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di Diana Colombre

Illustrazione di Stefania Brandini


Il cielo, livido per le percosse di invisibili giganti, sanguinava un’acquerugiola fine.
C’era un’atmosfera d’immota attesa nella campagna desolata.
Guardai il mio orologio da polso: le quattro meno un quarto del pomeriggio.
Si sapeva tutti che di lì a poco sarebbe successo qualcosa, eppure si aveva l’impressione che la Natura stesse ritrattando, indecisa, come chi si propone di intervenire a un discorso ma poi desiste, rimanendo a bocca aperta senza emettere alcun suono.
La notizia era stata divulgata dal telegiornale della sera prima: quest’oggi alle cinque sarebbe finito il mondo.

Io non avevo ancora deciso se crederci o meno e poi, comunque, se la Terra si fosse disintegrata proprio alle diciassette in punto, che altro si poteva fare se non tirare avanti fino a quel momento?
L’Espresso iniziò a rallentare innalzando un lamento lugubre di mastodonte ferito a morte.
Raccolsi la mia roba – l’impermeabile, il cappello e una ventiquattrore – dal sedile affianco al mio e uscii dallo scomparto accendendomi distrattamente una sigaretta.
La carrozza era vuota fatta eccezione per una coppia di anziani coniugi che si trascinavano appresso un paio di borsoni blu deformati dal loro stesso contenuto.
La donna mi sorrise. Non so perché.

Gettai nuovamente lo sguardo all’orologio mentre scendevo dal predellino: le quattro e cinque minuti.
Scrollai la testa, quel treno era puntualmente in ritardo.
M’incamminai verso casa, avevo una gran voglia di rivedere mia moglie e i miei due figli, Christian e Davide, di sette e undici anni.

Di autobus, naturalmente, nemmeno l’ombra.
Un sentito ringraziamento alle solitamente tanto bistrattate Ferrovie che almeno avevano garantito alcuni treni a lunga percorrenza (sebbene ciò si dovesse più che altro alla solitaria ostinazione di qualche macchinista).
Spensi ciò che restava della mia sigaretta in uno di quei posacenere da esterno che l’amministrazione comunale aveva sparso per il concentrico in cerca di consensi.
La città pareva semi-deserta salvo il passaggio occasionale di qualche auto stracarica di persone e oggetti.
Chissà dove credevano di potersene scappare.
Molta gente si era barricata in casa, ma dei disordini e degli atti vandalici della notte precedente rimanevano ormai solo vetri rotti, parchimetri divelti e carcasse d’auto incendiate.
Evidentemente l’annuncio diffuso dal tg aveva fatto presa su molti.

Sembrava che la città fosse già morta, fottendosene alla grande del tempo che le era stato ancora concesso.
Un ultimo, rabbioso smacco inflitto alla bomba a orologeria che ticchettava e ticchettava e che avrebbe smesso solo alle cinque di oggi.
E se, invece, si erano inventati tutto, che so, tipo per testare la nostra reazione?
Anche perché, siamo sinceri: come si può prevedere l’ora esatta dell’Apocalisse?

Non ci era stato detto nulla sul modo in cui ci saremmo estinti e ciò aveva prodotto dei godibili dibattiti televisivi a cui avevo dato una fuggevole occhiata mentre ero al lavoro. C’era chi metteva in ballo i quattro elementi, chi la religione (qualunque essa fosse), chi il nucleare, chi le comete, chi tutti questi assieme… sia come sia, per me tutte balle.

Una veneranda 126 verde muschio con un tavolo rettangolare capovolto sopra il tettuccio mi tagliò la strada rischiando di travolgermi: «Eh, diamine! Quanta fretta!» sbraitai balzando indietro.
Scrutai stizzito l’orologio: le quattro e ventitré.

Erano quasi le quattro e mezza e io me ne stavo ancora in giro.
Era davvero incredibile come scorresse velocemente il tempo.
Non che dessi peso a quelle fandonie, eh, però volevo essere a casa prima delle cinque, avevo un sacco di lavoretti da portare a termine.
Aveva fortunatamente smesso di piovere, ma le falde del mio cappello si erano ormai inclinate gocciolanti verso le spalle quasi a voler fare la caricatura di un clown triste.

Il sole incominciò a far capolino fra le nubi ed io mi sbottonai rasserenato l’impermeabile.
Uomini e donne, di diversa età e ceto, presero a uscire timidamente sui balconi e c’era chi sorrideva e chi lanciava saluti alla nostra stella come se la vedessero per la prima volta o come se fossero consapevoli che sarebbe stata l’ultima.

«Be’, ma allora» captai il discorso di un uomo obeso con le pieghe del collo sudaticce «se è uscito il sole è tutto a posto! Cosa diavolo volete che succeda con il sole?».
Mi fermai un istante davanti allo schermo a cristalli liquidi di un negozio: “diciannove gradi, sedici e quarantasei”.

Ripresi a camminare turbato.
Non mi ero mai accorto che casa mia fosse così lontana dalla stazione.
Estrassi un’altra sigaretta dal pacchetto che tenevo nel taschino ma non trovando l’accendino, per qualche motivo a me ignoto, m’accontentai di tenerla a ciondolare fra le labbra, spenta.
Potevo chiedere d’accendere a qualche passante.
Se solo ne avessi incrociato uno.

Un merlo sparuto cominciò a cantare dal ramo di uno dei platani che crescono lungo il viale, proprio mentre ci passavo sotto.
È strano: si sta tanto ad osannare l’usignolo, eppure – parola mia –  anche il merlo emette pregevoli gorgheggi.
Dopo diverse svolte mi immisi in un budello lastricato con cubetti di porfido, verso il centro storico, alla disperata ricerca di una scorciatoia.

Una bambina, una povera zingarella la si sarebbe detta, mi venne incontro.
I capelli, che si intuivano biondi, erano sporchi e scarmigliati sebbene ci fosse stato un maldestro tentativo di imbrigliarli in una coda di cavallo. Le guance, rosee, sarebbero state ben più colorite se degnamente lavate.
I vestiti, troppo grandi per il suo corpicino, le erano stati sistemati addosso con una serie di lacci improvvisati, ma l’ampio gonnellone continuava a strisciare a terra e il suo orlo era ormai inzaccherato di fango.
Frugai nelle tasche cercando qualche spicciolo, convinto che mi porgesse la manina. Ma non lo fece.

«Signore» disse invece «mi saprebbe dire che ore sono?»
«Ma certo, piccola, sono le cin…».

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di

Federico Cirillo

 

Cinque: i minuti di tempo che ci impieghi a capire il perché la sveglia abbia deciso di suonare alle 7.00. Intanto si fanno le 7.05 e suona la seconda; la seconda di dodici che hai impostato fino alle 8.00…

Tempo un’ora e sei sbattuto sul ciglio dell’Ostiense in attesa del 23, senza minimamente ricordarti tutte le azioni che ti hanno portato alla fermata. «Ti ricordi sì che domani l’ufficio si sposta in Prati…?». Mortaccivostra: unica eco che aleggia sovrana in memoria di me nel vecchio ufficio, a Piramide.

10 minuti.
A piedi.

Quindici fermate in un tragitto che spacca a metà Testaccio dopo esser stato vomitato da Via Ostiense, saluta Piramide, lambisce il biondo – vabbè più giallo melma – Tevere, si lascia accarezzare dal Vaticano manco fosse un minorenne, scavalca il fiume e sgorga in Prati appunto…e io sto ancora alla terza fermata e già non c’è posto.

«Assurdo comunque…» sento borbottare dietro di me; un «non ce se crede…» mi si staglia sul collo, tra la barba e la nuca, al sapore acido di sigaretta spenta in fretta e cappuccino-post-rutto. L’operazione del girarmi, resa complicata dall’ammasso di corpi inscatolati nel mezzo, mi dà il tempo di elaborare una frase lucida nonostante l’orario e il rodimento di culo costante:
«Purtroppo gli autobus a Roma…»
«Ma no, no ma quale autobus! Sticazzi dell’autobus!» quasi mi urla in faccia il giovane dietro di me «te pare possibile che in Corea le donne non possono partorí?»

Il machecazzo! effettua un veloce edulcorarsi fino a farmi emettere un più lieve e interdetto «Come scusa?».

«Eh sì sì, hai capito bene» mi incalza strofinandosi con le due dita delle mano destra degli irsuti baffi che fanno da incipit a un’incolta barba riccioluta «in Corea, mo’ non me ricordo quale delle due, se vuoi partorí devi lascià il lavoro o viceversa.»

Il «viceversa» intriga, lo ammetto, ma lascio scorrere, anche perché basta un sussulto del bus a omaggiare il traffico del Lungotevere, a farlo trasalire in un: «che poi è più assurda la situazione a Nea Kavala…pare de stà dentro una trappola, tutti ammassati, morti di freddo…ma figurati l’Europa…».

«Nea che?» mi lascio scappare.

«No No, non Ke, Ka… Nea Kavala, il campo profughi a Nord della Grecia…ma non li leggi i giornali?» mi bacchetta il tipo mostrandomi una copia arrotolata di Internazionale e per poco, barcollando per la scarsa stabilità del mezzo, non me lo ritrovo con i suoi occhiali a montatura squadrata e nera a sbattere sul mio naso. «Che poi lo capisco» continua, senza attendere una risposta «non è che uno li può accogliere tutti, ma almeno la dignità, cazzo, la dignità dell’essere umano… prendi coso là, quello colombiano che ha fatto pace con la Faac…coso dai…»

«Santos?» gli chiedo, evitando di fargli notare che mai una ditta di impianti automatici aveva litigato con la Colombia, comprendendo che si riferisse, invece, alle Farc

«Ecco sì quello» ammette conciliante mentre tira su con il naso «quello ha dimostrato intelligenza e umanità! Grazie che je danno l’Osc…il Nobel, scusa.»

«Beh effettivamente è stato notevole…»

«Mica solo notevole!!» mica me fa finí de parlà… «tiè guarda!» aprendomi una pagina del settimanale che ritrae una foto ripresa dai festeggiamenti delle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane per l’accordo raggiunto «guarda come sò tutti felici pe sta cosa, era ora, era. Noi siamo bravi a giudica…poi quando se tratta de fà…ce magnano in testa pure i colombiani. Prendi Grillo no…la Raggi…che stai a ffà? Niente…dici tu…invece no, stai a ffà» scandisce con vigore «e se ne rendono conto pure qua» mentre sfoglia ardentemente il giornale alla ricerca del servizio citato «che dice che sembra che non fà, ma invece fà e all’estero lo sanno…noi invece non sappiamo manco più che vor dí de sinistra

Cerco di approfittare del flusso della gente che sale e si inserisce tra noi due verso Lungotevere De’Cenci, ma niente, lui si svincola, sguiscia rapido e mi si ripropone davanti:

«perché è scomparsa la sinistra, lo sai si? L’hai più trovata te? Eh no…lo dice pure Harris, tiè, qua su L’Internazionale…è tutta ‘na “pasokificazione” la nostra…» guardandomi come a scrutare la mia reazione a quel termine e, al contempo, a cercare di ricordarsi se l’ha detta giusta.

Cinque. Le fermate che ancora mancano. Mortaccivostra, l’eco che ancora rimbomba, mai come ora più forte, nell’ufficio vecchio a Piramide. Blu, la camicia di flanella a quadri del tizio:

«che poi volemo parlà de quanto è contraddittorio l’Iraq? Lo dice L’Internazionale eh, e inoltre…».

Al che capisco il gioco. A tre fermate dalla salvezza, capisco il meccanismo. Ripasso a memoria l’indice di Internazionale che, per sommi capi, avevo spizzato su internet qualche giorno prima e gioco il jolly:

«ma invece della legge elettorale che ne pensi? Cioè del casino che c’è stato coi franchi tiratori dico?» panico.

Il tipo si blocca tra un «conflitto siriano» e un «Ali Bongo rieletto in Gabon». Gli occhi si fanno piccoli dietro le lenti, la mano che stringe il giornale si inumidisce, assumendo di getto, sulle dita, lo stesso colorito della copertina che intanto stinge. Riflette, pensa, rimugina e cerca di ricordare…

«Largo Fiorentini – fermata Fiorentini»: lo sguardo torna a brillare, rapido, scaltro e veloce, afferra tutto il suo coraggio e, urtando tra la gente, prima di scendere, urla a mo’ di mantra indiano:

«Bilancia, ti sei liberata di un irritante demone…Cancro, lasciati entusiasmare e trasformare…Acquario, aspettati un sogno profetico…».

Ma niente, Brezsny stavolta non lo può salvare. L’ho fregato: del referendum non ne parlava L’Internazionale di oggi. E scendo anche io, dopo Traspontina.