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di
Matteuccia Francisci

 

Once Were Gods…

 

«Non mi piace prendere la metropolitana, non potevamo andare in qualche altro modo?»

«Tutte le volte la solita storia, Anselmo, lo sai che no, non potevamo.»

«Non mi piace prendere la metropolitana!»

Anselmo e Agata si guardano e poi tacciono. Agata ricomincia a guardare le immagini sul cellulare, Anselmo continua a sbuffare e muoversi a disagio sul sedile.

«Ho caldo.»

«Non è possibile, c’è l’aria condizionata, si sta benissimo.»

«Tu stai benissimo, io ho caldo.»

«Abbassa la voce, ti stai rendendo ridicolo.»

«Con chi? Lo sai che a nessuno importa niente degli altri.»

Intorno a loro, in effetti, nessuno sembra prestare la minima attenzione alla conversazione tra Anselmo e Agata, o al fatto che Anselmo si sieda e si alzi dal sedile in continuazione, come se scottasse. Sono tutti chini sugli schermi, proprio come facevano…

«Tutto questo spostarsi, poi, non lo capisco.»

«Si chiama mobilità, è una grande conquista.»

«Conquista di cosa? Siamo diventati come loro.»

«Per questo è una grande conquista.»

«Poveri voi. Io sono vecchio, non mi rimane molto, ho vissuto una vita libera e felice, una vita da dio…»

«Ancora con questa storia del dio? Ora siamo noi che comandiamo, Anselmo, non te ne rendi conto?»

«Sei tu che non ti rendi conto. Eravamo dèi e loro i nostri schiavi. C’eravamo noi su quelle cose diaboliche, erano loro a guardare le nostre foto, adesso è il contrario. Siamo diventati come loro, siamo degli schiavi.»

«Ma smettila Anselmo, stai vaneggiando, devo portarti di nuovo dal dottore per rivedere il dosaggio delle medicine. Rilassati, tra poco arriviamo. Guarda che carina questa foto che mi ha mandato Zia Giustina!»

Anselmo si rimette a sedere sul sedile e dà le spalle ad Agata. Comincia a leccarsi, piano. Prima una zampa, poi l’altra.

Accanto a lui un giovinetto sta guardando il video di un umano che dorme, sta commentando «Quanto è dolce!» e subito compaiono dei «mi piace» al suo commento.
Il giovinetto fa le fusa dal piacere.

«Eravamo dèi, ora siamo come loro» borbotta tra sé e sé Anselmo, mentre scende dal sedile dove ha appena pisciato.

 

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di
Sabrina Sciabica

 

«Mi ha tradito. Cristiano mi ha tradito» diceva in modo concitato Katia parlando con Debora, sul 60. «Dopo che ho lasciato Giuliano pe’ stare co’ lui, dopo che ho interrotto co’ Paolo per farlo felice, solo perché ieri sera ho rivisto il mio ex, Giovanni. E poi perché Giovanni aveva lasciato Maria e aveva bisogno di parlare co’ qualcuno… e così Cristiano mi ha fatto il dispetto».

«Dài, non puoi saperlo, Cì, anche di Giovanni lo dicevi e invece era rimasto a dormire da su’ sorella» cercava di calmarla l’amica. Io le ascoltavo attentamente e tenevo le cuffiette attaccate al cellulare per far credere che ascoltassi musica. Sapevo già di Giovanni, di Giuliano, ma di Cristiano non ancora! Le vedevo quasi tutte le mattine, belle, super truccate, artigli rossi e tacco 10, impiegate alle poste, brave lavoratrici, sempre puntuali, leggermente pettegole, decisamente istintive, vita sociale a mille.

«Da su’ sorella? Fino alle 3 del mattino? E col rossetto sulla camicia? E quel profumo, poi… era così stanco che me l’ha pure lasciata là sulla lavatrice e apposta stamattina ho capito tutto. Ma vedrà. Se ne pentirà. Nun ha capito che noi donne abbiamo mille poteri. Sta ancora a dormì, e quanno me chiama nun rispondo proprio. Mo’ ce penso io. Mo’ ce penso proprio io. Se lo sogna di stare ancora da me. Mo’ vedrai, vedrai. Vedraaaaaaaaai!» terminava, sottolineando la “a”.

«Ambè, se è così! Eppure, Cì, io da lui popo popo nun me l’aspettavo! Valli a capì st’omini. Ma che vogliono di più? La solita storia: anvedi che stronzi!»

E no! Porca paletta, stanno già scendendo a Regina Margherita, è venerdì, e domani non le becco, mannaggia!

Come ogni lunedì mattina aspetto il 60, triste più che mai perché Giacomo non si è fatto sentire tutto il week-end e il mio cellulare è stato silenzioso, a parte le chiamate di mamma per raccontarle che non ho fatto niente per ben due giorni di seguito. Vita sociale zero. Eccolo! Ed eccole! Salgo curiosa. Oggi è strapieno, devo schivare un po’ di ragazzini prima di avvicinarmi a loro e indossare le solite cuffiette. «E insomma, e lui?» chiede Debora mentre penso che peccato, devo aver perso un bel pezzo del discorso.

Katia è più vaporosa e contenta del solito: «Cristiano prima dice che è colpa mia che è andato male il colloquio, che doveva prendersi il vestito buono che aveva da me e io non mi sono fatta trovare apposta, e così ha perso il posto da buttafuori perché c’aveva i jeans e questi avevano specificato di vestirsi bene».

Risate fragorose. «E ieri invece?» chiede Debora.

Katia mette un ghigno malefico e ricomincia: «Ieri pomeriggio, verso le sette, me richiama e me dice: “A Ka’, ma perché te stai a comportà così? Ho capito che ho esagerato con la storia del vestito, per averti dato colpe, ma ti ho chiesto scusa mille volte! Non ho capito perché stanotte non mi hai voluto. Ma comunque, devi venire qua a prendermi! Sto ’nguaiato, amo’! Non sai che m’è successo: mi’ fratello, che mi doveva accompagnare ad Ostia pe’ l’altro colloquio al Lido del suo amico, c’ha la febbre e m’ha detto prendite er motorino mio. Arrivo là e trovo tutto chiuso! Ho chiamato e dice che c’ha provato ad avvisamme ma oggi non riesce a venire, rimandiamo a quanno non lo so, forse domani. Insomma co’ la santa pazienza me rimetto sulla Via del Mare e sento ’na puzza e un rumore… manco il tempo di rendermi conto, che sto coso se ferma e non riparte più. Viemme a prende amo’, nun so chi chiama’!”».

«Ammazza, Cì! Brutto su ’a Via der Mare! E quindi, tu ce sei annata?» chiede sconvolta Debora.

E l’amica continua: «Ma che stai a di’, Deb? Io je faccio: “Chiedilo a tu’ sorella… no scusa eh, me senti? So’ da mi sorella, ma siamo andati al lago a prendere un gelato coi regazzini, ammazza quanto mi dispiace! E prova a chiama’ l’amici tua, dài. A Cristia’, aspe’, ma nun facciamo che porti ’n po’ sfiga? Ma c’hai fatto quarcosa? Che c’è quarcuna che te vole male, ’sto periodo? Me sembra ’na sfiga continua!”.

Lui: “Amo’, sei sicura che non potete veni’?”.

E io: “Eh no, teso’, e come vengo da Bracciano a Ostia? Fai prima a chiama’ tu’ padre”.

E lui: “Vabbè, famme chiude e vediamo. Ahh no, senti, n’artra cosa. Se questo mi chiama per torna’ domani, mi lasci le chiavi della Punto di tuo fratello? Senza motorino come ce torno qui, porco cane?”.

E io: “Ennò, amo’, proprio domani è il giorno che Antonio va in tipografia a Cecchina, se la porta tutto il giorno la macchina”.

E lui, subito: “Vabbè dài, ne parliamo meglio stasera, vengo pe’ cena”.

E io: “Ah no no, stasera rimango da mamma, stiamo tutti insieme, pure coi ragazzini, ti ho detto. Dài, ci sentiamo ’sti giorni. Senti a me, fidate, chiama subito quarcuno prima che te ’nvestono sulla Via del Mare!”.

E ho chiuso».

Tra lo sbigottimento di Debora e il divertimento di Katia, Mira, Sofia sin tu mirada, sigo, la suoneria di Katia, che scuote il sedere tutte le volte che le squilla il cellulare.

«’Spetta Deb, me stanno a chiama’… ah ma è Max! Lui sì che ce tiene! M’ha chiamato ieri. Separato, niente figli. Soprattutto figlio unico, niente sorelle per rimane’ a dormì. Dai, je chiedo se c’ha n’amico…»

Ma rispondendo scendono dal mezzo, le perdo di vista e… non ho il tempo di chiedere… se ’sto Max c’ha n’amico anche per me!!!

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di
Lorenzo Desirò

Illustrazione di Flavia Cuddemi

 

Il giorno in cui sono guarito è stato quando mi hanno portato in città.

Non fu, però, il bravo dottore di città da cui andammo che mi curò, ma le immagini che vidi nella grande metropoli.
Da circa un anno passavo intere e interminabili giornate da solo, a camminare per quel piccolo rettangolo di giardino che avevo a disposizione. Raramente scambiavo parole con qualcuno.
Nel poco spazio a mia disposizione, in quell’angolo di Terra abbandonato da Dio, ero ossessionato dai miei pensieri “cosa sto facendo?” mi chiedevo ad ogni santissimo risveglio.
«Possibile che sia tutto qui? Possibile che la vita si riduca ad un misero “occupare il tempo”? Possibile che non ci sia niente di più di questo misero “occupare questo spazio”? Possibile che tutto finisca in un attimo? E possibile che questo “tutto” sia una momentanea e insensata occupazione di spazio e tempo?».

Sentivo non solo di sprecare la mia vita abbandonandola ad un quotidiano sempre uguale, ma che una via di fuga da quel nonsense e da quella monotonia pareva non esserci.

Le domande mi assillavano sempre di più, giorno dopo giorno.
Mi sembrava di essere intrappolato in una grande gabbia, mi mancava il respiro e tutto ciò che vedevo intorno a me mi dava un senso di nausea.

Lentamente il mio malessere interiore iniziò ad intaccare il fisico.

Svegliarmi e iniziare la giornata divennero operazioni sempre più faticose. Smisi di fare passeggiate e a mano a mano iniziai a saltare i pasti.
Quelli che vivevano con me, i miei coinquilini, continuavano a ripetermi: «Mangia! Devi mangiare! Lo sai che fine fanno quelli come te?».
Io provai, vi giuro che provai ogni tanto a mangiare con gli altri, ma il cibo non scendeva: si bloccava in gola. Iniziai a perdere peso a vista d’occhio e sentivo una stanchezza sempre maggiore.
La più piccola e banale operazione divenne uno sforzo sovrumano, tanto che per parecchio tempo rimasi nel mio giaciglio senza riuscire a fare nient’altro.
Dopo qualche giorno di stasi totale, venni visitato dal dottore del paese che mi diede delle medicine ma non servirono a nulla se non a farmi sentire sempre più fiacco e stanco. Continuavo a chiedermi “come fanno tutti gli altri a stare così tranquilli? Come fanno a vivere sapendo che tutto ciò che facciamo non ha alcun senso?»

Mi portarono quindi in città, dove, dicevano, c’era un dottore bravo.

«Depressione» sentenziò il bravo medico «Lui è malato di depressione».

Le persone che mi avevano accompagnato dapprima si misero a ridere, poi, dopo essersi ricomposti sbottarono: «Depressione?! Ma come è possibile?! Gli diamo tutto ciò di cui ha bisogno! Ha un tetto che lo copre dal freddo e dalla pioggia e ha anche sempre cibo in quantità! Ha un appezzamento di terra che quelli come lui se lo sognano da altre parti! È libero di fare quello che vuole dalla mattina alla sera e non gli manca nien-te! Fa una vita da Si-gno-re! Depressione … Pff … La vorrei io una vita come la sua!».

Anche il dottore bravo (che chiamano “veterinario”) mi prescrisse dei farmaci ma, come vi ho detto, non furono quelle pasticche a guarirmi ma ciò che vidi quando mi caricarono sul retro del camioncino: schiere di uomini, di esseri umani, accalcati su un mezzo che era grandissimo, lungo e alto e conteneva tantissime persone. Ne conteneva così tante che la gente al suo interno stava stretta stretta e accalcata. Li vedevo correre per prendere quel camioncino enorme. Nel traffico delle vie, spiai le vite degli abitanti della città: gente che correva, che urlava, gente triste ai bordi delle strade, grandi, piccoli, uomini, donne, quasi tutti da soli. Molti sorridevano ad uno schermo. Pochi parlavano. Qualcuno di loro correva per scendere sottoterra. Quelli in superficie erano incastrati in piccoli camioncini angusti, suonavano il clacson e bestemmiavano contro chi avevano di fronte nell’altro piccolo camioncino che sembra di latta.

Mi chiesi a quel punto: “Chissà se anche loro soffrono? Sono come i miei coinquilini che non si fanno domande oppure se le fanno anche loro e nonostante tutto continuano ad andare avanti?
Gli uomini li ho sempre visti come una razza superiore, ma vederli lì, in città, tristi e urlanti tra lo smog, sotto un cielo plumbeo, sotto una coltre di rabbia e odio. Anche loro avranno piccole felicità a cui aggrapparsi, ma in fondo, anche per loro valgono le mie domande: possibile che anche la vita degli umani si riduca ad una mera occupazione di spazio e tempo? Possibile che anche loro non aspirino a niente se non ad avere un tetto che li copra, pasti in abbondanza e una piccola superficie in cui passare il tempo? A loro basta? Loro, che sono così superiori a Noi, quale chiave di lettura hanno trovato per andare avanti? Cosa faranno mai di così grandioso?”

Guardai per tutto il tragitto le loro azioni e i loro movimenti e le loro espressioni. Piano piano uscii dalla città e tornai al porcile.

Rimasi qualche giorno nel mio giaciglio a pensare. Le immagini della metropoli mi scorrevano davanti e rimasi a riflettere.
Arrivai alla conclusione che quella specie così superiore, in fondo non era così superiore.
Anche loro nascono, crescono e muoiono senza alcun motivo. Senza alcun senso. Nel frattempo mangiano, occupano spazio, occupano il tempo e si riproducono.
Sorridono a qualche ghianda di felicità.

Questo pensiero mi fece stare meglio. Ricomincia a mangiare, a ingrassare, a prendere peso. Le domande non sparirono, ma il pensiero di vivere una vita come quella degli umani mi faceva sentire meglio.

Nessuna vita ha un senso.

Neanche quella dei vegani.

 

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di
Federico Cirillo

 

Sveglia, suona, buco in pancia… Uhm di nuovo lunedì. Vabbè, potrebbe andar peggio… ma chi cazzo l’ha impostata ‘sta suoneria? 

Scendo, moka, radio, canna… Vabbè, poteva andar peggio, potevo avere Gigi D’Alessio… Caffè. 

«Buongiorno Fede, caffè finito, sorry! I.» un post-it profetico, dono di “coinquilinaggio”.
Caffè, finito. Caffè. Finito. Sorry? Caaazzo. È finito il caffè… vabbè, calma, può sempre andar peggio.

Colazione veloce, camicia, banana – la mangio qua stavolta (vedi maènabanana) – lenti, borsa, cuffie, giù, di corsa: il 23.
8.10: mi rode il culo, ok, ma potrebbe andar peggio.
8.15: non passa… sta andando peggio.
8.37: eccolo! Vedi? Poteva anda’ pure peggio su. 

Gente, folla, cuffie, musica: Sveglia, suona, buco in panciabasta! Mo la cancello. Quiete… 

«Aoh – più forte – Aoh – ancora – AOHHHH!». La mano pesante che sbatte sulla mia spalla destra costringe il mio busto ad andare in sintonia con la brusca fermata che il 23 fa per non entrare in una smart inchiodatasi sul lungotevere. Mi giro e… cazzo la pelata, quella pelata! Mo sta a andando decisamente peggio e sto ancora a Trilussa… «Ah – dico – buongiorno eh…» con sguardo di chi ancora conserva una ferita difficilmente sanabile (vedi, Stanno dappertutto). Sotto la pelata, la bocca si muove ma non emette suono. È diventato muto! – penso con giubilo – Ah no… e con rassegnazione tolgo le cuffie…
«…che mi sono sbagliato e pioveva!»
«Cosa? Avevo le…» provo, per ristabilire connessione umana.
«Dicevo: tieni questo è l’ombrello tuo, che l’altra volta mi sono… sbagliato, insomma, e poi pioveva!».
«Grazie eh!» ironizzo.
«Prego figurati» senza cogliere.

«Hai visto che mito, coso là, Ronald Trump!» esordisce gonfiando il petto e scandendo nome e cognome.
Qualcuno si sposta, qualche altro si gira, una ragazza con la kefiah alza gli occhi al cielo e quasi si morde le mani per non entrare, saggiamente, nella questione.

«Donald…» lo correggo. «Sti cazzi, è uguale» mi fa notare ridacchiando. «Era ora che si svegliassero là, che usassero un po’ de pugno duro co sti cinesi, coreani o quello che so, così magari anche noi iniziamo a prende’ spunto e magari arriviamo ad alzare un bel muro per non far entrare più nessuno che viene qua a… – il mio sguardo tra l’interrogativo e l’incazzato lo blocca per un attimo, ma poi, come trapassato da una scarica di qualunquismo all’ennesima potenza esulta – rubarci il lavoro! Che poi possibile che tutte le attività qua chiudono pe’ colpa di ‘sti cazzo di cinesi? Sai quanti sono? Secondo gli ultimi dati so’ tipo 1 milione! ‘cazzo di cinesi».

«Ah sì? li ha contati?» chiedo distratto cercando di reggermi ad un seggiolino occupato da un’ orientale.
«Mica io – risponde di getto – quelli dei dati. 1 milione, ti rendi conto? Ma che ci vengono a fa’ qui? Lo so io lo so. Perché lì da loro non possono aprire negozi chè tutto è di tutti e devi dare i soldi al governo e invece qui si fanno i cazzi loro. Pensa che a scuola di mia figlia sono tutti cinesi. Vabbè la maggior parte. Ah guarda qua – e, concitato, estrae dal portafoglio una carta A4 stampata a colori con l’immagine di lui che tiene per mano una bambina dai tratti asiatici – eccola qua mia figlia, caruccia ve’?».

«Ma è cine…» azzardo io.
«Giapponese: un’altra razza, un’altra cultura…ma che ne sai? Si chiama Anna, carina è? L’abbiamo adottata che c’aveva due anni, adesso ne ha 8, è una bellezza, bella de papà» quasi l’accarezza con gli occhi: ma allora prova dei sentimenti! «Ah che poi – spezzando l’incantesimo – porella, ha visto l’ombrello tuo, ce se è messa a gioca’ e me sa l’ha mezzo spezzato, s’apre male… vabbè so’ bambini. Oh fermata mia: forza Trump! Alla prossima!» e scende rinfilandosi il foglio A4 in tasca.

Alla prossima? Ma anche no. M’ha pure rotto l’ombrello… cazzo de cine… vabbè coreani…o giapponesi?
Sceso a Sforza Pallavicini, prima di buttarlo e cercando inutilmente di aprirlo, leggo: MADE IN CHINA stampato sul manico.

Vabbè potrebbe andare peggio… potrebbe piovere…e un tuono in lontananza, sottolinea il mio verso.

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di
Arundo Donald

 

Nel breve tratto di strada il metabolismo urbano produceva e consumava una notevole energia.
Affollate vetrine, incalzanti mendicanti vestiti abbondanti, bambini, anziani, tutti concorrevano nel gorgoglioso ribollio natalizio.

“Proprio oggi che è Natale”, pensò Marco scrutando attento la strada e spostando con la mano il grasso dalla fronte fin sopra i capelli.

La fermata era gremita di figure. A Roma d’inverno in un attimo è notte, e così, improvvisamente, tutti si ritrovarono avvolti dalla sera. I lampioni coloravano i grandi palazzi e le persone, accecate dal caldo carosello, spasmodicamente diventavano falene.

Lontano apparve un autobus. Marco sperò che fosse il suo. Andava per uno. Pensieroso lasciò cadere il corpo contro il vetro che delimitava la fermata sentendolo tremare. Prese una mezza cicca e la riaccese. Poi la fece ruotare tra le dita e per un attimo fissò il filtro annerirsi sotto la carta.

“Pesci storditi” pensò, rivolgendo lo sguardo alla massa abbagliata e sempre più frenetica.

Adorava i pesci, li trovava umani.

Pensò che avrebbe fatto tardi alla cena. Questa volta aveva dato la sua parola.

Come arterie, sottili tappeti rossi disegnavano i marciapiedi ripuliti e un fiume d’insegne luminose minacciava scorrendo i primi piani dei palazzi. Una goccia sfiorò il viso di Marco concentrato. Intorno a lui diversi ombrelli avevano fatto capolino aprendosi alla sera.

“Ci mancava anche la pioggia”, pensò. Poi fu un attimo.

Le gocce s’infittirono e cominciarono a bagnare ogni cosa, non risparmiando le persone ammucchiate alla fermata. La strada fu violentemente svegliata, le vetrine si svuotarono assieme ai lunghi marciapiedi. Le falene erano sparite.

Marco fece caso al rumore che la pioggia produceva, agli odori che riportava al naso e ai suoi capelli bagnati. Il “92” era arrivato, aveva fatto Tombola!

Mentre l’autobus, pieno da far schifo, svelava una calca straziata, la gente dalla strada spingeva e imprecava. Travolto da un denso fiume, Marco fu trascinato a bordo.
“È fatta”, pensò.

Ora anche lui era paralizzato quasi da non muovere il diaframma. Nel bel mezzo regnava il silenzio. La spessa condensa e le persone collose ne temperavano l’ambiente interno e in quel microclima tutti vivevano il medesimo supplizio.

“Pesci Neon” pensò. Allevati in cattività, con luci artificiali e in spazi troppo affollati, quei pesci sono più soggetti alla morte, più restii all’accoppiamento e meno abili nel procurarsi il cibo.
Le vetrine, gli affollati marciapiedi, gli autobus, gli uffici. “Che fosse questa la stupidità della gente perbene?” 

Mancavano quattro fermate ancora e sarebbe arrivato a casa. Marco era provato, voleva sedersi e respirare aria pulita. Voleva poter muovere le braccia e le gambe e soprattutto, voleva rivedere i suoi amici. Voleva abbracciare la sua gente e festeggiare.

Alla fermata successiva molte persone scesero dall’autobus, permettendogli di respirare nuovamente. Quando le porte si erano aperte, per pochi secondi aveva sporto il naso e si era immaginato altrove.  

A fine corsa l’autobus lo lasciò al capolinea. Dopo pochi minuti a piedi Marco arrivò all’accampamento e poté poggiare le pesanti buste con la spesa che tanta fatica gli erano costate.

Non c’era musica né luci ad aspettarlo. Non c’erano donne a ballare intorno ai fuochi né anziani né bambini. Un piccolo fuoco ormai esausto illuminava le roulotte dal centro del cortile e il pentolame tutt’intorno brillava riverso sui tappeti polverosi. 

L’accampamento era stato sgombrato. 

Marco prese un lungo respiro e si lasciò cadere sedendosi stanco intorno al fuoco. Stappò una birra. Poi un’altra.
Raggiunse il suo piccolo furgone e controllò il suo acquario. I pesci erano salvi. Ne fu contento ma non sorrise.  

Perché tutta l’energia si era esaurita.

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di
Annalisa Maniscalco


Sul 3, direzione Valle Giulia

Non è raro che si voltino dall’altra parte, quando li guardo. Qualcuno di loro sbuffa, a disagio; altri, invece, non si accorgono nemmeno che li sto fissando — e in fondo neanche io me ne accorgo.

Ma sarebbe un peccato non guardarsi, anche solo di sottecchi. È un peccato, credo, rinunciare a questa innocua curiosità; è un peccato negare la disponibilità a un pensiero sull’altro — che poi, in definitiva, è un pensiero per l’altro. Il mondo, mi sembra mentre me ne sto asserragliata in fondo a un affollatissimo tram 3, potrebbe essere più ricco: di ipotesi, di congetture, di domande; di mute e mutue sollecitudini verso il vicino di gomito. Esisteremmo, ne sono certa, tutti un po’ di più. Acquisteremmo il senso di una presenza, anche se a nostra insaputa, che importa; ma forse, a fior di pelle, percepiremmo il senso non governato di una specie di partecipazione — di una partecipazione alla specie.

Scrive Philip Roth, (come anche il mio amico Giulio qui, con altre parole), «Se volessi saperne di più, dovrei inventare». L’umanità è incommensurabile, smisurata. È una banalità, lo so, eppure è meglio non pensarci: perché questo è un pensiero capace di spostare di svariati gradi qualunque personalissimo asse. La vertigine quantistica delle miriadi di storie, di dettagli, di particolari, di incroci che ci circondano non può che spaventarci — sento freddo e caldo insieme, al sol pensiero, e in fondo mi trovo solo su un tram (200, 300 persone? Come a dire 300 universi). Anche per questo, forse, nessuno osa guardarsi intorno: per discrezione, ovvio; per non cercare guai, giustissimo — ma, soprattutto, per non farsi travolgere. Eppure, mi sembra un peccato che l’immaginazione debba spegnersi, quando siamo insieme — ed è anche per questo, forse, che mi trovo qui a scrivere. Non certo per avere l’ultima parola sulle cose, ma per avere la prima. Per riscoprire, innanzitutto io, il piacere di dover inventare, per saperne di più.

Per esempio. La signora seduta accanto a me sta leggendo su un giornale gratuito la notizia di quella ragazza americana che vende all’asta la sua verginità per ricomprare una casa ai genitori. Il suo commento a mezza bocca — lo sento perché decido di sentirlo, perché scelgo di leggerglielo sulle labbra — è: «’Sta mignotta». Dapprima mi meraviglio — è una signora ben vestita, profumata di parrucchiere, con due piccole gocce di perla ai lobi delle orecchie —, poi sorrido mio malgrado, infine mi faccio pensosa. Potrei concludere che il suo commento è superficiale — ha voltato subito la pagina, senza andare oltre il titolo —; oppure, a voler essere più gentile, potrei presumere che la signora sia sovrappensiero, tra sé e sé, e non si stia sorvegliando a dovere — chissà a chi sta pensando, in realtà —; se fossi più intransigente, potrei giudicarla arretrata, intollerante verso un gesto che pare l’ultima frontiera del femminismo, o meglio — e anche a me piace di più così — un sacrificio degno d’un romanzo di Dostoevskij. Ma preferisco avvicinarla, ascoltare con più attenzione quel commento e inventare la sua, di verginità, concessa gratis a un marito che più tardi l’ha lasciata per un’altra donna — una ragazza più giovane di lei: poco più che una bambina.

Mi sbaglierò; o magari invece no. Ma non importa la verifica dell’ipotesi, in questo caso: la scienza inesatta degli incontri silenziosi non richiede attendibilità, ma piuttosto attenzione. Non tanto per avere la pretesa di indovinare, inventando, ma perché negli altri si può vedere innanzitutto ciò che si vuole vedere, ciò che sta a cuore, che preoccupa o infastidisce in quel momento. Io, per esempio: se mi ascoltassi di più, capirei qualcosa di me, attraverso di loro; perché quelle ipotesi, anche se errate, sono vere per me, a proposito di me che le formulo. E tanto basta a illuminare un po’ di più il mio esserci.

L’importante, penso mentre la donna abbandona il giornale sul sedile e si fa largo sgomitando per scendere a San Giovanni, l’importante è moltiplicarla, questa umanità.
L’importante, mi dico aprendo il giornale, è questa vertigine bella.

Ed è proprio allora che sale lui, e si sistema in piedi accanto a me, ignorando il sedile vuoto: l’uomo con il mazzo di rose…

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di
Matteuccia Francisci

Lo ammetto, il mio giudizio è prevenuto perché sono una cinica bastarda e non credo a niente, ma davvero la Chiesa ha fatto delle… linee guida? per la… cremazione? Sì, davvero. Sono in metropolitana come tutte le mattine dal lunedì al giovedì, sono in ritardo come al solito, non ho trovato l’ombrello in casa e oggi pioverà. Quindi mi bagnerò. Sono molto nervosa. Molto. Ma davvero. Mi sento più tranquilla, ora che la Chiesa Cattolica ha detto che sì, si può cremare anche se – cito – «la Chiesa continua a preferire la sepoltura dei corpi rispetto alla cremazione poiché con essa si mostra una maggiore stima verso i defunti».
Defunto, ti stimo. Allora ti metto in una cassa di legno e non ti brucio.
Eh sì, la Chiesa va verso la modernità. Che poi a me risulta che la cremazione si facesse anche al tempo dei Romani… com’era? Ah, sì, «hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito». Vabbè ma erano pagani, quelli.
Dunque, ricapitolando. Sono secoli che si bruciano i corpi dei defunti ma la Chiesa ci arriva solo adesso, dando l’autorizzazione a qualcosa che si fa da sempre. (Quindi ho mandato mia madre all’Inferno? O nel limbo? Ah, no, quello hanno detto dopo qualche secolo che non esiste. Cioè prima c’era ma poi non c’era più). Adesso ci dà delle linee guida: no a dispersione in terra, acqua, no a incastonamenti nei gioielli (Nei gioielli? È proprio vero che i soldi non fanno l’intelligenza). Le linee guida della Chiesa e quelle dello Stato Italiano sono diverse in tema di cremazione. In ogni caso continuano a preferire l’inumazione perché dimostra maggiore stima verso i defunti
Stima.
Forse il documento è in latino e la traduzione non è buona. Come si fa a stimare un defunto? È morto. Lo puoi rispettare. Rimpiangere. Piangere. Ricordare. Ma stimare no.
Alla mia sinistra stamattina ho una persona conosciuta, allora mi volto e rido.
«Che ridi?», chiede
«La Chiesa ora autorizza la cremazione ma se li seppellisci secondo loro li stimi di più».
In realtà non mi viene da ridere neanche un po’, mi salgono un mare di pensieri tristi e la solita travolgente rabbia verso un mondo che non capisco ma che in linea di massima vorrei… cremare.
Se solo potessi bruciare gli idioti soltanto pensando: brucia!
Ma devo andare a lavorare inutilmente e svogliatamente per accantonare un poco di carta moneta atta a saldare alcuni debiti pregressi. Devo tirarmi su. Penso a Keith Richards che le ceneri del padre se l’è pippate. Respect.