capì st’omini. Ma che vogliono di più? La solita storia: anvedi che stronzi!»

E no! Porca paletta, stanno già scendendo a Regina Margherita, è venerdì, e domani non le becco, mannaggia!

Come ogni lunedì mattina aspetto il 60, triste più che mai perché Giacomo non si è fatto sentire tutto il week-end e il mio cellulare è stato silenzioso, a parte le chiamate di mamma per raccontarle che non ho fatto niente per ben due giorni di seguito. Vita sociale zero. Eccolo! Ed eccole! Salgo curiosa. Oggi è strapieno, devo schivare un po’ di ragazzini prima di avvicinarmi a loro e indossare le solite cuffiette. «E insomma, e lui?» chiede Debora mentre penso che peccato, devo aver perso un bel pezzo del discorso.

Katia è più vaporosa e contenta del solito: «Cristiano prima dice che è colpa mia che è andato male il colloquio, che doveva prendersi il vestito buono che aveva da me e io non mi sono fatta trovare apposta, e così ha perso il posto da buttafuori perché c’aveva i jeans e questi avevano specificato di vestirsi bene».

Risate fragorose. «E ieri invece?» chiede Debora.

Katia mette un ghigno malefico e ricomincia: «Ieri pomeriggio, verso le sette, me richiama e me dice: “A Ka’, ma perché te stai a comportà così? Ho capito che ho esagerato con la storia del vestito, per averti dato colpe, ma ti ho chiesto scusa mille volte! Non ho capito perché stanotte non mi hai voluto. Ma comunque, devi venire qua a prendermi! Sto ’nguaiato, amo’! Non sai che m’è successo: mi’ fratello, che mi doveva accompagnare ad Ostia pe’ l’altro colloquio al Lido del suo amico, c’ha la febbre e m’ha detto prendite er motorino mio. Arrivo là e trovo tutto chiuso! Ho chiamato e dice che c’ha provato ad avvisamme ma oggi non riesce a venire, rimandiamo a quanno non lo so, forse domani. Insomma co’ la santa pazienza me rimetto sulla Via del Mare e sento ’na puzza e un rumore… manco il tempo di rendermi conto, che sto coso se ferma e non riparte più. Viemme a prende amo’, nun so chi chiama’!”».

«Ammazza, Cì! Brutto su ’a Via der Mare! E quindi, tu ce sei annata?» chiede sconvolta Debora.

E l’amica continua: «Ma che stai a di’, Deb? Io je faccio: “Chiedilo a tu’ sorella… no scusa eh, me senti? So’ da mi sorella, ma siamo andati al lago a prendere un gelato coi regazzini, ammazza quanto mi dispiace! E prova a chiama’ l’amici tua, dài. A Cristia’, aspe’, ma nun facciamo che porti ’n po’ sfiga? Ma c’hai fatto quarcosa? Che c’è quarcuna che te vole male, ’sto periodo? Me sembra ’na sfiga continua!”.

Lui: “Amo’, sei sicura che non potete veni’?”.

E io: “Eh no, teso’, e come vengo da Bracciano a Ostia? Fai prima a chiama’ tu’ padre”.

E lui: “Vabbè, famme chiude e vediamo. Ahh no, senti, n’artra cosa. Se questo mi chiama per torna’ domani, mi lasci le chiavi della Punto di tuo fratello? Senza motorino come ce torno qui, porco cane?”.

E io: “Ennò, amo’, proprio domani è il giorno che Antonio va in tipografia a Cecchina, se la porta tutto il giorno la macchina”.

E lui, subito: “Vabbè dài, ne parliamo meglio stasera, vengo pe’ cena”.

E io: “Ah no no, stasera rimango da mamma, stiamo tutti insieme, pure coi ragazzini, ti ho detto. Dài, ci sentiamo ’sti giorni. Senti a me, fidate, chiama subito quarcuno prima che te ’nvestono sulla Via del Mare!”.

E ho chiuso».

Tra lo sbigottimento di Debora e il divertimento di Katia, Mira, Sofia sin tu mirada, sigo, la suoneria di Katia, che scuote il sedere tutte le volte che le squilla il cellulare.

«’Spetta Deb, me stanno a chiama’… ah ma è Max! Lui sì che ce tiene! M’ha chiamato ieri. Separato, niente figli. Soprattutto figlio unico, niente sorelle per rimane’ a dormì. Dai, je chiedo se c’ha n’amico…»

Ma rispondendo scendono dal mezzo, le perdo di vista e… non ho il tempo di chiedere… se ’sto Max c’ha n’amico anche per me!!!

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

«Posso?».

Chissà se sono rimasto uno dei pochi a farsi ancora lo scrupolo di chiedere, prima di sedersi.
Questo penso, ma la signora grassottella, intenta a trovare combinazioni di caramelle e dolciumi sullo schermo del suo smartphone palesemente d’annata un po’ rigato, non mi degna di uno sguardo.
“Bene” mi dico tra me e me, e facendomi spazio tra un Samsung e un Huawei prendo posto sul treno che da Tiburtina mi porterà a Piramide.

Certo checcazzo, mi ripeto con un lieve senso di sdegno e di fastidio, tutti co ’sto telefono in mano…che sta a fa’ questa? Eh, come te sbagli, facebook! Esclamo dentro di me mentre un occhio mi cade sul display alla mia sinistra.
Ma che è?! Il video di una ripresa fatta da una go-pro messa in testa a un cane: se vedono solo muri e alberi.
Osservo, guardando con aria interrogativa e pensosa, il quattordicenne dall’espressione inebetita che mi siede accanto.
S’ode a destra uno squillo di Facebook, a sinistra risponde un WhatsApp, mi ripeto in testa volgendo lo sguardo prima da un lato e poi dall’altro.
Davanti a me, intanto, si susseguono una serie di selfie irritanti che ritraggono due ventenni pronte per il pre-workout in palestra. Pre-workout di selfie, ovviamente.

Mah, fammi legge qualcosa, mi dico, e, mentre prendo dallo zaino il solito libro che mi accompagna in metro/autobus/tram/aereo/treno, decido che per isolarmi dal rumore dei tasti cliccati dal tizio in piedi davanti a me, devo assolutamente mettermi le cuffiette.
È la sera dei miracoli fai attenzione/ Qualcuno nei vicoli di Roma/ Con la bocca fa a pezzi una canzone

  • CASTRO PRETORIO, PROSSIMA FERMATA CASTRO PRETORIO USCITA LATO…

che si fottano tutti, e sospirando quest’ultimo estremo anelito contro il capitalismo, crollo nel mio mondo.

Non trascorrono 5 minuti che, nello spazio creatosi tra il libro e le ginocchia, dove ho appoggiato il cellulare che trasmette la mia musica, noto una mano. Veloce, con le dita dalle pellicine mangiucchiate al par delle unghie, prova a tirare a sé lo smartphone, togliendomi le cuffie e facendomi urlare: «A testa de cazzo!» esprimendo con tutto il bon-ton un disappunto percepibile.

«Ma che, me stai a frega’ il telefono??» domando, alzandomi di scatto, al biondino magrolino che, accovacciatosi, provava il colpo.

«No, no, aspetta amico – mi fa lui tra il sorpreso e l’impaurito – non è come credi. Cioè, ok sì, te volevo fa’ il telefono, lo ammetto, ma non credevo che stessi attento, non credevo fossi… strano, insomma. Pensavo fossi come gli altri. Credevo fossi normale e che non te ne accorgevi. Capito, no?».

«No – rispondo incazzato – macheccazzo stai a di’? Me stavi a frega’ il telefono e te stai pure a giustifica’?».

Si alza, il ragazzo, mostrando in realtà un viso non cattivo. Una faccia appuntita, nascosta da un cappello di lana fuori stagione e dai capelli color cenere che, a ciuffi, gli sovrastano la fronte che presenta un paio di cicatrici. Intorno a me non è successo nulla, tutto è come prima: tutti si scaldano alla luce dei loro smartphone.

«Sì – riprende lui – aspè, non te incazza’. Ok, m’hai sgamato, tieniti il telefono, ci mancherebbe. È che qui lo facciamo sempre, guarda – indicandomi da una parte e dall’altra altri tre ragazzi intenti a sottrarre, con naturalezza, i dispositivi elettronici dalle mani dei passeggeri – loro neanche se ne accorgono, e non te ne saresti accorto neanche te se fossi stato normale. Ma che stavi a fa’?».

«Leggevo» rispondo sbigottito più dall’affascinante scenario che mi si presenta attorno che dalla domanda del tipo. «Leggevo un libro» ripeto inebetito e quasi balbettando «Ma… possibile che nessuno se ne accorga?».

Dopo una fragorosa risata, reazione immediata alla mia domanda, il ragazzo mi fa: «Ma te sei proprio strano davero. A parte che, ’ndo vivi? Che, se legge così? Senza manco un tablet? Mah, me fai taja’ – accompagnando il tutto con una pacca sulla spalla – serio. Ma accorgersi di che? Ma come fanno ad accorgersene? Stanno concentrati! Poi questa è ’na mossa rapida: se chiama “sfila&metti”, guarda, te ’mparo io».

Nel tempo di un tumulto di binari il Samsung della signora cicciottella in cui si stanno accatastando caramelle e amenità varie ora è tra le mani svelte del tipo.

La signora, al posto dello smartphone, regge un volantino di una gelateria sulla Tuscolana.
Senza rendersene minimamente conto, continua a scorrere il dito, provando a far allineare i vari gusti dai diversi colori.
«Visto? – mi fa soddisfatto – il segreto è avecce sempre qualcosa che non contrasta troppo con quello che sta a fa’ il tipo o la tipa. A quella, per esempio – mi indica una tizia bloccata su una foto di Instagram – j’ho messo in mano una foto del gatto mio, so’ 10 minuti che sta a cliccacce sopra pe’ mette un cuore. Ah e… lo vedi quello? – e me lo indica rivolgendo lo sguardo al ragazzo del video su facebook che adesso in mano ha un depliant scolorito che ritrae la street art a Roma – ’sta settimana è già la seconda volta che je faccio il telefono. Tanto domani, appena ha realizzato, vie’ da me e se lo ricompra: co’ questo me ce pago le vacanze st’estate, di sto passo».

Incredibile.

Nel breve volgere di cinque fermate tutti, nel vagone, non hanno più tra le mani i loro smartphone, i loro  tablet, i loro ipoddofoni, smartophoni e tutta l’intera vasta gamma di touchettofoni che popola questo universo mondo i-tech.
Chi osserva attentamente un santino in attesa che il “video” riparta, chi struscia il dito su un volantino, chi fissa immobile la foto di un cane dallo sguardo interrogativo o di un parente di uno della “banda” e chi, infine, chatta digitando tasti su un telefono di gomma che ad ogni pressione emette un sibilo acuto e sfiatato.
“Assurdo” penso, sgranando gli occhi immobile, come se il mix di sorpresa, meraviglia e stupore avesse all’istante ghiacciato me e tutto ciò che mi circonda.

Guardandomi intorno, stringendo nelle mani il telefono e il libro, noto che i tre, con il loro bottino, si avvicinano all’uscita, parlottando tra loro: «Tranquillo – mi fa il biondino – tanto prima di mezz’ora/un’ora non se ne rendono conto: è tutto cronometrato, al capolinea se svegliano. E tu – strizzandomi l’occhio – non fa’ cazzate: leggi, che è meglio. Non sarai normale, ma sei un tipo simpatico. Ciao, grande!» e con un balzo è già fuori a Garbatella.
Garbatella. Cazzo! Dovevo scende pure io! Impietrito e ancora scosso, lascio che il treno compia tutto il suo tragitto.

Intorno a me, tutto è normale e scorre.

Normale.

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di
Matteo Raimondi

 

Sotto una balbettante luce al neon mi viene in mente un vecchio motto romano: “A Via della Lungara c’è un gradino. Chi non lo sale non è romano né trasteverino”. Il gradino è quello di Regina Coeli (che non è una chiesa ma una prigione). Cinquant’anni fa era una cosa che dicevamo tra ragazzi per ridere.
Oggi le nuove generazioni l’hanno presa sul serio. Sono dei delinquenti. Colpa dei romanzi. Anzi, delle serie TV perché i romanzi non li legge più nessuno.
Una volta sull’autobus e sulla metropolitana si stava coi libri e i giornali. Ora si muove il pollice sullo schermo di un telefono, su e giù come stanno facendo i quattro passeggeri con cui condivido il vagone della metro C che, alle dieci di sera di un sonnolento mercoledì autunnale, sta viaggiando in direzione Centocelle.

Mentre il treno stride, penso che con l’avvento di quegli aggeggi il tempo a disposizione dei ragazzi si è contratto.
I telefoni sono come la marijuana nel ‘70: esagerano tutti ma nessuno lo ammette.
Felicità dei governanti:i drogati sono obbedienti, e questi ragazzi “vanno-molto-alti”. Me l’appunto sul taccuino, mi piacerebbe farne una lezione: Svegliatevi!

Oggi la madre di una delle mie alunne mi ha incalzato: «Questa storia dei selfie sta sfuggendo di mano.»

«È un problema di subcultura»
«Prego?»
«In sociologia è un insieme di persone con caratteristiche simili, come età e razza, o classe sociale e fede politica, che si distaccano dalla cultura predominante. Non esistono più sottoculture credibili. Si stanno adeguando tutti a un’unica grande cultura di massa, la cui offerta è filtrata dall’Industria Culturale, una specie di fabbrica di contenuti».

Lei mi ha guardato con occhi pigri e io ho capito di annoiarla. Ho fatto un cenno con la mano, come a dire di lasciar perdere… sono un vecchio rompicoglioni comunista. Anche se mi vergogno a dirlo credo che la gente lo capisca lo stesso: indosso ancora giacche di tweed con le toppe ai gomiti e pantaloni di tessuto.

«Sa che cosa ho trovato nel telefono di Vanessa?»
«No»
È arrossita. «Primi piani della sua vagina e istantanee di un pene eretto…» ha abbassato la voce e aggiunto:«più grosso di quello di mio marito.»

Ho sentito il bisogno di bere un sorso d’acqua. Questa gente di periferia è fatta così. Si definisce spontanea, senza peli sulla lingua. Terra terra. Per loro è un vanto, per me che invece provengo da una famiglia della Roma bene è un costante imbarazzo.

«Si rende conto?»

Non proprio.

«Crede che dovrei parlarle?»

Mi sono mosso sulla sedia, a disagio. «Direi di no.»

«Ai miei tempi queste cose non succedevano.»

«Quando ero giovane i ragazzi sfogliavano riviste francesi con le signorine in reggicalze». Ho sorriso, ma lei no.

«È l’adolescenza. Stia tranquilla.»

L’ultima cosa che volevo era immaginare gli organi genitali di una ragazzina di diciotto anni, perciò ho aperto il registro e parlato del rendimento di Vanessa, ottimo, e chiesto i suoi progetti per il futuro.
Dopo la maturità, siccome era avanti di un anno, sarebbe andata a lavorare in Inghilterra.
Brava ragazza, Vanessa.
Brava e bella.

(Vagina.)

La metro riparte con uno scossone e in galleria accelera. Faccio in tempo a leggere Torre Gaia su un cartellone prima che il neon ricominci a singhiozzare, rapsodico.

Sono ansioso di arrivare. Dopo venti minuti qua sotto comincia già a mancarmi l’aria.
Ogni volta che esco dalla metro è come riemergere da un’apnea. E ho sempre quella sensazione di cambiamento, come se il mondo fosse andato avanti senza aspettarmi.
Stare in metro a Roma è come entrare in un’enorme macchina per fermare il tempo. E poi puzza. Ha un odore fortissimo, di ferro ossidato e sudore.

Anni fa non ci avrei mai messo piede: la mia ex moglie era claustrofobica, e alcuni disagi sono contagiosi come l’influenza.
Ora non ho alternative: insegno letteratura in una zona chiamata Finocchio, estremo oriente, e vivo in Prati, al centro. Per uno che non conosce Roma non è facile capire che non scherzo quando dico che se non avessero aperto la linea C avrei trascorso la maggior parte del mio crepuscolo in autobus. Forse ci sarei persino morto.

La casa dove vivo era dei miei. L’ho ereditata da mia madre, vissuta vedova per trent’anni. Con lo stipendio che percepisco cercando di mostrare il mondo a ragazzi ciechi dalla nascita potrei permettermi al massimo un affitto in condivisione. Per fortuna mangio poco e vivo solo.

(Vagina.)

Sul sedile accanto al mio c’è un volantino. È propaganda. Dice che un immigrato costa 1000 euro al mese. Tanto si potrebbe dare a una famiglia per il mantenimento di due figli.
Lo accartoccio: populismo.

«Cazzo fai?»

Alzo gli occhi. Davanti a me c’è un ragazzone che avrà vent’anni. Dev’essere salito all’ultima fermata. In una mano tiene una decina di quei volantini. Mi sento in colpa. Ho davanti un esempio di subcultura e l’ho appena trattato da spazzatura solo per un vecchio pregiudizio.

Sorrido, come tutte le volte che sono in imbarazzo, e mi gratto la testa calva.

Lascia andare i fogli. Si spargono ovunque sul pavimento butterato del vagone.
Il neon singhiozza, nel buio sento lo scatto di un coltello.
Ha gli occhi così pieni di rabbia che mi viene da piangere.

La metro rallenta, scorre un altro cartello: Torre Angela.

Dico: «Non avrei dovuto.»

Il treno frena bruscamente, le ruote fanno urlare i binari.

Il ragazzo fa un passo avanti. «Voi comunisti avete rovinato l’Italia».
Mi piazza la lama sotto il collo: Regina Coeli e romanzi criminali.
Il treno bordeggia e strattona. Lui perde l’equilibrio e io sento un bacio gelido sul gozzo: è una tragica fatalità.

Il treno si ferma e le porte si aprono.

Mi guardo intorno. Nessuno si è accorto, stanno con gli occhi sui telefoni. Meglio: non voglio creare problemi.
Va via, provo a dire, ma dalle labbra mi esce solo un bulicame caldo. Lui fugge.

Sto morendo, è triste. Il treno riparte.

(Vagina.)

Spero solo di non andare all’inferno.

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di
Giulio Calenne

 

Se il padrone non avesse passato tutta la notte a scrivere un poema-lettera d’amore a G (che alla fine si è risolto in un «come va?») probabilmente l’inizio giornata di oggi avrebbe fatto meno schifo.  Il meteo dà pioggia, è arrivata una bolletta da pagare, la disoccupazione giovanile è al 35,4%, l’autobus farà 10 minuti di ritardo e io mi sento già stanco. Arrivo alla metro alle 8 e 16, calcolo percorso di 28 minuti e nessun ritardo previsto a lavoro.

D, il mio padrone, ha 34 anni, ha studiato presso il Liceo Scientifico Gullace Talotta, lavora presso TuttoPizza e vive a Los Angeles. Nelle foto e nei video in cui è taggato si possono notare le sue labbra sottili, il suo naso storto da pugile, un mento a culo che sembra aver fatto gli squats, capelli neri doppio taglio e barbetta curata. In alcune foto che ha postato su Instagram alcuni utenti hanno commentato «amo’ sei troppo bello! <3», «a bomber!» e «a ridicolo!».  

La sua voce sembra quella di un Uruk-hai che ha urlato troppo al concerto dei Cannibal Corpse e non sono l’unico che preferirebbe i messaggi scritti piuttosto che quelle interminabili note audio su WhatsApp.
Tra i suoi interessi principali ha selezionato: calcio, cinema e videogiochi, ma in realtà è sempre su Facebook.
Quando siamo in metro scorre la home page come ipnotizzato dal colore blu codice RGB #3B5998 del social e, ad ogni foto di fregna, l’immancabile Mi piace tattico.

Da due settimane controlla spesso il profilo di G, la sua ex ragazza, con l’accuratezza di un detective. Esamina gli eventi a cui parteciperà, chi ha messo mi piace alle sue foto, dov’è stata di recente e chi ha aggiunto come amico.
Anche se non sono in grado di giudicare G eticamente, credo abbia fatto bene a lasciarlo. È stata tradita con ben 4 ragazze diverse (l’ultima grazie a Tinder), e se avesse letto i messaggi scritti da D alle altre ragazze, difficilmente gli avrebbe scritto «Scusa ma anche se per me sei importantissimo non penso che questa storia possa ancora andare avantiSarai per sempre il mio lenticchio inzuppato, perdonami.»

Probabilmente, dalla piccola descrizione che vi ho appena fatto, ora vi starete immaginando un mostro immondo, ma in realtà è più normale di quel che sembra.
Sì, avrei preferito una persona più raffinata, con conoscenze più altolocate (avrei conosciuto altri simili), ma nella vita bisogna sapersi accontentarsi no?! E anche se è un poveraccio, alla fine presta molte premure nel non danneggiarmi e mi riempie di piccole attenzioni. L’altro ieri, ad esempio, mi ha comprato un nuovo vestito in pelle che si apre da davanti, molto carino.

Tuttavia, credo che le sue cure non derivino da una naturale propensione al far del bene tipica del genere umano, ma dal fatto che D è consapevole che io conservo ogni suo segreto, ogni suo desiderio e ogni suo spostamento, tant’è che tre volte a settimana mi nasconde i siti che visualizza.

«Ah Phoni! Stanchino oggi eh!». È Samsy, il cellulare del controllore metro, D ed io stiamo per attraversare i tornelli di Anagnina.

«Lascia stare, il pirla mi ha ricaricato per sole due ore. Non sono mica come te che mi bastano cinque minuti per ricaricarmi, sono un modello vecchio».
«Dai non abbatterti, hai ancora il tuo fascino! Buon lavoro».
Lavoro che per me, in metro, consiste nel visualizzare per 5 minuti le notizie del giorno e per i restanti 10 minuti il solito Facebook e Instagram. Il tutto accompagnato dall’ascolto di quella orrenda musica. Se anche oggi mi fa produrre continuamente Marco Masini – Bella Stronza, mi spengo per rappresaglia.

Potremmo ascoltare Beethoven, Vivaldi o Mozart, il cui genio musicale ben si conforma al mio amore per la matematica, ma no. Playlist Dance Addicted di Spotify e musica maschio alfa italiana.

Siamo quasi arrivati alla fermata Giulio Agricola. Al pensiero che possa salire Phonia, una cellulara ultimo modello del mio genere resistente all’acqua, il mio microprocessore inizia a battere all’impazzata.
Vorrei trovare il coraggio di parlarle, magari facendogli notare che il mio D e la sua padrona (una studentessa di chimica della Sapienza) sono amici su Facebook anche se in realtà non si sono mai parlati.
Oppure potrei complimentarmi delle splendide foto che riesce a fare. Oppure… No dai, ma cosa sto pensando?! Una come lei un vecchio come me neanche lo vede.

Meglio non pensarci o consumo troppa energia.