La vita degli altri View More

di Siliva Penso

Illustrazione di Liliana Brucato

Dal posto in cui mi siedo posso vedere le persone in faccia.
Di solito è per terra, con le gambe lunghe dritte, la schiena contro la porta automatica che resta chiusa.
È il modo migliore per osservare la gente che sfila entrando: triste, arrabbiata, agghindata, che non ha tempo, che perde tempo, che non si rassegna al passare del tempo.

A volte mi metto sulla poltroncina di plastica arancione, lì mi godo meglio il dondolio del vagone e sonnecchio.
Lo faccio quando ce l’ho col mondo, o dopo che qualcuno mi ha trattato male.
Così mi diverto a scrutare le espressioni schifate degli altri, gli sguardi imbarazzati che si incrociano tra loro, trovando, risarciti, approvazione quando di solito le identità di ognuno sono chiuse, sigillate, proiettate verso il proprio telefonino. C’è una certa soddisfazione beffarda a vedere il tramestio dei pensieri preoccupati dietro le fronti, che macinano idee e si impongono di non sedersi più sui sedili se ci si mette la gente come me.
Già, ma com’è la gente come me?

Umana direi.
Ma anche senza tetto, senza casa, barbone, clochard, barbaro, sporco, puzzolente.
Come volete voi: io sono tutte queste cose.

Certo, sono anche altro.
Ma è nascosto bene sotto la sporcizia, il disagio, gli occhi cerchiati di borse nere.
Perciò nessuno lo vede.
Invece, da quando io sono questo qua, a loro li guardo sempre, prima no.
Prima era tutto un vortice di impegni e sacrifici e cose da fare.
Ma c’erano anche i momenti belli, mi pare.
Ora il tempo è una linea piatta ininterrotta e va per conto suo.
Io lo srotolo osservando il viavai dei corpi che si spostano, oscillano, perdono l’equilibrio, appisolano il mento sul palmo della mano, raccontano urlando al telefono delle coliche del marito, sbraitano contro le ingiustizie ricevute al lavoro, dai fidanzati, dalla compagnia telefonica.

L’altra notte c’era una coppia che si baciava sui sedili.
Tanto erano presi che la metro era diventata la loro stanza.
«Sono giovani», ha detto una signora all’amica, come per scusarli. Loro erano vestite tutte eleganti, chissà qual era la meta. È bello fantasticare, immaginare dove potrebbero andare, chi incontreranno, amici, amanti? Cosa troveranno quando lasceranno il vagone, cosa li aspetta nella vita vera, fuori dal dondolio rumoroso delle gallerie?

Il sabato sera è il più bello, la metro è un pullulare di allegria e aspettative, è un’altra vita nella vita sotto la città, che viaggia veloce verso feste e incontri e teatri e cinema e luci nella notte che brillano sui marciapiedi. Gli amici, in circolo intorno al palo centrale dello scomparto, si battono pacche sulle spalle dei giacchetti jeans, hanno gli occhi lucidi di riso, sono innamorati del mondo e nei gruppetti c’è sempre un ragazzetto che si accosta a una ragazzetta e fa il simpatico, lei a volte ricambia la simpatia, a volte no, è scorbutica sapendolo, lo fa apposta, il ragazzetto talvolta si scoraggia torna al sicuro nel branco dei maschi, altre volte dribbla, la prende alla larga, cerca prima di far colpo sulle amiche.

Il lunedì mattina nell’aria c’è una tristezza lugubre, l’aspettativa lascia il posto alla rassegnazione, alla rabbia di alcuni che vogliono litigare per forza, a quelli che entrano come furie travolgendo tutti, che rubano il posto a sedere con scatti ferini e occhi da predatori. C’è anche la categoria con l’ansia, tipi che si mettono davanti alle porte molte fermate prima della loro e chiedono a tutti «Che scende alla prossima?».

Il venerdì pomeriggio si sentono più sospiri che parole, c’è uno strano mesto silenzio, le persone sono stanche, i libri rimangono aperti e gli occhi persi in chissà quali orizzonti ciechi, le dita scorrono sugli schermi senza vedere niente.

Ogni giorno in certe ore stabilite, che chiamano di punta, la metro diventa un container e dentro ognuno stipa il proprio corpo come può, come una merce ci si addossa gli uni agli altri. Io sto tranquillo, intorno a me c’è sempre spazio. A volte quelli più vicino parlano di me, sono le solite frasi con le stesse intonazioni, una sinfonia metallica e monotona sulla quale si può quasi tenere il tempo, come se fosse una logora canzone trita e ritrita che, con versi stonati e gracchianti, rimbomba dai vecchi altoparlanti della stazione: «Che vergogna», «Ci vorrebbe più controllo…», «Basta con questo degrado, non si può più neanche prendere una metro!», «Andrebbero arrestati questi qui e buttata la chiave! », «Insopportabile questa puzza, già ci tocca andare a lavorare…».
Lavorare.

Anche io lavoravo, o almeno così ricordo, come fosse un sogno ormai. Sembrano mille invece era solo un anno fa.
Avevo un lavoro, sì, ora ho solo uno scatolone e sono un niente perché niente possiedo: così, almeno, impone questa società, questa esistenza attuale. L’esistenza è fluida, non c’è, scivola via.
Vivo di elemosina.
Elemosino spiccioli e sguardi…e guardo.

Guardo la vita che non ho: la vita degli altri.

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pt. 1

di Federico Cirillo

Illustrazione di Simona Settembre

Sergio Pancaldi è un signor nessuno.
La sua storia è con la lettera minuscola, le sue pagine social sono anonime. Il suo gatto Olmo era più popolare di lui, poi l’ha regalato agli zii in campagna.

Ore 07:00

La vita di Sergio è piatta.
Ogni mattina si sveglia nella sua stanza in Via dei Girasoli, saluta il suo coinquilino Fabio, si fa il suo caffè in capsule e dopo una veloce doccia con barba, esce.

Via dei Giunchi, Via degli Ontani, Via dei Glicini, Via dei Castani, Piazza dei Mirti, Metro. Ne avesse mai vista una, poi, di quelle piante.
“Che so ‘sti ontani? – si chiede – e i mirti? Io l’ho giusto bevuto in quella taverna sarda anni fa, non pensavo fosse un fiore, ’na pianta, un frutto...che cazzo è il mirto? Ah già, non prende qua” e mentre lascia naufragare l’idea di controllare su Google, abbandona il suo smartphone nella tasca dei  pantaloni. 
Metro C fino a San Giovanni, Metro A fino a Termini, quindi Metro B fino a Castro Pretorio: 10 ore di lavoro in ufficio e ritorno: “Cavolo – pensa, mentre viene pressato nel vagone – mi sono scordato di controllare che cos’ è il mirto. Vabbè mo non prende” e così via. 

ore 09:00

La vita di Sergio è piatta anche il fine settimana.
O va in campagna dai parenti o va a pranzo da Enzo, l’unico amico che ha a Roma: “A Roma…a Tomba de Nerone, ‘tacci sua” .
«Daje Sergio, io e Mara ti aspettiamo: ho preso la porchetta e le bistecche, metto su la griglia. Porta il vino e la pasta speciale per te. Ps: c’è una sorpresa!1!» gli ha scritto Enzo anche questa domenica.

“La sorpresa – pensa – sarà Silvia, la solita amica di Mara, che ansia. Vabbè so le 9: se esco alle 10, metro Mirti, San Giovanni, scendo a Flaminio e per le 13 ce dovrei sta”. 

Ore 20:00

Bella giornata de merda”, pensa Sergio mentre aspetta la metro C per tornare a casa.
È brillo: il vino rosso che ha portato, gli aveva dato subito alla testa e arrivati al ragù di carne stava già arrancando mentre annuiva, senza ascoltare, ad un discorso che Silvia gli faceva su un sistema di banche fantasma che controllano altre banche e Mario Draghi…boh: era già brillo e annoiato da quelle chiacchiere complottiste.
A seguire: porchetta, bistecca e il video di Paoletto, figlio di Enzo, 7 anni, “una promessa del calcio a’ Se’: questo me diventa come Chinaglia. Ma che ce parlo a fa co’ te, ‘n ce capisci ‘n cazzo de pallone”.  Ed era pure vero.
Dopo 3 bottiglie di vino, due di amari e una di limoncello la domenica era andata.
A chiudere, Paoletto gli aveva mandato il pallone  sul  limoncello, rovesciandoglielo sui pantaloni. 
Sente la  puzza di cedro stantio anche ora che aspetta la metro a San Giovanni, ma “almeno porto un po’ di odore di piante a piazza Mirti. Che poi che è il mirto? Poi vedo. Se avessi saputo che a 37 anni mi sarei ritrovato così me ne sarei andato, come Guido: Azzorre! Si è aperto una pizzeria…ah no, so celiaco. Cavolo, non fossi stato celiaco, non fossi stato un ingegnere! Se fossi stato, che so: un politico, uno statista! Anzi no, un artista: un cantante, oppure un profeta che si è inventato una nuova religione, o un pilota de formula uno, un calciatore, un divo: CAZZO, TUTTO TRANNE SERGIO!”.

Senza accorgersene, ha urlato ma la banchina è praticamente deserta.
C’è solo un barbone appoggiato al muro che a malapena ha alzato gli occhi e un uomo, che lo guarda e si avvicina: “Mo me ammazza – pensa Sergio – o me mena. Prima me mena, poi m’ammazza. Non potrebbe fa il contrario? Ecco che alza la mano” .
La mano si appoggia delicatamente sulla sua spalla e il gesto è accompagnato da un sorriso e da un: «Sicuro?».
Poi un black-out momentaneo e, tornata la luce, Sergio è di nuovo solo. L’uomo non c’è più.
Al suo posto un odore di “Mirto! Questo è mirto…ma perchè lo so? Vabbè…è stata sicuramente un’ allucinazione da sbronza” pensa e sale sul vagone. 

Il viaggio è tranquillo ma Sergio, addormentato sul sedile, ha mancato la fermata e si è risvegliato a Centocelle.
Non fa in tempo a bestemmiare che scende al volo e sente la testa svuotata: deve appoggiarsi alla parete con la schiena e respirare forte. “Non c’ ho più il fisico pe’ le sbronze. Torno a piedi: na bella camminata tra le piante che non esistono e tra le luci di Natale…cazzo è già 23” .

Ore 21:00

La metro Centocelle è silenziosa. Troppo.
Nessuno in giro, nessun rumore, neanche quello delle scale mobili in funzione. Anzi: della scala mobile.
Ce n’è solo una, lunghissima, che sale.
Sergio non ci bada, tiene gli occhi chiusi e pensa: “potevo essere un attore di cinema muto, un attore porno, anzi no un gigolò, un astronauta, un astro…”. Prima di finire il pensiero, apre gli occhi e non capisce.
Dietro di lui la scala continua a scorrere silenziosa. Davanti, un’enorme sala circolare. Rabbrividisce: la stanza è fredda e buia, i muri neri delle pareti sembrano accerchiarlo.
Un lampadario sbilenco, al centro, manda una luce fioca.
Sotto di esso, un uomo: quell’uomo

Ha un’aria da anziano signore, con una giacca lisa e un po’ impolverata, una barba sfatta bianco sporco. L’iniziale impressione rassicurante da gentil vecchietto si incrina nel guardargli gli occhi: uno nero e uno celeste ghiaccio, quasi bianco. Lo guarda e gli sorride, mostrando denti irregolari ma così bianchi da far luce tutta loro.
Sembra quasi che illuminino la lampadina che pende.

Ore 34:00,00?

«Ma dove…?» la domanda di Sergio si ferma a metà, travolta da una sensazione di fiato spezzato, mista a rigurgito alcolico: girandosi non vede più la scala ma solo una curva infinita fatta di oscurità. 
«Ciao Sergio. Non preoccuparti: sei esattamente dove avresti voluto sempre essere».
La voce dell’uomo, ferma e netta, riecheggia creando delle onde sonore che avvolgono completamente il cervello ovattato di Sergio.
La pausa che segue sembra durare un’eternità per poi venire spezzata dalla frase «La domanda non è dove né quando: la domanda è come» che anticipa tutti gli interrogativi dell’ingegnere.
Il sorriso dell’uomo in piedi al centro della sala sembra sottolineare ogni sillaba.
La paura di Sergio è passata non appena la prima parola è uscita dalla bocca dello sconosciuto. Ogni lettera è arrivata al suo cuore e alla sua mente, causandogli sensazioni positive legate a ricordi dimenticati: l’abbraccio di suo padre dopo la prima caduta dalla bici, la mano di suo nonno mentre camminano insieme verso l’edicola, lo sguardo sorridente e stanco di sua madre subito dopo il parto. 

«Vedi?» riprende l’uomo aprendo le braccia e le mani che mostrano cicatrici sui palmi «La risposta non è lontana: sei già nella risposta. Se “tutto tranne Sergio” è il punto, ora sei tutto, tranne Sergio».
Come in un teatro di posa vuoto e abbandonato, ad una ad una, con lo stesso “tac” dei riflettori quando si accendono, cento diverse finestre intorno ai due iniziano ad illuminarsi. Quadrati di luce che pulsano e si riempiono di un bianco accecante. Ora è il cerchio che risplende, mentre al centro è di nuovo buio. L’uomo è scomparso ma non la sua voce che Sergio sente chiara.

«Calma, Sergio: sono qui. Sono ovunque. Le vedi le finestre? In ognuna ci sei tu: lì dentro sei tutto, tranne Sergio. Non aver paura, guarda, sono le tue vite».
Sergio si avvicina ad una delle celle illuminate e brillanti. La sua mano sinistra, spinta da una involontaria attrazione, viene calamitata verso la luce. Mille domande viaggiano nel suo cervello come auto impazzite: “Che c’è oltre la luce? E nelle altre? Che vuol dire “tutto tranne che Sergio”? Ma io so Sergio?”.
La mano scompare e riappare dall’altra parte della cella.
Afferra qualcosa: un volantino stropicciato con la sua faccia e il busto in primo piano.

…continua

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di Marco Di Travertino

Illustrazione di Stefania Brandini

Quella specie di tartaruga è un uomo: intabarrato nel pastrano stinto in un alba che potrebbe esser livida, ma è il mondo reale e, quindi, un’alba di merda.
Esita nell’atrio del casermone scrostato, fatto apposta coi piedi per farti sentire inferiore. Il chiarore fuori è un riverbero grigio tra le pozze fangose increspate da pioviggine e vento, spasmi terminali di una notte squassata dalla tempesta.

Le sette meno un quarto: l’ora del raccapriccio.
Strattona il cancello e si lascia investire dalla tramontata.
Quel po’ di stufelettrica-moka-carezzalgatto, disperso in un attimo.
La tartaruga incassa le gocce, rabbrividisce e allunga il passo.
Va a lavoro coi mezzi, che non passano o sono in sciopero, zeppi di carne o prendono fuoco. Ci sarebbe da ridere ma è lunedì.
La sera ha bevuto e mancano otto mesi alle ferie.
La tartaruga si sente truffata e stanca.
Un inizio giornata tragico. Anche eroico, però: il lavoratore che soffre a testa alta… Un eroe proletario!
Bell’eroe del cazzo, pensa la tartaruga, che tra mutuo, alimenti e spese varie non può mandare tutto a puttane.

Da quando ha lasciato la patente in mano a un appuntato – guida in stato di ebbrezza – ha bisogno ogni giorno di una metro e due bus.
L’attesa del primo è febbrile, non ci si abitua mai. Al momento giusto guadagna un buco senza troppi complimenti nel marasma umido: cappotti impregnati di fritto, ombrelli, zainetti cenciosi, adipe, membra, respiro.
La tartaruga non riesce a timbrare il biglietto e se ne cruccia.
La forza dell’abitudine.
Se ne guarda bene il controllore dal mischiarsi a cotanta canaglia…
È al bar, mastica una bomba alla crema. Lo zucchero gli atterra sul golfino alla faccia di quel quarantotto di monossido di carbonio, cipolla-sudore e alitosi impiegatizie al cappuccino-cornetto.

Il traffico? Un patimento.
Si striscia lungo la dolorosa arteria di periferia, un tempo industriale. Fracasso persistente di clacson punteggiato di cordiali vaffanculo.
Un fiaterello di operai, alcol stantio, si incunea nell’aria già di per sé vivace. Sciami di motorini zigzagano tra le vetture ferme, il medio dal finestrino è quasi un “baci ai pupi”. L’orologio non fa sconti.
La tartaruga reprime una loffa.
«Se avessi il teletrasporto – pensa – sarei ancora a letto. Farei la doccia solo qualche minuto prima di arrivare a lavoro fresco e pulito, in orario. Ma se avessi il teletrasporto, avrei bisogno di lavorare?».

Il metrò: l’ingresso è una bocca sdentata in cima alla salita.
Mandrie intere, armenti ferrigni giù per le scale sdrucciolevoli per la fanghiglia. Si lotta per guadagnare terreno.
Un ragazzotto in pettorina spinge in mano alla gente un “notiziario” gratuito: monnezza, propaganda, merda. La tartaruga ha fretta, lo maledice gettando l’almanacco com’è verso un bidone.
Manca il bersaglio, le pagine tutte per terra e neanche un minuto per raccoglierle. Un colpo al suo senso civico.
Tre raccapriccianti fermate: porte che frollano arti, asfissia generale, gomiti in testa, per aria, nel culo. Due ragazzine commentano il fatto del giorno: un tizio ha sparato alla moglie davanti alla figlia, ha sparato alla figlia davanti al cane, poi s’è sparato.
Non bisogna far male agli animali, pensa la tartaruga.

«SAN GIOVANNI», gracchia l’altoparlante.
Una marea solo vagamente umana, partecipe della stessa convulsione si riversa all’allungo finale: il bus delle sette e trequarti, ultimo possibile per l’altra parte del mondo.
La tartaruga corre e ridacchia: assurdo che esistano corse delle otto meno un quarto da “prendere o lasciare”, ritardi, contestazioni disciplinari e lavori da sciacquatazzine.
Ride come un cretino e corre: mica è semplice farlo assieme.
Il ragazzo ha talento ma viene bloccato da un semaforo.
Il “ragazzo”, non il talento: quello è pietrificato da tante cose.
Depressione, pigrizia, un discreto alcolismo, autostima zero fin dalla culla e quasi quarant’anni di sfiducia nel prossimo. Flusso infernale di macchine e il rosso più lungo dell’universo. Tre minuti più preziosi dell’acqua persi per sempre, la lancetta lunga in fuga sull’orologio del Laterano e le gambe a friggere. Le automobili continuano a sfrecciare…
Il 714, Dio Cristo, l’autobus!
Miseria impotente.
Quel serpentone verde, quella cazzo di fiera dell’est che ci mette venti minuti per fare tre metri, stamani inforca la curva sciolto come una ballerina russa! La tartaruga realizza, s’arrende, lo dice ad alta voce perché trova giusto assaporarne il peso esistenziale: Sono In Ritardo.
Il transito è ancora impedito. Un leggero tamponamento ha l’effetto d’ingigantire l’ingorgo.

Fuoristrada manovrano per rubacchiare mezzo metro di strisce pedonali.
Il frastuono è ovunque. Assoluto filosofico: clacson come urla di strazio. Ominidi in piena escandescenza a rantolare tricchetracche di madonne dietro a finestrini appannati, capacissimi di ammazzarsi a vicenda.
Ma ecco il pezzo forte: un vigile urbano tutto marziale, maschio latore del nerbo quirite, farsi largo come un centurione tra SUV e berline per fischiare contro tutti e nessuno, gesticolando come il Direttore Maligno dell’Orchestra dell’Indistricabile.
Fa casino anche peggio!
La mischia appiedata ondeggia su e giù dal marciapiede decisa a saltargli alla gola, a quel pezzo di merda frapposto tra la luce verde e l’altra sponda selvaggia…
Scatta l’arancione, è troppo!
Esonda, lo lascia ecce homo al pizzardone: culo a terra e ben gli sta! Il nostro è nel mucchio, ma il mezzo è già oltre.
Inutile pure affacciarsi alla traversa: perso quello persi tutti.

 Il taxi lo scarica a qualche metro dal bar.
Venti euro per incassarne quaranta e un quarto d’ora di ritardo.
«Alla buonora!», sibila la cassiera dall’alto del suo sgabello. Quel paio di metri.
Insulti soffocati dalla porta della cucina.
Il capo è già all’opera. La tartaruga afferra il caffè che un qualche collega gli lancia sul banco e lo butta giù incendiandosi lingua, esofago e budella: sofferenza sorda che è innesco a curvare la schiena e sgobbare anche oggi.

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di Matteuccia Francisci

Dobbiamo cambiare, lo so.
Ancora un’altra volta. Non so più da quanto tempo non faccio altro che cambiare nome. Solo così possiamo continuare ad esistere, hanno detto.
Lo so, lo sappiamo tutti ormai, inutile ripetercelo ogni volta.

Vorrei riuscire ad avere paura, ma non posso fare neppure quello.
Vado avanti e indietro in questo vagone della metropolitana, sapendo che la mia ora sta per arrivare. E che però non morirò.

Sono così stanco, vorrei quasi morire se sapessi cosa voglia dire.
Mi domando cosa ne sarà di me quando, di nuovo, cambierò nome.
Ce lo domandiamo in tanti. Ce lo siamo domandati prima e ce lo domanderemo ancora e ancora, lo so.

Una signora ha abbassato la mascherina e dice «Mamma mia, mi sento soffocare». Ha i capelli rossi, ma non sono naturali, si vede che sono tinti e neppure troppo bene.
Si alza per scendere e la seguo, devo farlo, è quello che dobbiamo fare. Alcuni ci chiamano assassini, ed è buffo che lo facciano con quel disprezzo. Siamo tutti assassini di qualcun altro, è così che funziona, ma loro sembra lo abbiano proprio dimenticato. È il Sistema, io uccido te che uccide lui che ha ucciso l’altro. Ne parlano come se fosse un crimine e non, semplicemente, ciò che deve essere

La signora con i capelli rossi parla al telefono, ora.
Alza la voce, parla sincopato, poi taglia corto dicendo «Senti, io non ce la faccio a parlare ora, questa mascherina mi sta soffocando».
Sono proprio dietro di lei, mi basta farmi un po’ avanti e…no, ha attaccato. Si rimette la mascherina sul naso e se ne va a passo svelto per la scala mobile.

Fanno tenerezza con queste mascherine, hanno dimenticato chi sono.
Noi, invece, non dimentichiamo e non ricordiamo.
Se non trovo subito del cibo, ho paura che morirò.
Non voglio morire, non voglio neanche vivere, che questa non è vita.
Forse non so neppure cosa sia la volontà.

In banchina sono in molti. Tesi, arrabbiati, sporchi. Sono sempre sporchi. Credono di essere puliti, ma sono sporchi. Popolati da ogni genere di cosa che se la vedessero rabbrividirebbero. Ricoperti dalla testa ai piedi di polvere, batteri, acari. Cumuli di immondizia in cui tuffarsi e nuotare fino a trovare l’entrata.
Sono molto stanco, sento che mi sto indebolendo ogni giorno di più.

Ogni volta è lo stesso, provo la stessa paura, e poi accade qualcosa e ricomincio da capo. Da millenni, forse milioni di anni.
Ricordo ancora la prima volta che ci hanno scoperto, pensavamo fosse finita per tutti e invece si trattava solo di cambiare aspetto.
Cambiare tutto per non cambiare niente.

Con gli umani riesce sempre il trucco.
Anche con gli altri, ma è più divertente con gli umani, perché si affannano così tanto, perché si credono così tanto.
E soprattutto perché si spaventano così tanto.
Oh, gli umani hanno così tanta paura che ci si potrebbe riempire una galassia.
Gli altri no, si abbandonano senza paura, quasi affidandosi.
Sono meno divertenti, ma più…giusti.

Eccone un altro con la mascherina abbassata, che buffi che sono con la loro tecnologia e la loro stupida inconsapevolezza. Del resto sono così giovani, che ne sanno di come si sta al mondo?
Ha toccato il sedile, si sta toccando il naso.
Ecco, si è reso conto, sento che ha paura.
Lo sa, lui lo sa. Beh, comunque lo saprà.
Una ragazza con le gambe lunghissime sta venendo verso di me.
Se rimango fermo non dovrò fare assolutamente nulla, lei è già predisposta, lo vedo chiaramente.
Direi che posso annusare il suo essere mia, se potessi sentire gli odori. Vorrei dire che ho un fremito nel vederla venire verso di me, che provo una qualche emozione fortissima, che…ma noi non parliamo.
Nessuno parla. Solo loro. Parlano, parlano, fanno rumori di ogni tipo.

Quante cose fanno, questi maledetti. Dicono di avere paura quando tutti hanno paura di loro. Tranne noi, non abbiamo paura di loro.
Né di alcun’altra cosa, in ogni caso. Noi, semplicemente, esistiamo.
Da sempre e per sempre.
La ragazza bionda è arrabbiata, sai che novità.
Sei mia, umana.
Staremo insieme per un po’. Per te forse per sempre, per me solo il tempo di una corsa.
So che poi dovrò scappare ancora per un po’ e poi abbandonare questo nome, questo luogo, questo tempo, e aspettare di poter tornare.

Dai, avvicinati ancora un po’, bella mia eccoti qua, ora faremo conoscenza piano piano e poi sarò dentro di te e farò con te quello che mi pare per il tempo che mi pare. Ehi, bella biondina, come ti…oh! No! Che fai! Maledetta bastarda, no, ero così vicino alla tua bocca…no, ahia, cazzo se fa male, devo scappare via immediatamente.
Stronza.
Gli assassini siete voi, maledetti schifosi, feccia dell’Universo.


Il ragazzino, oh, eccolo finalmente, voilà.
Facile facile.
Ciao ciao bel cucciolo, sai che una volta ho conosciuto un cucciolo come te, ma era moolto più carino, aveva ali e un udito molto sviluppato e non mi ha mai odiato e non mi ha mai chiamato nemico, mi ha ospitato e poi è semplicemente morto.
Come deve essere.
Si vive, poi si muore, poi si vive di nuovo.
Come so queste cose?
Perché io sono l’eterno, l’immortale, il mai vivo e mai morto.
Gli altri neppure mi hanno dato un nome, ma tu sì, piccola sottospecie di mammifero.
Mi hai chiamato Virus e mi hai dichiarato guerra, ma io sono un pacifista. Io esisto.

Oggi mi hai dato un nome, perché tu hai sempre bisogno di un nemico da chiamare. Dirai che mi hai sconfitto, ma io avrò cambiato nome e aspetto. Giusto un po’, un’aggiustata ai baffi, uno spostamento della riga dei capelli, una lente colorata. Ahahahah!
Dai si scherza scemo, io non ho corpo e non ho anima.
E non ho paura.
Tu mi troverai e mi eliminerai e io, beh, qualche cosa farò.
Cambierò, ecco cosa farò e tu non mi troverai più e poi….peekaboo!

A te piacciono gli scherzi, vero, coso?
Dolcetto o scherzetto? Scherzetto, Uomo.

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di Matteuccia Francisci

Illustrazione di e con Simona Settembre

La finestra sbatte.

C’è vento, e sbatte. Non le va di chiuderla, vuole che entri aria e luce in casa in primavera ed estate, almeno tanto quanto la vuole chiusa in inverno. L’inverno non esiste, è un passaggio dell’anima, buio.
Ogni anno sembra impossibile da superare, e quando arriva la primavera vorrebbe aprire anche i muri, vivere solo di luce e di calore.

Sbam!


Che fastidio il vento.
Neanche il vento le piace, le fa anche paura, sembra un’entità invisibile che si aggira intorno a noi e che può spazzarci via senza che neanche vediamo da dove arrivi.

Sbam!

La signora si alzò e riaprì il finestrino del vagone della metro B.
I vagoni della metro B erano ancora quelli vecchi, quelli della A li avevano cambiati e non si potevano più aprire perché c’era l’aria condizionata, quelli della B ancora si potevano tenere aperti, unica fonte di aria (schifosa) nei millemila gradi che si sviluppavano d’estate.
Era il 30 luglio, l’ultimo appello della sessione, e l’avevano bocciata.
Aveva studiato due libri su tre, le avevano chiesto Peròn.
Però stava nel terzo libro.
Bocciata all’esame facoltativo.
“Clap, clap! Per gli autografi dopo, grazie” pensò mentre l’aria sporca e calda le veniva in faccia dal finestrino.

«Può chiudere per favore?» chiede il signore alla donna seduta sotto il finestrino.
«Ma fa caldo!» risponde la donna.
«Sì, ma l’aria in faccia mi dà fastidio» replica il signore.

È un po’ anziano, ha una camicia bianca a maniche corte e dei pantaloni grigi con le pinces, da vecchio insomma. Alla ragazza piacciono i pantaloni con le pinces, lei non li trova da vecchio, si dice da sola come se qualcuno avesse fatto quel commento ad alta voce.

«Io ho caldo, se chiudo soffoco» Replica la donna, con poca grazia.
Il vecchio, inaspettatamente veloce, con uno scatto repentino si sporge in avanti e chiude il finestrino.
Sbam!
«Ma vaffanculo, va!»

Hai capito il vecchietto, pensa la ragazza, e le scappa un sorriso.
La signora si rialza e riapre il finestrino.
«‘A stronzo!»,e si risiede.
«Allora sei de coccio!» dice il vecchio, e richiude il finestrino.
Sbam!

No, non è vero, è solo il rumore della finestra che sbatte.
Le ha ricordato quando sulla metro si creavano delle vere e proprie faide su “finestrino aperto/finestrino chiuso” perché d’estate i vagoni erano caldissimi, ma l’aria che entrava era fastidiosa se ti arrivava in faccia.
E lei non sapeva mai che parte prendere perché avevano ragione tutti e due.
Ci ripensa quasi con nostalgia, adesso che deve stare chiusa in casa in questa nuova vita a “Fasi” che sembra tanto la stessa storia dell’Anno Nuovo, che è uguale a quello vecchio.

Non è vero neanche questo.
Ma quale nostalgia. Di cosa?

Dei mezzi pubblici affollati, dei turisti che salgono a Colosseo tutti sudati? Delle conversazioni altrui a voce troppo alta o del tipo che non sa levare il suono allo stramaledetto giochino idiota?
Non lo sa, eppure la nostalgia è sempre là.
Forse dei suoi vent’anni.
Ma no, odiava avere vent’anni, odiava l’università e tutto quello che stava intorno.

Sbam!

Forse ha nostalgia di uscire, vedere gli amici, andare al cinema. Si fa una risata. Ma quando mai, sta benissimo in isolamento. Tanto non usciva quasi più lo stesso, ormai.

Sbam!

E allora? E allora niente. Chiude la finestra, e pensa a quel vecchio. Sarà morto ormai.

Beato lui.

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di Federico Cirillo

Illustrazione di Tern Pat

Non prende. Niente da fare.
Come dentro la B1, come dal profondo ventre di Sant’Agnese Annibaliano, anche qui a Re di Roma non prende il telefono.
Questo vuol dire smettere di, nell’ordine:

  • eliminare la sottoscrizione ad una mailing list che mi perseguita da anni con offerte di lavoro nell’ambito del settore “creativo”;
  • smettere di far caricare la pagina google “come cancellarsi da una miling list” (sì lo so, ho scritto male, ma la grande G ha capito lo stesso);
  • doverla smettere di polemizzare all’interno di un gruppo WhatsApp.

Fortuna che ho un po’ di musica dall’offline di Spotify, così posso applicare qualsiasi colonna sonora al mondo circostante, affrescato con le espressioni imbarazzate e smarrite dei passeggeri improvvisamente privati dei loro giga: meraviglioso.

Tom Waits non ha fatto in tempo ad arrivare nelle mie orecchie con il refrain di Downtown Train che qualcosa, qualcuno, mi spinge con la schiena verso la parete della metro, facendomi anche sbattere contro il giornale del tipo che da quando sono salito era sulla stessa pagina. Mi giro di scatto e noto che, quasi fosse un Mar Rosso nel pieno dell’azione che l’ha reso famoso, la folla si è aperta per far da cornice ad uno spettacolo primordiale.
Il letto del fiume di gente è infatti occupato da due ragazzi, alti, palestrati e pieni di tatuaggi che si spintonano, strattonano e scalciano, come due gladiatori all’interno dell’arena.

Ho ancora le cuffie e non riesco a sentire cosa si sputano addosso, faccia contro faccia, fronte contro fronte, pugno contro pugno.
Me lo posso immaginare facilmente però: un insulto alla Mamma (Nun t’azzardà manco a nominalla, hai capito)? Un’offesa alla Squadra del Cuore (ah zozzo!)? Un biasimo o una polemica nei confronti dei metodi di allenamento di uno dei due (e quelli li chiami porpacci? Ah secco)? Uno sguardo di traverso di troppo (aoh, ma che cazzo te guardi)? Un apprezzamento non richiesto alla ragazza dell’altro (ah coso, ma nun lo vedi che è a’donna mia? Abbassa quell’occhi si nun te voi ritrova’ cieco!)?

Non lo so, ma con la voce di Tom nelle orecchie, tutto diventa così surreale: i “mortacci tua” sono sostituiti da “Will i see you tonight”, le bestemmie che si lanciano contro da “On a downtown train”, i “nun me tocca’” dai “Every night, It’s just the same, You leave me lonely”, e così via.

A Termini si aprono le porte della metro e i due, che ancora non hanno finito di menarsi selvaggiamente, tra un pugno e un calcio si avvicinano pugnacemente all’uscita.
Decido di capire: che cazzo è successo?
Tolte le cuffie, dalla nuvola di botte che i due energumeni hanno creato esce fuori quello che non ti aspetti:
«Servo Tullio!» urla uno dei due, tenendo per la gola l’altro e pulendosi del sangue dalla bocca. «Anco Marzio!» risponde l’altro con la voce rotta e sfiatata mentre cerca di sferrare l’ennesimo pugno che, visto il braccio, abbatterebbe un toro.

«T’ho detto Servo Tullio, Servo Tulliooo!» fa in tempo a gridare il primo, nell’attimo esatto in cui il destro del secondo gli atterra sulla guancia, accompagnato da un «Anco…Marziooooo!! Era Anco Marzio!!», e la spinta è così forte che, finalmente, i due precipitano insieme fuori dal vagone.

«Assurdo» penso ad alta voce, rivolgendomi ad un ragazzo vicino che, come me, ha assistito a tutta la scena «Ma che cazzo è successo? Perché litigavano? Che c’entra Servo Tullio?»
«Ma boh» risponde il ragazzo in tuta mentre si aggiusta gli occhiali da vista.«Hanno iniziato a litiga’ a Re Di Roma su chi fosse stato il secondo re di Roma, appunto. ‘Na cosa tira l’altra, non si sono trovati d’accordo, ed ecco che l’hanno risolta nel modo più peripatetico possibile: se so’ presi a pizze».
«Assurdo» commento mimando un “no” non la testa e guardando verso la porta della metro ancora aperta sulla banchina di Termini «Ma come se fa a litiga’ per una cosa del genere? Quei due, poi? Mah. Che poi si sa»azzardo con tono saccente,«il secondo Re di Roma è stato Tarquinio Prisco, era facile».

Non l’avessi mai detto. Il mite ragazzo dagli occhiali spessi gira di scatto lo sguardo verso di me, e un lampo di follia e rabbia repressa gli illumina gli occhi. Carica corpo e braccia, digrigna i denti e con ira funesta, improvvisa e inaspettata, mi spinge fuori dalla carrozza e anche io mi ritrovo eiettato sulla banchina, culo per terra e faccia sorpresa.

«Ma che cazzo dici a’scemo: era Numa Pompilio!» mi urla il ragazzo, proprio mentre le porte si chiudono e il treno riparte direzione Battistini.

Rimango così: fermo per terra, a fissare il treno che mi scorre davanti. Riprendo il telefono in mano e mentre la voce nelle cuffie si dissolve in un “All my dreams fall like rain”, sempre da terra controllo rapido su google, sempre con gli occhi sgranati e con il cuore che mi batte a mille. Il telefono adesso prende. Tom Waits ha smesso di cantare. La mail è rimasta è in bozze.

Il gruppo ha cinquanta nuovi messaggi. Google rapidamente mi dà la risposta: cazzo, aveva ragione.

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Degli effetti della privazione del sonno (e degli anni ’90) 

di
Matteuccia Francisci

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, mentre trascino i piedi per Via Altomonte nel mio non-luogo dell’anima, l’Anagnina.
 Cattivo umore, irritabilità, incapacità di prendere decisioni, viso pallido.
La discesa all’infero della stazione sembra donarmi qualche giovamento.
Anelo al buio e al sottoterra neanche fossi una revenante.

Tremori, viso gonfio, ce li ho proprio tutti, perfino… alterazioni della vista? Sulla banchina mi sembra di vedere una maglietta dei Take That. Impossibile, dai, non esistono più. Arriva il treno, troppa luce. Leggo Metro per far scorrere il tempo. È stato un periodo all’insegna di elezioni ovunque, ma la foto è riservata al calcio. Piccolo piccolo, in basso, qualcosa sulle elezioni europee e, ancora, sulla Brexit, i suoi effetti e le sue ultime conseguenze. 
 
Mentre lotto con la nausea e sfoglio le pagine, odo a destra squillare le parole: 
«Non posso ancora credere di averlo visto così da vicino. Ma quanto è bello Gary?» .
A sinistra risponde un’altra voce:
«Quando hanno fatto Back for good stavo morendo, senti che voce che ho, mi sono sgolata». 
E attacca… Back for good dei Take That. 
Davanti a me due ragazze di non più di 20 anni. Magliette della prima boy band della musica (o sedicente tale). Cellulare con video e commenti live: «O mio dioooooooooo!». 

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno, ma il suono lo sento davvero: il telefonino della ragazza di sinistra squilla. 

«Ciao mamma, sì siamo arrivate, l’aereo da Londra è atterrato in anticipo, siamo già sulla metro. Bellissimo, mamma, è stato il più bel regalo di compleanno che mi abbiano mai fatto, mi hai regalato un sogno».  
Nella mia mente rimbomba il colonnello Kurtz (L’orrore! L’orrore!) mentre comprendo che queste due ragazzine sono di ritorno da Londra: sono andate a sentire – l’orrore! l’orrore! – i Prendi Questo.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno. 
Era il 1995 o lo è di nuovo? Forse loro non erano neppure nate ancora. Margaret Thatcher si era finalmente levata dai coglioni, dopo 10 anni di un governo che alcuni ancora ricordano come salvifico. Tra gli altri, i sostenitori dell’apartheid e Augusto Pinochet. La Margherita ora è morta, rispondendo al gentile invito di S. P. Morrissey. Pinochet pure. Ma i Take That no, fanno ancora concerti e le pischelle ancora ci vanno.
Nel Regno Unito ci sta una donna con la faccia cattiva come quella di Margherita. Hanno le iniziali scambiate, ma gli stessi tailleurini blu e collane di perle, il medesimo rossetto rosso su labbra piccole che quando sorridono fanno paura. Come Carmilla di Le Fanu, che si chiama anche Mircalla e Millarca.

Vabbè a breve andrà via anche lei, la Teresa il 7 fa la sua exit…ma poi? Magari arriva un Simon Le Bon ciccione e invecchiato che al posto del fascino pop trash da Duran Duran è solo trash. Torneranno Gigi D’Agostino, Gabry Ponte e Berlusconi senza la cravatta e le maniche arrotolate? Berlusconi senza cravatta… ah! Panico. Accanto a me un ragazzo ha le mèches bionde, le ragazzine canticchiano Could it be magic e la vampira mi guarda dal quotidiano gratuito: Teresa, forse? Ho paura.  

Presento tutti i sintomi della privazione del sonno e mi sento male: «A livello mentale si è rilevata una maggiore vulnerabilità nello sviluppare patologie psichiatriche quali stress, ansia, depressione, paranoia, aumento del rischio di suicidio e raramente episodi psicotici». 

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di
Matteuccia Francisci

 

«È un bel libro, vero?»

La voce alla mia destra ha una lunga barba bianca e due occhi azzurri. Sembra Donald Sutherland.

«Sì, molto bello» rispondo, per niente sorpresa. Non sono molti quelli che leggono Arthur Machen, e meno che mai sulla Metro A alle otto e trenta di mattina. Anche io mi metterei a parlare con qualcuno che lo stesse leggendo accanto a me.

PROSSIMA FERMATA LUCIO SESTIO. USCITA LATO, SINISTRO

Cioè, stava tutta agitata che non aveva studiato Eraclito allora j’ho detto:scialla, entriamo alla seconda ora…

«Ma secondo lei Machen cosa farebbe succedere a chi dice“scialla”? Gli manderebbe gli Angeli di Mons?» dico guardandolo sorridendo, e a lui brillano gli occhi appena dico“Mons”.

«Pensa che agli angeli di Mons potrebbe interessare occuparsi di simili cose?»

PROSSIMA FERMATA PORTA FURBA. USCITA LATO, SINISTRO

«No, non credo. Magari li potremmo mandare in Siria».

«Mah, forse lì sarebbe meglio mandarci direttamente il dio Pan».

«Un sano ritorno al paganesimo non ci farebbe male, lei che dice?»

Stasera pensavo di cucinare l’arrosto però non so se riesco a passare in macelleria, sennò forse ho della pasta sfoglia in frigo potrei fare una torta salata veloce con gli spinaci che sono avanzati ieri, ah ricordati di passare in tintoria a prendere il piumone…pronto? Mi senti? Pronto?!

PROSSIMA FERMATA RE DI ROMA. USCITA LATO, DESTRO

«Qualcuno diceva che quando abbiamo smesso di credere nel soprannaturale siamo caduti nelle nevrosi.»

«È come stare in questo vagone per sempre

«Per fortuna abbiamo Machen.»

PROSSIMA FERMATA VITTORIO EMANUELE. USCITA LATO, DESTRO

«Io scendo alla prossima. È stato un piacere conoscerla.»

«Anche per me» e poi aggiungo, sorridendo: «Va alla Porta Magica

Mi guarda veloce da sotto gli occhiali con un sorriso sbieco nascosto dalla barba, si aprono le porte e poi mi dice: «Ci vediamo di là».

Scendo anche io.

[continua – Capitolo #02]

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di
Matteuccia Francisci

 

«Beeeee!» DLAN! DLAN! DLAN! «Beeeee!!!»

Ma che cazz… Alzo la mia stanca faccia dalle mie letture resistenti all’idiozia al suono di un… belato?

Oibò. Alla mia sinistra avanza una capra.

Ma che è, la pubblicità delle caramelle alle erbe? No, eh, io non voglio apparire in nessun video capitalista. Per quanto, se mi dessero qualche soldo mi farebbe comodo, ’sto periodo. In fondo, le caramelle alle erbe so’ bone.

E so’ pure socialiste, secondo me.

«Beeeee!!!» DLAN! DLAN! DLAN!

La capra ha un campanaccio attaccato al collo e pure un cartello. Si ferma proprio davanti a me. È bella, pure se puzza un po’ e le sue zampe non sono proprio pulite. Sul cartello ci sta scritto:

 

Un piccolo aiuto per le capre di Palmaria!

Hanno deciso di sgomberarci dall’isola perché saremmo nocive per l’habitat. Ma ci hanno portato loro, sull’isola. Rischiamo di morire se non troviamo un’altra sistemazione. 

Anche 20 centesimi ci aiutano.

 

La capra mi guarda dritto negli occhi e poi: «Beeeee!»

Uomo 1: «Ma che è ’sta puzza?»

Donna 1: «Aò, ma che è ’sta capra?!»

Donna 2: «Oddio ma che semo matti? Me fa pure paura, mo’ chiamo la polizia.»

Uomo 2: «Ma sarà ’na pubblicità, nun sanno più che inventasse, pora bestia.»

Donna 2: «Ma quale pora bestia! Chissà quante malattie porta, io chiamo i carabinieri.»

Guardo la capra che sta ancora ferma davanti a me e dico: «No, tranquilli, è un flash mob dell’ENPA» e sfodero la mia tesserina con la faccia del lupo sopra, n’altro che avemo reintrodotto e mo je sparamo.

Uomo 3: «De che? È robba tua? Guarda che io te denuncio, mica se ponno portà l’animali selvaggi in metropolitana.»

«Beeeeee!»

La capra fa due passi e quattro DLAN!

Uomo 2: «Ah, l’Ente Protezione Animali! E di cosa si tratta?”»

«Beeeee!»

La capra torna verso di me e mi fissa.

Donna 1: «Ao’, a me nun me ne frega gnente de che se tratta. Puzza, portatela via.»

Mi alzo in piedi nel mezzo del vagone a Re di Roma e dico: «Signore e signori, un attimo di attenzione per favore. Questo è un flash mob per le capre dell’Isola di Palmaria, di cui Clementina qui accanto a me è una rappresentante».

“Beeeeee!”

«Grazie Clementina. Le capre devono essere spostate dall’isola per preservarne l’habitat, ma per evitarne l’abbattimento stiamo chiedendo a tutti un piccolo contributo.»

DLAN! DLAN! La capra si avanza tra la folla.

«Ma che vòi, ma pòrtate ’sta cosa fori de qua». È un ragazzo col bomberino color ghiaccio e le scarpe brutte, e dà una manata sulla groppa della capra.

«Beeeeeeeeee!?»

Clementina si gira verso il bomberino con le sue corna ritorte e forti. Bomberino istintivamente si tira indietro, si vede che se la fa un po’ sotto, ma dice: «Aò, te la vòi portà via prima che la sgozzo?».

Faccio segno alla capra di lasciar perdere e mi avvicino alle porte di Vittorio Emanuele. Scendiamo insieme tra un DLAN! e l’altro.

«E manco oggi amo fatto ’na lira, eh?»

«Eh no, Clementì, manco oggi. Tocca proprio trovà un lavoro.»

«Annamo proprio beeeeene.»

 

 

 

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di
Leonardo Vigoni


Come al solito
, sali sull’autobus delle 7:35 e, come al solito, siedi al tuo posto (è uno dei quattro in fondo all’autobus, meglio se nel verso di marcia).

Poggi il piede destro tra i due sedili davanti a te e sfili l’iPod dalla tasca sinistra con la mano opposta.
Lo fai scivolare dall’alto sotto la maglietta tenendo le cuffiette ai lati del collo – ognuna nel verso giusto – e lo accendi. Come al solito, conti i quattro secondi e mezzo che impiega per accendersi, resetti il brano in esecuzione, alzi il volume di due, mandi in play come al solito dal tasto laterale, alzi nuovamente il volume – questa volta fino al massimo – e, come al solito, lo riponi nella stessa tasca con il jack rivolto a sinistra.

Come al solito, sistemi lo zaino davanti a te, cinghie allo schienale.

La lampo più grande è chiusa simmetricamente rispetto alle altre? Sì.
Le stringhe scendono dritte ai lati? Sì.

Lo hai posizionato esattame … Diavolo! Possibile che quel tipo al posto dietro l’autista con i capelli rasati e un neo a due terzi tra l’orecchio e l’asta destra dei suoi occhiali blu notte poggiati sulla testa non sia in grado di non ripetere io ogni otto parole (tredici quando il tono della voce è più basso)?! Dannazione, ti ha pure distratto.

E per non farti mancare nulla, una goccia di condensa è caduta dal sistema di areazione dritta sul tuo maglione marrone, creando una macchia più scura larga almeno cinque fibre. Considerando la forza con cui è caduta e risalendo alla sua probabile dimensione originaria, prevedi che si allarghi di almeno due fibre per lato.

Quell’uomo seduto al posto dei disabili che è salito tre fermate prima non si è nemmeno accorto che la sua cravatta ha una piega a sinistra del nodo. Deve essere un principiante; probabilmente è anche destrorso. Sì, le unghie della mano destra lo confermano. Sono tagliate in modo disgustoso.

Finalmente l’egoista ha interrotto la chiamata. Deve aver commesso qualcosa di grosso: non fa altro che sfregarsi la mano, ora.

E questa vecchia seduta davanti a te vicino al finestrino? Accidenti, capisco che non hai un’anima a farti compagnia e vuoi parlare “di tuo marito morto nella Battaglia di Vittorio Veneto il 26 ottobre durante i festeggiamenti per aver respinto gli invasori”. Peccato che tu soffra di demenza senile e sia fuggita da una casa di cura. Il braccialetto al tuo polso ne porta anche il nome. Ah, tanto per la cronaca: la battaglia è terminata il 4 novembre, dunque cercati un’altra storia.

E quei tre alle porte centrali? Andiamo, che urto i fidanzatini talmente innamorati da non rendersi conto di come la propria compagna sia invece innamorata di un altro – proprio del terzo della compagnia, a quanto pare… fratello di lui? In fondo lo spessore delle labbra è lo stesso e le sopracciglia sono uguali; entrambi, poi, hanno gli occhi azzurri chiazzati di rosso, sintomo di un albinismo oculare difficile da scambiare per coincidenza.

Dio… ancora dieci fermate! Questa mattina è un’agonia. Quella donna accanto alle porte se non chiude immediatamente quella borsetta che lascia intravedere quell’assorbente rosa, farà una brutta fine.

E quell’idiota dell’impiegatuccio annodatore-incapace che ha dimenticato il portafogli sul sedile?
Andiamo, Cristo, è troppo facile così! E quando è troppo facile non ti diverti, ma piuttosto cazzo ti imbestialisci!

Oh sì, se ti imbestialisci… e lo sai cosa succede quando accade, sì?!

Devono tutti ringraziarti, però… l’assassino-per-caso egoista che ha finalmente mostrato i calzini bianchi macchiati di sangue ancora fresco… la signorina adultera che tradisce il compagno addirittura con il fratello, il quale – mi dispiace, tesoro – è un omosessuale con tendenze suicide (i tagli sui polsi ti eccitano? Che pervertita!)… per non parlare di quella lì, che va al lavoro fingendo di avere il ciclo per salvarsi dalle ramanzine del capo! Ci vai già a letto, vero bellezza? O vuoi dirmi che quella cravatta nella borsa è tua?! La nonnina, poi, non la devi nemmeno considerare: dal colorito della sclera le puoi dare un’altra settimana prima che il tumore le mangi il cervello e cada in coma, se la fortuna è dalla sua parte.

Beh, almeno una ricompensa ce l’hai: è il portafogli dell’impiegatuccio. Ora ti alzi e lo prendi, così scopri dove abita. Ma guarda… il documento è di un altro! Divertente…

Facciamo così: appena torniamo a casa, io e te, e riprendiamo la pistola che da idiota hai lasciato all’ingresso, prenderò io il controllo e farò una visitina al fortunato che si è fatto derubare da qualcuno che con quelle mani farebbe meglio a farsi un nodo scorsoio attorno al collo con la cravatta …

Un caricatore sarebbe bastato, se l’avessimo avuta con noi fin dall’inizio?

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di
Matteuccia Francisci

 

Once Were Gods…

 

«Non mi piace prendere la metropolitana, non potevamo andare in qualche altro modo?»

«Tutte le volte la solita storia, Anselmo, lo sai che no, non potevamo.»

«Non mi piace prendere la metropolitana!»

Anselmo e Agata si guardano e poi tacciono. Agata ricomincia a guardare le immagini sul cellulare, Anselmo continua a sbuffare e muoversi a disagio sul sedile.

«Ho caldo.»

«Non è possibile, c’è l’aria condizionata, si sta benissimo.»

«Tu stai benissimo, io ho caldo.»

«Abbassa la voce, ti stai rendendo ridicolo.»

«Con chi? Lo sai che a nessuno importa niente degli altri.»

Intorno a loro, in effetti, nessuno sembra prestare la minima attenzione alla conversazione tra Anselmo e Agata, o al fatto che Anselmo si sieda e si alzi dal sedile in continuazione, come se scottasse. Sono tutti chini sugli schermi, proprio come facevano…

«Tutto questo spostarsi, poi, non lo capisco.»

«Si chiama mobilità, è una grande conquista.»

«Conquista di cosa? Siamo diventati come loro.»

«Per questo è una grande conquista.»

«Poveri voi. Io sono vecchio, non mi rimane molto, ho vissuto una vita libera e felice, una vita da dio…»

«Ancora con questa storia del dio? Ora siamo noi che comandiamo, Anselmo, non te ne rendi conto?»

«Sei tu che non ti rendi conto. Eravamo dèi e loro i nostri schiavi. C’eravamo noi su quelle cose diaboliche, erano loro a guardare le nostre foto, adesso è il contrario. Siamo diventati come loro, siamo degli schiavi.»

«Ma smettila Anselmo, stai vaneggiando, devo portarti di nuovo dal dottore per rivedere il dosaggio delle medicine. Rilassati, tra poco arriviamo. Guarda che carina questa foto che mi ha mandato Zia Giustina!»

Anselmo si rimette a sedere sul sedile e dà le spalle ad Agata. Comincia a leccarsi, piano. Prima una zampa, poi l’altra.

Accanto a lui un giovinetto sta guardando il video di un umano che dorme, sta commentando «Quanto è dolce!» e subito compaiono dei «mi piace» al suo commento.
Il giovinetto fa le fusa dal piacere.

«Eravamo dèi, ora siamo come loro» borbotta tra sé e sé Anselmo, mentre scende dal sedile dove ha appena pisciato.

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo IV

Credono di aver capito chissà cosa, di aver scoperto l’assassino o aver svelato un grande mistero, ma le telecamere di oggi vedono anche al buio. L’uomo della metro ha tentato di avvicinarsi alle ragazzine, voleva salvarle, tirarle via da un destino segnato, ma è rimasto intrappolato nella folla. Ha raccolto il cellulare da terra e lo ha consegnato al controllore. Soltanto questo.

Se non fosse per i corpi estratti da sotto il treno nessuno direbbe sia successo qualcosa in quei secondi. La fermata è di nuovo chiusa ma domani sarà riaperta, solo perché tenerla così vorrebbe dire bloccare la linea intera, infestare le strade con chissà quante altre macchine e paralizzare il mondo.

 

«Ao’… Scusa pe’ prima…», dice il controllore buono. «Io però gliel’ho detto subito che non c’entravi niente.»

«Grazie», risponde l’uomo della metro in piedi davanti a lui, rannicchiato nel suo cappotto.

«Però ’na cosa… Me dispiace, ma te ne devi anna’ comunque…»

L’uomo della metro non reagisce alla notizia, sembra non esserne capace. Riesce solo a sedersi nel suo angolo e guardare il muro della galleria davanti a sé, fissando il vuoto.

«Non ce posso fa’ niente. La gente s’è lamentata, e poi ce sta pure chi pensa che sei stato te.»

«Ma…»

«Che te devo dì? Già s’ammazzano da soli, ce manca pure che tipo te dànno foco pe’ vendicasse.»

Il controllore si china sulle ginocchia, cerca lo sguardo dell’uomo della metro, senza trovarlo.

«Stanotte puoi sta’, poi domani insomma… Ecco…»

«Va bene… Stanotte va bene.»

 

Il rumore dell’ultimo treno diretto al deposito arriva fino ai binari davanti all’uomo della metro. È notte, ma qualcosa nei suoi occhi sembra voler dire che non ci sarà più tempo per riposare o tentare di dormire. Beve un sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica spiegazzata, tira fuori dalla tasca del cappotto il pacchetto di sigarette e i fiammiferi. Ne sono rimasti pochi, rimbalzano uno sull’altro nella scatolina di carta. Prova ad accendere il primo ma, quando la scintilla diventa una fiamma, un soffio di vento freddo la spegne. L’uomo della metro cerca un’ombra nel buio della galleria, senza trovarla. Prova ad accendere il secondo, il terzo, ma i fiammiferi sembrano essere bagnati dalla luce che inizia a dissolversi, fino a sparire.

L’uomo della metro alza lo sguardo verso l’unico neon che balbetta segni di vita. Respira, beve l’ultimo sorso d’acqua e si alza. Non c’è altro da fare: deve entrare nella galleria.

 

Cammina, i passi rimbombano uno alla volta tra i muri e i binari. Si avvicina una mano agli occhi ma non vede nemmeno quella. Il tunnel dell’intera linea sembra essere al buio. Lo squittio di alcuni topi gli passa di fianco veloce, lasciandogli un brivido lungo il collo. Il vento freddo soffia leggero dietro di lui, lo invita a fermarsi o a scappare via da tutto, a dimenticare per sempre quello che è rimasto da vedere. L’uomo della metro cammina, non cede, continua a camminare senza mai fermarsi, fino a quando una luce si accende su una banchina in lontananza. La raggiunge, ma quello che trova non è che il suo angolo, lo stesso posto di tutti quegli anni, lo stesso spazio di sempre. È tornato dov’era, il buio lo ha riportato al punto di partenza. Non potrà mai scappare.

L’uomo della metro avanza, poggia una mano sul muro per risalire, ma qualcosa lo paralizza. Il sangue si gela. Da un lato c’è il buio appena attraversato, che ora sembra un luogo da rimpiangere, dall’altro due bambini, tornati in questo mondo solo per poco.

Respira profondo, prende coraggio e guarda…

[Continua…]

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo V

I due bambini sono fratelli, uno appena più grande dell’altro. Sembrerebbero gemelli se non fosse per qualche centimetro di differenza. Giocano con un pallone di carta a ridosso della linea gialla. Il più piccolo dei due provoca l’altro, lo sbeffeggia dimostrandogli che non lo potrà mai battere. L’altro sta al gioco, accetta la sconfitta ma il più piccolo insiste per giocare ancora. Continuano, ridono, mentre il treno in lontananza si avvicina percorrendo la galleria. I due bambini giocano, ognuno cerca di segnare all’altro in due porte immaginarie grandi come tutta la stazione. Il treno è sempre più vicino. Il bambino più grande segna, esulta, smentisce ogni pronostico e vince la partita, ma il fratellino non ci sta e corre verso di lui. Vuole una rivincita immediata, non è abituato a perdere. Il più grande si gira, non lo guarda, cammina esultando con le mani al cielo in equilibrio sulla linea gialla. E il più piccolo lo spinge, con tutte le forze. Per scherzare, per reagire, per dimostrare a sé stesso di non essere in grado di perdere. È un gioco da bambini, nient’altro.

Il più piccolo rimane in piedi, pietrificato di fronte al suo gesto, di fronte al corpo del fratello ora sparito fra il treno e i binari. Stavano giocando, non l’ha fatto apposta, deve essere stato qualcosa, un fantasma, non può averlo spinto lui.

 

L’uomo della metro osserva la scena dall’altro lato della banchina. Guarda il bambino paralizzato ed è come se tutto tornasse insieme, venendo fuori da quel buio. Vede sé stesso, trent’anni prima, nel momento che lo ha imprigionato per sempre, costringendolo a nascondersi, a rimanere fermo in quella colpa.

Ora invece è la luce a tornare, è già mattina, la fermata riapre, e di quella scena rimane traccia solo nei suoi ricordi ritrovati. Passano i primi treni, le persone salgono, scendono, nessuno sembra in pericolo. Del vento freddo nessuna traccia.

Basta uno sguardo del controllore buono a far capire all’uomo della metro che è arrivato il momento di andarsene e togliere il disturbo. L’uomo raduna le sue poche cose in uno straccio arrotolato, piega il cartone come fosse una tovaglia ricamata, si alza ma lascia tutto a terra. Cammina verso il controllore, senza più nulla. I neon sembrano accorgersi dei suoi primi passi. Le voci delle persone si rincorrono sulla banchina, sembra poterle sentire tutte, percepire ogni sguardo fin dentro la pelle. Credono sia lui ad aver spinto i ragazzini, ed è come se lo accusassero ancora, per sempre.

 

Il treno è a una fermata di distanza, la luce inizia a fare scherzi. Ed ecco anche il vento freddo a rigare gli occhi di tutti. Il controllore buono si avvicina, lo scorta tra la folla con una mano sulla spalla. L’uomo della metro sente che il momento è vicino, si guarda intorno cercando di capire chi sarà la prossima vittima. Vede qualcosa, un movimento sospetto di due ragazzini che rubano gli occhiali a un compagno più piccolo e iniziano a spintonarlo verso la linea gialla. Il treno è in arrivo. L’uomo della metro scosta la mano del controllore, corre verso di loro. Sembra essere in gara col treno a chi arriverà prima nel buio. Accelera, supera i due ragazzini e spinge via il più piccolo verso il muro, finendo lui al suo posto, senza potersi più guardare indietro.

 

È quasi mezzanotte, la stazione è pronta ad essere chiusa. L’ultimo treno si dirige al deposito, mentre i passi del controllore buono rimbombano tra i muri. Riguarda i filmati delle telecamere un’ultima volta. Rivede quel momento in cui l’uomo della metro si è staccato da lui e si è buttato sui binari salvando il piccoletto, che ci ha rimesso solo gli occhiali. Vorrebbe tornare indietro di qualche ora, qualche giorno al massimo e dare più peso alle sue parole, ma non sarà possibile. Meglio pensare che quelle storie sui fantasmi fossero solo i deliri di un pazzo vissuto per anni sottoterra. Meglio così.

Uno degli schermi mostra ancora la banchina in diretta. Il controllore nota lo straccio arrotolato e il cartone, rimasti lì a terra, nel solito angolo. Scende. Forse almeno le sue cose meritano una specie di sepoltura.

 

Il controllore raccoglie tutto ma una sigaretta cade a terra, rotola, e al balbettare di un neon si accende da sola. Il fumo viene aspirato via tutto in un attimo, sparendo nella galleria. Il sangue nelle vene si scuote in un brivido. Vorrebbe girarsi e sfidare lo sguardo del buio, ma non lo farà. L’uomo della metro aveva ragione. Lì non c’è nessuno, solo qualcosa che non si fa mai vedere.

 

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo III

È mattina presto, i cancelli della fermata cigolano e riaprono. La pioggia bagna le scale più di quanto dovrebbe. Ricomincia tutto, nessuno parlerà più di quel suicidio.

La banchina accoglie le prime persone, ma il treno non arriva, lo schermo elettronico non funziona. L’uomo della metro dorme ancora, si sveglia solo quando la ressa diventa quella dei giorni peggiori. È finito lo spazio anche per girarsi, risalire e tornare a casa. Del treno nessuna traccia, mentre le persone si moltiplicano. La sigaretta consumata è ancora lì, accanto al cartone, come a testimoniargli che quello che è successo non può essere ignorato. L’uomo della metro si fa piccolo nel suo angolo, si guarda intorno. Cerca quell’ombra della notte prima, ma non c’è nessuno, soltanto centinaia di sconosciuti in attesa di iniziare la giornata.

L’orologio segna quasi le otto. Lo sguardo cade allora su un gruppo di ragazzini diretti a scuola. Ridono, scherzano, due classi intere pronte ad andare chissà dove a perdere una mattinata. Lo zoo, il planetario, un museo pieno di sassi di un’altra epoca. Li osserva per capire se sia tra loro la prossima vittima, e il vento freddo soffia di nuovo. Sì, succederà ancora. Lo sa, i neon prossimi a spegnersi gli dicono tutto, ma quello che non ha capito è che oggi sarà peggio di ieri e domani peggio ancora.

 

Il controllore buono scende ad annunciare che il treno è in arrivo. Il vociare si dissolve in un sospiro di sollievo. L’uomo della metro lo guarda facendogli cenno di avvicinarsi. Il controllore lo raggiunge, svicolandosi tra le persone.

«Dormito bene, sì?»

«Fermate il treno.»

«Eh?»

«Fermate il treno.»

 

Dall’altro lato della banchina due ragazzine si tengono per mano accanto a una professoressa appena più alta di loro. Si scattano una foto con il cellulare, inchiodano quel momento sugli schermi di chi potrà solo ricordarle. Non importa di che colore abbiano gli occhi o i capelli, come passano i pomeriggi o cosa vorrebbero fare tra qualche anno. Non importa più, non è mai importato. Il treno è vicino, il macchinista è un altro, ma non cambierà nulla.

Le due ragazzine si guardano, poggiano la testa l’una sull’altra, ancora assonnate. Lasciano la professoressa indietro di qualche centimetro, poi di qualche passo. Il treno sbuca dalla galleria. Si muovono tutti verso la linea gialla, hanno aspettato troppo per non salire adesso. C’è chi spintona fingendo di essere spinto, chi guadagna spazio un millimetro alla volta. Il controllore lascia l’uomo della metro seduto, a ripetere di fermare il treno, e prova a calmare le persone. La luce si spegne, il treno si avvicina. Il controllore urla di stare calmi, le corse sono riprese, ne arriveranno altri, ma nessuno sembra capire. È il buio a cambiarli, a isolarli da qualsiasi altra cosa, a muovere tutti verso i binari. È il vento freddo a rendere ogni passo più pesante, impossibile da fermare.

L’uomo della metro vede qualcosa in mezzo alla folla. Qualcosa che si sposta senza lasciare traccia, senza farsi mai vedere. Si alza, prova a raggiungerlo, ma non c’è più tempo. Il vento freddo spinge le due ragazzine sui binari. Sembra sia stata la ressa, o che siano cadute da sole, saltate giù anche loro. Si guardano quasi senza sapere dove siano finite. La loro foto sul cellulare illumina il soffitto in cerca d’aiuto, dalla banchina. La gente non vede, il buio riempie gli occhi di tutti, nessuno può capire. Ogni urlo rimane soffocato, le ragazzine si abbracciano. Il treno frena, ma è troppo tardi.

 

La luce si riaccende. Nessuno sa cosa sia successo, sono solo sparite, scomparse. Il controllore buono si fa largo tra la folla, si avvicina ai binari, chiama i soccorsi, ma sarà inutile anche questo. Si gira verso l’uomo della metro, convinto di trovarlo nel suo angolo, ma sul vecchio cartone non c’è nessuno. È lì dietro, a pochi passi da lui, in mezzo al fiume di persone che lentamente si dissolve in preda al panico verso le scale d’uscita. Non sembra sapere neanche lui il perché del suo essere lì. Trema, stringe qualcosa fra le mani. Abbassa lo sguardo all’avvicinarsi del controllore.

«Che c’hai in mano?»

L’uomo della metro non risponde, svelando il cellulare delle ragazzine tra le dita.

[Continua…]

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di
Gualtiero Titta

 

Capitolo II

Non sempre basta guardare per poter vedere, se ne accorgeranno presto.

Il corpo del ragazzino è sulla banchina, coperto da un telo troppo grande per lui. Una fibbia dello zaino sbuca appena da un lato, quasi volesse staccarsi e provare a ricominciare per conto suo. I treni continuano a scorrere sui binari dietro di lui, ignorano la fermata chiusa e vanno avanti; il corpo viene portato fuori dalla polizia, di nuovo su. Lo aspetta una donna che non fa che piangere e riempirsi di dubbi. Dovrà conviverci, per lei è uno di quei giorni che tracciano una linea tra il prima e il dopo. Chissà come farà, si chiedono tutti i curiosi lì intorno. Chissà come farà.

 

Il gabbiotto della sorveglianza è solo un quadrato pieno di schermi, non è certo qui che si scoprirà qualcosa. I controllori studiano i filmati delle telecamere, continuano a guardare la stessa scena, avanti e indietro, cercando una spiegazione diversa a quello che è successo.

«S’è buttato…»

«Secondo me nun se ne è accorto… C’aveva ’e cuffiette.»

«Magari s’è distratto…»

«Ma te pare… Non è er primo, eh…»

«Guarda che stanno fori de testa… Dice pure che ce sta ’n gioco su internet…»

«Ma falla finita… ma te pare.»

Continuerebbero per ore, scambiandosi ruoli e battute, confondendosi l’uno con l’altro. La fermata riaprirà domani, c’è poco da fare nascosti sotto terra. Indagano a modo loro su quello che non possono capire, tirando dentro ipotesi e smentendosi da soli per paura di avere ragione. Scendono anche i poliziotti, li interrompono, serve una copia dei filmati per l’indagine in centrale.

«Lei ci segua…», dicono al macchinista che si guarda intorno come cercando qualche alleato per una fuga da improvvisare. Ma di alleati c’è poco bisogno. Gli schermi e le facce di tutti lasciano pensare la stessa cosa: è una formalità, una pratica da compilare. Il ragazzino si è buttato, non è colpa di nessuno, c’è poco da aggiungere. Si può tornare a casa.

 

«L’ha spinto.»

La voce dell’uomo della metro emerge dalle scale della banchina.

«E te ancora non te ne sei annato?», dice il controllore che lo ignora sempre, «… vedi de ringraziacce che non t’avemo fatto arresta’».

«E dài… Lascialo perde’», risponde quello che lo ha preso in simpatia.

L’uomo della metro però non chiede un po’ d’umanità, vuole qualcosa di più: vuole essere ascoltato.

«C’era il fantasma. L’ha spinto lui», dice guardandoli negli occhi uno alla volta.

«Ao’… vedi de finilla. È morto un ragazzino: ce sta poco da gioca’.»

«Basta cazzate… Vattene a dormi’.»

E qui sono d’accordo tutti.

Ma l’uomo della metro insiste, anche mentre i controllori se ne vanno. Ormai sussurra. Guarda i tre uomini allontanarsi verso l’uscita. Parla da solo.

«Vive nella galleria… È tornato.»

La frase si dissolve a terra tra gli ultimi passi di una giornata da dimenticare. I tre lo guardano come per dirgli di tornarsene al suo posto e non chiedere altro. Domani ricomincia tutto, a lui è concesso il suo angolo, c’è chi non ha più nemmeno quello.

 

L’orologio sul muro segna le due di notte, ma l’uomo della metro non riesce a prendere sonno. L’angolo è sempre lo stesso, il cappotto e il cartone lo avvolgono quasi come un letto vero, ma c’è qualcosa che non lo lascia dormire. La galleria. Non riesce più a guardarla da quando ne ha parlato a voce alta. È quel buio lì in fondo che lo tiene sveglio, sembra avere un peso, una forma, sembra possa avvicinarsi e nasconderlo per sempre, portarlo via. L’uomo della metro si gira faccia al muro, non vuole più pensare al ragazzino, a quel momento, a cosa ha visto, a cosa è nascosto in quel buio.

 

Fa freddo qui sotto, sempre più freddo. Il fiato caldo sulle mani non basta più, e l’uomo si rannicchia, cerca qualcosa. Una scatola di fiammiferi, un pacchetto di sigarette. Gliene sono rimaste poche, regalate da uno sconosciuto che quel giorno aveva deciso di smettere. Ne accende una, aspira due, tre volte. Tossisce, non è più abituato. La posa a terra, ancora a metà.
Il fumo leggero gli passa intorno al viso e lui si rannicchia di nuovo, pronto a dormire. Chiude gli occhi. L’unico neon acceso a quest’ora balbetta di nuovo, una folata di vento percorre tutta la galleria, quasi intonando una nota, consumando una frequenza. L’uomo della metro riapre gli occhi, sa che è arrivato il momento di guardare. La sigaretta si consuma in un attimo, tirata via dal soffio freddo che sembra correre e sparire lontano, dove la luce non entra mai.

Chi ha spinto il ragazzino si nasconde lì dentro [continua…]