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di Luca Cassarini

illustrazione di Anastasia Coppola

“Per quanto il mondo possa sembrarti assurdo, non dimenticare mai che offri un bel contributo a questa assurdità                                con il tuo agire o con il tuo astenerti.”

(Arthur Schnitzler, “Libro dei motti e degli aforismi”)

«Biglietto, prego».

Il controllore Antonio Prevosti era sempre lo stesso, da anni.
Decano dell’azienda municipale di trasporti in quella piccola cittadina di frontiera, assieme a cappellino e divisa d’ordinanza indossava sempre un leggero profumo a buon prezzo.
In quel momento attendeva che uno dei pochi passeggeri della corsa delle 10 e 23 esibisse il proprio titolo di viaggio. Teneva chino lo sguardo sotto una montatura di occhiali alla moda, dando ogni tanto leggeri colpi di tosse.
Abile nel suo mestiere, riconosceva a prima vista biglietti scaduti o tarocchi, ed aveva fiuto per quelli usati più del dovuto.
Non sembrava questo il caso, fortunatamente.

«Ecco a lei», annunciò il passeggero dopo una ricerca parsa infinita.
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Il viaggiatore, uomo sulla cinquantina, barba rada a coprirgli il viso, tornò a sprofondare nel seggiolino della corriera. Sapeva che il viaggio non sarebbe stato troppo breve, ma erano passati anni, se non decenni, dall’ultima volta che si era prestato ad un’esperienza del genere. Solitamente andava in macchina, tuttavia per un malaugurato incastro del destino la vettura era dal meccanico e lui aveva un appuntamento inevitabile, sicché aveva scrutato con rassegnazione l’orario dei mezzi pubblici che collegavano le sua città con la destinazione voluta.
Bestemmiando leggermente, aveva visto che ne passava uno ogni ora e mezza, per cui si era ulteriormente rassegnato a prendere il primo disponibile per poi aspettare, una volta giunto nella città di K., il tempo dovuto.
Un bar o una panchina della piazza non avrebbero fatto troppa differenza.
In fondo, era un tipo paziente.
Lo dicevano tutti quanti, ed era vero.
Con la sua stoica pazienza si sistemò dunque sul sedile, ed iniziò presto a sonnecchiare.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che di nome faceva sempre Antonio Prevosti, lo destò dal suo torpore.
Erano già arrivati? L’uomo sulla cinquantina, ma potevano essere anche poco più di quarantacinque, in quelle fasce d’età indefinite dove sfumano le differenze nette, guardò dapprima fuori, quindi verso il proprietario di quella voce. Per un attimo pensò di aver cambiato linea alla fermata immaginaria dei suoi sogni. Notò con sospetto che era lo stesso di prima, e si chiese come mai tornasse a chiedergli la medesima cosa. Forse se n’era dimenticato, oppure era la prassi dell’azienda. Per certi aspetti avrebbe voluto protestare, ma la richiesta era tutto sommato legittima e garbata, e contro la legge sempre meglio non avere grane.
Mai, e di nessun tipo.
Sbuffando leggermente, tirò fuori il suo biglietto.

«Ecco a lei».
«…Grazie».
«A lei».
«Buon proseguimento di viaggio».
«Hmm-hmm».

Cercò di cogliere punti di riferimento per capire quanto potesse mancare  all’arrivo, ma la strada era abbastanza omogenea nel suo imperterrito scorrere, i cartelli sfrecciavano troppo in fretta perché potesse leggerli bene, forse si sarebbero fermati da qualche parte e avrebbe potuto fare mente locale.
Era certo che sarebbero arrivati a breve, questioni di decine di minuti, al più.
Iniziò a guardare fuori dal finestrino cercando di cogliere qualcosa di interessante al suo sguardo, e che lo aiutasse a passare il tempo.
Tanto valeva arrangiarsi con quel che offriva il convento.
Ovvero, un paesaggio che scorreva sempre uguale a se stesso.
Rimase presto ipnotizzato dal viaggio.

«Biglietto, prego».

Il controllore, che si chiamava ancora Antonio Prevosti, d’altronde c’era solo lui a compiere quella noiosa incombenza sulla tratta, stavolta lo prese veramente alla sprovvista. In effetti, si era incantato nel loop del viaggio.
Il rollio delle ruote sull’asfalto era sottofondo costante e, per certi aspetti, soporifero.
L’uomo, che poteva anche avere un’età quasi prossima alla pensione, stemperò la tensione in corpo con una dose d’ironia, canticchiandosi in testa: “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più…?”.
Quanto tempo era trascorso? Mezz’ora, un’ora? A breve sarebbero pur dovuti giungere a destinazione, no?

Si azzardò a dire: «Scusi, ma…».
«Biglietto. Prego», ripetè il controllore, con la pazienza di chi ne aveva viste tante. Abbastanza nervoso, l’uomo glielo porse mezzo sgualcito e spiegazzato.
«A lei».
Il controllore impiegò un tempo infinito nello scrutarlo adeguatamente, su ambo i lati, onde evitare brutte sorprese. I cosiddetti portoghesi erano una costante nel tempo e nello spazio, leggende tramandate da generazioni di controllori.
«Grazie», disse infine allo stralunato passeggero, con un reiterato cenno professionale.
«…»
«Buon proseguimento di viaggio».
«…»

Non ci stava capendo più nulla.
Presto sarebbero arrivati a destinazione, ne era certo.
Gli pareva che il sole fosse stabile lassù in cielo, ma le giornate sembravano avere una durata immensa, d’estate.
E la strada somigliava ad una striscia di asfalto senza fine, dilatata dallo spazio e dal tempo.
Ad un certo punto sentì distintamente uno strambo rumore.
Si guardò veloce attorno, sulla corriera era rimasto solo lui.
Ignorava dove potessero esser scesi tutti gli altri, era sicuro non fosse stato l’unico passeggero a salire su quel mezzo, chissà quanto tempo prima, chissà dove.
Stava perdendo ogni riferimento spazio-temporale, in quell’andirivieni costante ed assurdo.

Antonio Prevosti, il medesimo controllore di poc’anzi, e prima, e prima ancora, sgusciò tutt’un tratto in mezzo al corridoio dell’autobus.
La sua faccia era ermetica come quelle dei tutori dell’ordine.

«Biglietto, prego» chiese puntiglioso, scandendo bene le parole.
Il passeggero, di un’età indefinita e abbastanza stravolto, per poco non si mise a piangere, o gridare.

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di Mariangela Romanisio

illustrazione di Anastasia Coppola

Sono il sessantatré, faccio sempre lo stesso percorso, guidato dal solito autista che non mi strapazza troppo e mi dà quello che mi serve per andare avanti. Però mi annoierei, se non fosse per la varia umanità che mi usa e mi calpesta quotidianamente, o mi verga i sedili con scritte ironiche, tipo: “Quanta fretta, ma dove corri, dove vai?…” o con altre non dirette a me.

Sì, sono guidato, ma il lavoro più pesante lo svolgo io, a piano carico.

Non sono mai stato un autobus con la spocchia, io ricevo tutti quelli che vogliono salire, agevolando (sono predisposto) anche gli invalidi e i portatori di handicap, ma certi personaggi mi stanno sulle sospensioni più di altri.

Come quel giovinastro, oggi, che mi guardava in lungo e in largo col labbro schifato e il naso arricciato, di certo pensando di stare su un mezzo inadeguato a trasportare la sua persona. Mentre era lui ad umiliare me, un autobus militante dalla gran carriera, dal motore rodato, che ha trasportato centinaia, ma che dico centinaia, migliaia di persone in salvo da un capo all’altra della città, e spesso a sbafo. Non sono io a puzzare di mio, è gente come lui che mi fa puzzare!

Lui, col suo collo da giraffa bonsai, un cappello con un residuo filamentoso di nastro argentato da uovo di Pasqua, l’aria da borioso tracotante, il tipo di passeggero che non si fa da parte quando chiunque altro si accorgerebbe di dover lasciare un corridoio sulla piattaforma per l’altrui discesa.
Lui, il tipo di passeggero che si fionda sull’unico posto libero, senza fare circolare lo sguardo in cerca di un anziano, una donna incinta, cui il sedile spetterebbe per consuetudine civile.

Sono stato contento per lo strattone datogli da quell’altro nell’occasione di una fermata affollata, proprio mentre l’autista (che combinazione efficace) mi frenava di colpo, così all’arrogante gli si è staccato anche un bottone del soprabito. Ben gli stava!
Come il mio gas di scappamento addosso, quando è sceso, mentre mi girava dietro per attraversare la strada.

Mi piace percorrere il Viale dei tigli, con le fronde che mi accarezzano le fiancate, è una gradevole sensazione.

Lì l’ho rivisto, stasera, nei pressi di un bar, quel collo da giraffa bonsai col gozzo in evidenza, mentre stava con un altro che lo fissava con uno sguardo obliquo, lui e il suo soprabito stazzonato e strattonato, blaterando di sicuro per recriminazioni del suo quotidiano rapportarsi al prossimo.

È capitato a proposito centrare in velocità con una gomma la pozzanghera che gli ha schizzato una scarpa: quello ha emesso un verso sguaiato e mi ha gridato dietro, anche se non mi ha riconosciuto.

So di essere meglio di lui:  c’è più vento di boria in lui che aria nelle mie gomme, di sicuro, che non sono a terra.
Io sono un mezzo di trasporto al servizio altrui, lui è un mezzo uomo che serve solo al trasporto della sua vana tracotanza fra l’altrui deprecazione.

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di
Leonardo Vigoni


Come al solito
, sali sull’autobus delle 7:35 e, come al solito, siedi al tuo posto (è uno dei quattro in fondo all’autobus, meglio se nel verso di marcia).

Poggi il piede destro tra i due sedili davanti a te e sfili l’iPod dalla tasca sinistra con la mano opposta.
Lo fai scivolare dall’alto sotto la maglietta tenendo le cuffiette ai lati del collo – ognuna nel verso giusto – e lo accendi. Come al solito, conti i quattro secondi e mezzo che impiega per accendersi, resetti il brano in esecuzione, alzi il volume di due, mandi in play come al solito dal tasto laterale, alzi nuovamente il volume – questa volta fino al massimo – e, come al solito, lo riponi nella stessa tasca con il jack rivolto a sinistra.

Come al solito, sistemi lo zaino davanti a te, cinghie allo schienale.

La lampo più grande è chiusa simmetricamente rispetto alle altre? Sì.
Le stringhe scendono dritte ai lati? Sì.

Lo hai posizionato esattame … Diavolo! Possibile che quel tipo al posto dietro l’autista con i capelli rasati e un neo a due terzi tra l’orecchio e l’asta destra dei suoi occhiali blu notte poggiati sulla testa non sia in grado di non ripetere io ogni otto parole (tredici quando il tono della voce è più basso)?! Dannazione, ti ha pure distratto.

E per non farti mancare nulla, una goccia di condensa è caduta dal sistema di areazione dritta sul tuo maglione marrone, creando una macchia più scura larga almeno cinque fibre. Considerando la forza con cui è caduta e risalendo alla sua probabile dimensione originaria, prevedi che si allarghi di almeno due fibre per lato.

Quell’uomo seduto al posto dei disabili che è salito tre fermate prima non si è nemmeno accorto che la sua cravatta ha una piega a sinistra del nodo. Deve essere un principiante; probabilmente è anche destrorso. Sì, le unghie della mano destra lo confermano. Sono tagliate in modo disgustoso.

Finalmente l’egoista ha interrotto la chiamata. Deve aver commesso qualcosa di grosso: non fa altro che sfregarsi la mano, ora.

E questa vecchia seduta davanti a te vicino al finestrino? Accidenti, capisco che non hai un’anima a farti compagnia e vuoi parlare “di tuo marito morto nella Battaglia di Vittorio Veneto il 26 ottobre durante i festeggiamenti per aver respinto gli invasori”. Peccato che tu soffra di demenza senile e sia fuggita da una casa di cura. Il braccialetto al tuo polso ne porta anche il nome. Ah, tanto per la cronaca: la battaglia è terminata il 4 novembre, dunque cercati un’altra storia.

E quei tre alle porte centrali? Andiamo, che urto i fidanzatini talmente innamorati da non rendersi conto di come la propria compagna sia invece innamorata di un altro – proprio del terzo della compagnia, a quanto pare… fratello di lui? In fondo lo spessore delle labbra è lo stesso e le sopracciglia sono uguali; entrambi, poi, hanno gli occhi azzurri chiazzati di rosso, sintomo di un albinismo oculare difficile da scambiare per coincidenza.

Dio… ancora dieci fermate! Questa mattina è un’agonia. Quella donna accanto alle porte se non chiude immediatamente quella borsetta che lascia intravedere quell’assorbente rosa, farà una brutta fine.

E quell’idiota dell’impiegatuccio annodatore-incapace che ha dimenticato il portafogli sul sedile?
Andiamo, Cristo, è troppo facile così! E quando è troppo facile non ti diverti, ma piuttosto cazzo ti imbestialisci!

Oh sì, se ti imbestialisci… e lo sai cosa succede quando accade, sì?!

Devono tutti ringraziarti, però… l’assassino-per-caso egoista che ha finalmente mostrato i calzini bianchi macchiati di sangue ancora fresco… la signorina adultera che tradisce il compagno addirittura con il fratello, il quale – mi dispiace, tesoro – è un omosessuale con tendenze suicide (i tagli sui polsi ti eccitano? Che pervertita!)… per non parlare di quella lì, che va al lavoro fingendo di avere il ciclo per salvarsi dalle ramanzine del capo! Ci vai già a letto, vero bellezza? O vuoi dirmi che quella cravatta nella borsa è tua?! La nonnina, poi, non la devi nemmeno considerare: dal colorito della sclera le puoi dare un’altra settimana prima che il tumore le mangi il cervello e cada in coma, se la fortuna è dalla sua parte.

Beh, almeno una ricompensa ce l’hai: è il portafogli dell’impiegatuccio. Ora ti alzi e lo prendi, così scopri dove abita. Ma guarda… il documento è di un altro! Divertente…

Facciamo così: appena torniamo a casa, io e te, e riprendiamo la pistola che da idiota hai lasciato all’ingresso, prenderò io il controllo e farò una visitina al fortunato che si è fatto derubare da qualcuno che con quelle mani farebbe meglio a farsi un nodo scorsoio attorno al collo con la cravatta …

Un caricatore sarebbe bastato, se l’avessimo avuta con noi fin dall’inizio?

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di
Arundo Donald

 

Capitolo settimo. Voglio andare alle Canarie

 

Le fresie erano veramente freschissime ed emanavano un profumo pungente. Tiziano infilò il naso dritto nel mazzo e fece una bella sniffata, lasciando che l’aroma lo pervadesse inebetendolo. Ogni fibra del suo corpo si contorse rabbrividendo e il cervello gli si sciolse nel cranio colando giù fino ai piedi.

Aveva indosso dei grandi occhiali neri marca VIP che usava per nascondersi e passare inosservato. Al collo portava il suo foulard arancio selvatico preferito, con sopra ricamati i pappagallini colorati. Era alla fermata e aspettava.  Il cornetto al lampone era stato ottimo ma ora si sentiva gonfio e costipato. La pancia premeva contro i pantaloni e una fitta gli opprimeva le budella. Si guardò intorno. Poi scorreggiò.

L’aria circostante la fermata divenne rarefatta per un raggio di due metri. Pareva via di Malagrotta nel mese di luglio. Provò a trattenersi, ma quella fu solo la punta di un iceberg.

 

A bordo del 60 express la situazione procedeva timidamente. Sembrava quasi che prede e predatori si studiassero a vicenda. Se in fondo all’autobus Nando escogitava il modo per ottimizzare l’offensiva, tra le file centrali Satif cercava il posto migliore dove posizionarsi. Il Pomata era distrutto e aveva abbandonato la fronte contro un finestrino. Ida si chiedeva se Franci avrebbe mai fatto in tempo per la colazione.

Viky lentamente spostò il braccio allontanandolo dal fianco e, con dolcezza e disinvoltura hollywoodiane, afferrò delicatamente la mano di Andre. Il cuore le pulsava a mille e non stava respirando. Quando anche lui, lentamente, ricambiò il gesto serrando la mano, finalmente ricominciò a prendere aria. I due non si guardarono né si parlarono.

L’autobus rallentò, emettendo il rantolo affaticato dei freni esausti. Si fermò accucciandosi leggermente dal lato delle porte e sbuffando aria si concesse a Franci. Masticando l’ultimo pezzo di mela, il ragazzo salì dal retro. Con grande borghesia, gettò fuori il torsolo finito e si pulì le mani sui calzoni. Poi le porte si richiusero, ingoiandolo.

Lasciatevi alle spalle ogni pensiero, non fate cose azzardate, ma fate la cosa giusta. Volate alle Canarie!

I neuroni di Conan erano partiti. Nel senso che per la prima volta sentiva di aver avuto un’intuizione, di aver capito le cose. Forse solo… di avere dei neuroni! Non poteva morire senza aver mai volato; visto altri paesi; essere andato a letto con un’erasmus sbronza sopra un pedalò. Insomma, non poteva finire così.

«Io mollo» disse timidamente agli altri.

Ma Andre e Viky neanche lo sentirono. Stavano avendo un dialogo bellissimo, una discussione intensa senza parole, solo attraverso quella stretta di mano.
La mano di Andre stava dicendo: «Sì, è vero che ti ho sempre definito stronza e probabilmente perché lo sei, però quando ti vedo tutto va meglio. Il sangue è più fluido, la vista migliora, perfino il mondo sembra non essere poi solo una grande cacca cosparsa di vegetazione».

E la mano di Viky rispondeva: «Ma lo so, sciocchino, ricordati che tu fai quello che dico io, perché sei l’uomo e quindi l’essere inferiore. Comunque mi piaci da morire e poi quello che hai detto tu però sempre un po’ di più».

«Io mollo! Ma mi state ascoltando? … Ehi? Ho detto che mollo!! Stop; fine; caput!!!»

Andre fece per ribattere alle parole di Conan, ma improvvisamente fu distratto dalle grida delle persone nell’autobus.

«Avete visto? È lui… è Tizianone Farro!!!»

«Guardate… sta per salire alla fermata!»

L’autobus aveva raggiunto la fermata successiva. Quando le porte si aprirono, da quella anteriore comparve un’accozzata di colori con sopra la testa di Tiziano Farro e un leggerissimo lezzo di cavoli cotti si percepì nell’aria.

Conan afferrò Andre dalla maglietta e lo portò vicino.

«Non possiamo farlo oggi… non oggi, cazzo!»

«Smettila!!!» ribatté Andre, stringendo in una mano la stringa dello zaino e liberandosi con l’altra dalla stretta dell’amico.

La gente continuava ad animarsi vistosamente.

«È lui, è lui, ne sono sicura!»

«Ma dici?!?!»

«Sì, sì, al cento per cento!»

Le grida poi esplosero letteralmente, diventando fortissime. C’era perfino qualcuno che sbatteva i pugni ai finestrini. Andre si chiese come fosse possibile. Neanche al concerto dei Guns a Bilbao aveva visto scene del genere. Le grida aumentarono copiosamente: «Aiuto, aiuto!!» Andre non ci voleva credere. Poi un ruggito grottesco ammutolì per un istante il marasma generale: «Dove sei?!? Dov’è il sudicio maiale maledetto?!?!»

Nando imbracciava minaccioso il fucile. Aveva fatto la sua mossa.

Tutti ripresero subito a strillare più forte, così che nell’autobus non si riusciva neanche a sentire i propri pensieri. Era l’Inferno dantesco rappresentato in un unico girone. Era l’inizio del caos.

 

Nonostante il mezzo fosse già teatro di guerra, quel giardino delle delizie metropolitano avrebbe presto visto un ultimo atto; un finale eclatante e imprevedibile, partorito da personaggi senza vergogna e disposti a tutto pur di completare il loro percorso.

Viky si strinse ad Andre con tutta la forza. Conan, in trance, ripeteva di voler andare alle Canarie. Come se chiamato in causa, Tiziano fece un peto eclatante, talmente colossale che tutti nell’autobus cominciarono a tossire. Il terrore lo aveva contratto a tal punto che un vulcano d’aria tossica era fuoriuscito dal suo corpo, liberandolo.

 

L’atmosfera ora era mefitica e l’autobus un pandemonio. Sembrava un pianeta lontano. Forse il Pianeta ATAC.

L’autista accelerò, puntando Porta Pia.

[continua – Vai al finale epico! – capitolo #08]

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di
Arundo Donald

 

Capitolo sesto. Tutti presenti

 

Spiando i nostri personaggi con Google Maps, ora li vedremmo convergere verso la via Nomentana. Anzi, li troveremmo già lì.

Chi a una fermata, chi passeggiando, chi perfino imbracciando un fucile. Tutti accomunati da un univoco quanto ambiguo destino.

Satif aveva raggiunto la fermata. Era stanchissimo.

Aveva camminato, comprato la benzina, camminato ancora, riempito la tanica, attaccato l’innesco, sempre camminato, comprato i biglietti dell’autobus, ricamminato un pochino e finalmente era giunto a destinazione. Andre era sfinito.

La Nomentana era splendente, in una forma ottimale. Gli immensi platani verdi la facevano da padrone, mascherando leggermente l’intensa attività antropica.

Mentre una schiera di taxi bianchi intasava le corsie preferenziali, infiniti motorini si alternavano ammucchiati, come stormi che si proteggono dai predatori.

Andre si accese gli ultimi due tiri di canna e si appoggiò al bordo della fermata. Viky lo fissava sconsolata. In cielo, un grande Airbus A380 passò basso puntando Fiumicino. Era così vicino che quasi si potevano leggere le scritte e i quattro enormi motori sovrastavano il rumore delle macchine.

«Hai visto che bestia?» disse Andre rivolgendosi a Conan.

«Se non avessimo la nostra missione… mi piacerebbe volarci dentro, a uno di quei cosi» ribatté Conan, fissando la densa scia grigia che ancora si intravedeva nel cielo. Andre neanche rispose, abbassò lo sguardo e aprì Smezziamo sul telefonino. Non c’erano nuovi racconti. Intanto, diversi metri più a sud, Tiziano Farro canticchiava il suo capolavoro stando seduto alla fermata.

 

Le tue parole sono la mia malattia,

La mia fortuna che sei andata via,

Amore rosso fatti spazio tra la folla,

Devo addestrare i miei anticorpi per la guerra…

 

Quel testo gli sembrava una vera esplosione di emozioni. Lo aveva scritto in due battute separate. L’ispirazione e la prima bozza erano state partorite durante la pulizia dei denti del giovedì pomeriggio. A un certo punto, si era alzato di scatto e si era messo a scrivere le parole sul bavaglino per gli schizzi di placca che gli aveva messo l’igienista. Mentre il resto della canzone lo aveva completato durante un viaggio a Spoleto, organizzato per un’avventura selvaggia e spericolata, al TOP come non mai.

 

Intanto Nando aveva perso la brocca. Ormai nel loop da marcia su Roma, aveva abbandonato l’idea di impallinare il Pomata dalla distanza. Lo avrebbe invece affrontato in un corpo a corpo, raggiungendolo alla fermata e costringendolo ad arrendersi. Si era infilato in una camicia scura con diversi stemmi sulle tasche e, col fucile sotto braccio, aspettava l’ascensore fischiettando pezzi nostalgici. La vecchietta dell’appartamento accanto aprì la porta.

«Ma che, so’ tornati i tedeschi?!?» chiese con un filo di voce.

Era Franca, la vecchia dirimpettaia che a malapena si reggeva in piedi. «No, no, stia tranquilla. Entri in casa e ci resti!» sbottò Nando entrando in ascensore. Nando la chiamava “la mummia”. Ogni volta che usciva o tornava a casa, lei apriva la porta per spiarlo. Per un attimo pensò di spararle.

 

Le tue parole sono la mia malattia,

La mia fortuna che sei andata via,

Amore amaro fammi ridere al mattino,

C’è un anticorpo per sottrarsi al mio destino…

 

Quando Nando sbucò dal portone, un 60 express procedeva svelto verso il Pomata.

La fermata era dalla parte opposta della strada e per raggiungerla, in sostanza, avrebbe dovuto volare. Da vero guerriero e senza pensarci troppo, si lanciò in strada in una corsa omicida fuori le strisce pedonali. Una macchina che passava tirò un’inchiodata colossale e l’automobilista lo maledisse dal finestrino. Nando, col cervello ormai fritto dall’adrenalina, imbracciò il fucile e lo puntò sul guidatore. «All’armi… All’armi!!». Correndo ancora più in fretta saltò al volo sull’autobus, non perdendolo per un pelo.

 

Sullo stesso autobus era salita anche Ida.

Il 60 era affollato. Ida si era seduta nel posto singolo alle spalle del conducente, mentre il Pomata, in piedi di fronte alle porte centrali, si grattava il culo con il pollice. Nando era appoggiato in fondo. Aveva nascosto il fucile tra il corpo e la parete dell’autobus, mentre con lo sguardo mentecatto, scrutava fisso il suo obbiettivo.

Alla fermata successiva salì Satif. La missione ora aveva raggiunto il punto del non ritorno. Andre posò lo zaino a terra e finalmente poté sgranchirsi la schiena. Viky si strinse stranamente a lui. Trovò che avesse un odore buonissimo. Gli ricordava il gelsomino.

Conan fissava un cartellino pubblicitario appeso ai sostegni per le mani. Il testo diceva: lasciatevi alle spalle ogni pensiero, non fate cose azzardate, ma fate la cosa giusta. Volate alle Canarie! Sotto l’immagine di un gruppo di surfisti in spiaggia sorridenti.

«Non ho mai preso un aereo» disse improvvisamente Conan.

Andre e Viky si girarono stupiti: «Eh?»

«Non ho mai preso un aereo!»

[continua.. capitolo #07]

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Satif, destinazione Nomentana
di
Arundo Donald

 

Capitolo quarto. Tondini

Tiziano Farro era malato. Era indeciso se uscire per andare a registrare il suo ultimo capolavoro o restare a casa a farsi i pediluvi in pigiama con la birra al limone. Il dubbio era atroce. Era stanco e influenzato, ma la giornata era calda e forse uscire lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio. Del resto, il pezzo che andava a registrare si chiamava: Anticorpi D’amore Vero.

E cosa c’era di più utile agli anticorpi di un po’ di aria fresca?

Si fece coraggio, prese la giacca pistacchio e uscì di casa.

Pochi isolati più avanti, un cinese con la faccia insanguinata per poco non travolse Ida che usciva dal palazzo di Martoni. Correva in preda al panico, trascinandosi su e giù per il marciapiede e gridando cose incomprensibili.
«Ma guarda te sto Viet Cong-muso giallo. Per poco non mi butta a terra, ‘sto maledetto!» disse delicatamente Ida da fan dei film muti anni ’30. In particolare adorava Apocalypse Now  versione integrale. Quello con il pezzo in cui Willard ruba la tavola da surf, per capirci.
Il cinese, non vietnamita, doveva ancora capire cosa lo avesse stroncato, aprendogli di netto quel buco sulla fronte.

Ida proseguì attraversando la strada verso la fermata occupata da un altro strano individuo. Era il Pomata, stremato dal suo stesso errore.

Pomata aveva usato l’oleandro. Ignaro delle proprietà velenose, ne aveva raccolto un mazzetto e dopo essersi pulito il culo era tornato a sedersi alla fermata. La sua igiene prima di tutto!
Ora la lava gli riempiva le mutande. Tale era la sua sofferenza, che neanche riusciva a star seduto fermo.
«Ahhh, ma oggi era da resta’ a casa me sa!» disse Ida, guardandolo contorcersi inorridita «Ma tutti a me i matti de Roma?»

Il Pomata sembrava avesse l’argento vivo addosso. Scorreva il culo su e giù lungo tutta la fermata, dove il grip di plastica, fatto a tondini, gli offriva l’unico sollievo per l’acutissima urticaria. Partiva da un lato, con metodo, e sgambettando raggiungeva il capo opposto. Aveva anche cominciato a fare dei versi. Ora i lunghi movimenti di scorrimento erano enfatizzati da dei lunghi ululati di apprezzamento puro. «Ahhhhrrrrr! Fiuushhh…»
La faccia di Ida era paralizzata. Quella scena era davvero troppo anche per lei! Certo, se avesse saputo che a centocinquanta metri in linea d’aria, un ex parà con una pessima mira stava puntando un fucile in quella direzione, probabilmente le sue preoccupazioni sarebbero andate altrove.

Nando puntava il Pomata. Ida lo fissava rabbrividita.
Lui, strofinava il culo sui tondini.

[continua… capitolo #05]

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 di
Annalisa Maniscalco


Sul 117, direzione Popolo

Oggi è una di quelle giornate da ultima volta. Sarà per via del sole d’ottobre, non si sa mai quanto può durare. È anche un venerdì 13, e l’aria è lievitata, densa d’avvertimenti ma pure di luci succose. Per evitare rischi e rimpianti, rinuncio ai tunnel della metro e salgo piuttosto sul 117, uno di quei minibus elettrici che ogni tanto spariscono dalle strade di Roma, come le blatte d’inverno.

Il bus punta il Colosseo ma poi devia di colpo verso il Celio, passando in una feritoia tra certe mura vetuste e altre che sono solo molto vecchie. A via Claudia — pare sia più antica dell’Appia, con quel suo senso di pietra ineluttabile, gli alberi stupiti e i ciottoli a quattro ruote — sale una ragazzina: dodici anni, forse tredici, una treccia rossiccia sulla schiena, il busto ancora compresso e le gambe invece lunghe, ma immature, con ginocchia sbozzate sotto le calze bianche di non so che divisa scolastica. Batte tre colpetti sul vetro della cabina di guida; l’autista la guarda dallo specchietto e le risponde con un cenno, un pugno chiuso e un pollice in su. Quel gesto è una domanda, forse una consuetudine fra loro due, e la ragazzina risponde a occhi bassi, con un tremito del mento.

Il bus riparte, la ragazzina si siede composta di fronte a me, la cartella sotto il braccio e una custodia nera sulle pieghe della gonna; ma il suo piede destro, nella ballerina di vernice, batte un tempo asimmetrico e convulso.

Alla fermata del Colosseo — che è sempre una sorpresa, quando appare: un miracolo candido e massiccio, solido come certe improvvise decisioni — salgono tre liceali voluminosi, con le cuffie intorno alla gola e gli zaini semivuoti sopra gli omeri.

«Scusa Tommà, come hai fatto a saltarla?» sbotta una ragazza con un libro tra le braccia.

«Oh, senti, non ho fatto in tempo» risponde Tommaso, lanciando lo zaino in fondo al bus.

«Però la sapevi. No?»

Il ragazzo incrocia le braccia, appoggia la spalla a un sostegno e sogghigna.

«E ride! Te lo scordi che passo un altro pomeriggio a farti studiare.»

«Angè» interviene il terzo, biondo e sottile, che non ha smesso di guardarla da quando sono saliti, «l’hai capito, finalmente».

«Ieri, due ore solo sulla Monaca di Monza» si lagna lei, con un grazioso moto di riccioli neri, «e oggi questo ha il coraggio di lasciarla in bianco».

Si guardano, Angelica e il biondo, concordi su un punto e forse, chissà, volendo anche su altri, e l’equilibrio si sposta. Tommaso, che è imponente, sì, ma d’improvviso è anche solo, afferra il sostegno e tende le braccia.

«Ma sì che la sapevo» ammette, buttando gli occhi altrove, eppure tutto teso verso Angelica. E, a sorpresa, cita: «Non le bastava l’animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio».

E non è nemmeno il passo più famoso . Angelica, il biondo, io, la ragazzina: lo guardiamo tutti. E Tommaso, ch’era già imponente e ora è tornato anche centrale, guadagna un sedile e si piazza le cuffie sulle orecchie.

A via Panisperna sale una donna, di quelle che possono pensarsi solo con un “Signora” davanti. Disdegna lo zaino di Tommaso con una specie di passo di danza, e bussa — non ha guanti, ma tra qualche giorno li indosserà di certo — sul vetro dell’autista.

«Mi scusi.»

L’autista le mostra il profilo.

«È vero che questa linea sarà soppressa?»

«Sospesa, signò. Da lunedì.»

La Signora si volta, appena sconcertata (il tutto si limita a una curva più acuta delle sopracciglia color ambra) e si accomoda accanto alla ragazzina, che d’istinto ha raccolto le caviglie sotto il sedile e ha raddrizzato la schiena.

E ora guarda fuori, verso via Nazionale, mentre Angelica finge di leggere, il biondo racconta una prodezza in motorino, Tommaso lo contraddice con occhiate scettiche, la Signora si liscia la borsa.

Ma in realtà l’aria è ferma, risentita, color ambra. Finché, davanti al Palazzo delle Esposizioni — un’altra visione in bianco —, la ragazzina si agita sul sedile, come se facesse no con tutto il corpo. Le tremano le dita di risolutezza mentre apre la custodia nera, monta un flauto traverso lucido di cure e d’esercizio, respira a fondo e si avvicina lo strumento alle labbra.

Il bus si ferma a un incrocio. La Signora batte le palpebre; qualcuno — forse il biondo — tossicchia.

E la ragazzina indovina la prima nota. Come se ce la aspettassimo tutti, come la suoneremmo tutti se solo sapessimo farlo. Lunga e pungente, ostinata come un’obiezione, poi sfuggente come un dubbio, infine sofferente: un pianto che squassa il torace. Il suono si divincola fra capriole e rovelli ma alla fine esce corposo e pulito, continuo e affidabile come una promessa, una rassegnazione — un accordo, quasi, se non fosse che ha una voce sola. E pare che non abbia gli anni della ragazzina, ma che riecheggi da sempre tra una finestra aperta e un muro di cinta.

C’è tutto questo, dentro al flauto della ragazzina, e in fondo al suo petto. Ma all’improvviso, a via del Babuino, l’ultima nota si svuota di colpo non appena le porte si aprono.

Nessuno ha prenotato la fermata, nessuno aspetta accanto alla palina. E nessuno fiata, nel bus: soltanto un sospiro metallico spira dalla cuffia di Tommaso, dimenticata sulle clavicole. L’autista fissa la treccia della ragazzina da dietro il vetro, come un pesce dal suo acquario, confuso — eppure, penso, lui è l’unico che sa, e le sta dando tutto il tempo che le serve.

La ragazzina guarda un punto davanti a sé, dentro un vicolo laterale; rabbrividisce, si alza e fa un piccolo inchino. Poi, senza fretta né ripensamenti, scende dal bus e prende un’altra strada.

Lasciando il flauto sul sedile.

Un momento ancora; e, alla fine, le porte si chiudono.

 

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di
Annalisa Maniscalco

 

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

Proprio quando il 409 sta per lasciare il capolinea (Tiburtina FS, annunciano i led sul parabrezza), dall’hangar di legno che credevo abbandonato si precipita fuori un ragazzo. Ha un turbante scomposto intorno al viso e un involto discinto tra le braccia; si lancia contro la porta anteriore del bus e la picchietta di colpi decisi, ravvicinati. L’autista lo fissa in silenzio, poi soffia in un sospiro la sua magnanimità.

Con un movimento fluido, il ragazzo sale sul bus, aggira l’obliteratrice e si arrampica in cima a una ruota, in quello spazio senza sedile né dignità che resta deserto anche all’ora di punta. Sistema l’involto ai suoi piedi, pasticciando un po’ con le pezze che lo avvolgono, e una lama di luce accende il soffitto del bus.

Il tempo di un’istante; poi un aereo passa davanti al sole e il fagotto di pezze si smorza di colpo.

Batto le palpebre. L’avrò visto davvero?

Il 409 guada la Tuscolana e defluisce lungo via di Porta Furba. Sembra di passare un varco dimensionale, come quello dell’arco di Coppedè, il tunnel di graffiti tra Quadraro vecchio e nuovo, l’arcano di laterizi del Mandrione. Il ragazzo incrocia le gambe e, senza aggiustarsi il turbante che gli pende di lato, si volta verso il finestrino. Seduto così, le mani grandi sulle ginocchia, il profilo severo contro la luce del vetro, l’involto di stracci ai piedi come un mistero disseppellito, ricorda l’eroe di una fiaba mediorientale: un principe persiano in tuta acetata e sandali di plastica. La luce sbriciolata dagli ailanti in fiore irrompe nel bus e si concentra tutta intorno al fagotto di coperte — ma forse è solo la mia curiosità che ne sottolinea le forme, ne esalta i contorni.

Il bus approda a Torpignattara: qui sopravvivono le cabine telefoniche, i muri non nascondono le rughe dell’intonaco né i capelli bianchi dei cavi volanti. Salgono in molti, dai colori di spezie e terre bruciate; un uomo, più pallido e nostrano degli altri, avvista il ragazzo sul suo trono di ruota e lo punta deciso.
Lo avrà scambiato per qualcuno — Sindbad? Aladino? —: si sporge verso di lui e dalla maretta delle spalle capisco che lo sta apostrofando, con voce affilata ma sommessa. Un platano da fuori rabbuia l’aria, il riflesso sul finestrino si ottunde mentre il ragazzo si gira a rispondere, in un sussurro che è poco più che silenzio.
Ma ecco: l’albero tramonta e l’involto di pezze manda un altro lampo, che oscura il fondale convulso della Casilina.
L’uomo pallido sobbalza, si ritrae verso la porta di mezzo e scalpita, come su un ponte di legno, finché il bus non si ferma davanti ad un pronto soccorso; allora, senza voltarsi indietro, l’uomo svicola tra le porte e caracolla via.

Da qui in poi, il sollievo: la strada è più ampia, con i suoi alti e bassi di condomini e catapecchie. Questo settore di città appare anonimo, a chi ci passa e basta; ma da qualcosa — forse i germogli sui balconi — si avverte che chi ci vive ama questi intonaci, e fa sentire estranei quanti ne attraversano l’intimità.

Per un po’ non succede nulla; dopo Largo Preneste, altra via consolare, altro incrocio decisivo, con le iscrizioni Per grazia ricevuta, altro passaggio in mezzo al niente fino a un accostamento bizzarro: da un lato il Qube, dall’altro la locomotiva del deposito RFI. Poi il bus inciampa in una radice di pino: uno scampolo dell’involto appassisce, si sfoglia e, per la terza volta, una luce sventaglia le pareti.
Il ragazzo si illumina e si china a coprire quell’improvvisa nudità, ma ormai l’ho visto: lo spigolo di uno specchio con la cornice intarsiata.

È allora che, all’altezza di Casal Bertone, sul bus sale una ragazza slava, carica di sacchetti — pannoloni per anziani, pannolini per neonati.
Si ferma vicino alle porte centrali, il viso rivolto al principe persiano; ha la sua età ma colori opposti ai suoi — che però, per qualche ragione, parlano di lui: sabbia e cielo terso, sandalo e maiolica. Il 409 avanza a stento e la ragazza per tutto il tempo guarda il principe, con insistenza.

E lo fissa finché, nei pressi dell’Archivio di Stato (qui si stampavano i fotoromanzi), lui percepisce il suo sguardo; esita, poi si decide e, alla fine, le sorride: un sorriso di sbieco, timido e regale insieme.
La ragazza non risponde, ma nemmeno distoglie gli occhi: immobile, il ritratto di un paesaggio boreale.

Continua a scrutarlo, ancora, fredda e ostinata come un vento d’inverno, fino al deposito ATAC di Portonaccio, e la cosa si fa insostenibile persino per me che li osservo a distanza. Allora il principe imbraccia lo specchio, se lo aggiusta sulle ginocchia e si rannicchia tra cornice e finestrino. Un lembo delle coperte scivola e scopre la crepa che sfigura la superficie antica dello specchio.
La ragazza si guarda, si vede, e la crepa del vetro le apre nel riflesso un taglio sul cuore.
Quella vista la smuove e la spinge via, gli occhi duri e pungenti come le infiorescenze di ghiaccio alle finestre; e, voltandosi, mi sorvola col suo sguardo smarrito, equivoco, strabico: bellissimo.

Il ragazzo, dietro il suo scudo, le cerca gli occhi e non li trova più.

Ma il 409 rallenta, è la mia fermata: e finisce così, almeno per me, all’incrocio con un’altra via consolare, gli specchi della stazione Tiburtina a incorniciare l’orizzonte. Supero la ragazza slava, scendo dal bus, non resisto: mi guardo indietro, incontro gli occhi del principe — neri e diritti come due pozzi — e la vedo.

La vedo, e capisco il drappeggio sbieco del turbante, il sobbalzo dell’uomo pallido, la reticenza del sorriso e la cura con cui il ragazzo tratta lo specchio, nonostante la crepa — o forse proprio per la crepa, che gliela raddoppia e gliela nasconde.
Che gli raddoppia e nasconde una brutta, recente cicatrice sulla guancia.

Finisce così?

La ragazza slava si affaccia alle porte che stanno per chiudersi, fa un respiro profondo e dirotta intorno lo sguardo: esita, poi si decide e, alla fine, non scende.

Non rifletteva più nessuna faccia,
nessuna mano a ravviare chiome,
nessuna porta dirimpetto,
nulla cui possa darsi il nome
«luogo».

W. Szymborska, Lo specchio

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di
Lorenzo Desirò

«…e tu perché sei dentro?» 

«Per un errore» dice, accennando un sorriso. 

«Un errore, certo. Dicono tutti così.» 

Silenzio.  

«Qui ti chiamano tutti Settantotto. Cos’è, il numero di quelli che hai fatto fuori?» 

«Che cazzo dici? Settantotto persone…» e Settantotto ride: una risata affilata. 

«Cazzo ridi? Pensi che qui dentro non c’è gente che ha fatto stragi?» 

E poi ancora silenzio. Ma in lontananza un cigolio, forse di una brandina. 

«Senti, io la mia storia te l’ho raccontata. Tu non vuoi parlare? Cazzi tuoi. Ma stiamo nella stessa fottutissima cella, e finché non mi dici perché sei qui io ti giuro che non ti parlo, cazzo.» 

«Non me ne frega assolutamente un cazzo» 

«Ok, facciamo così: ora mi butto su questo fantastico letto, e se vuoi parlare ti ascolto, altrimenti ti giuro che resto in silenzio e non ti dico più un cazzo! Non ti rispondo nemmeno se mi chiedi l’ora. Passerai tutti questi fottutissimi anni senza dire una cazzo di parola. E lo sai che qui il tempo non passa mai se non parli con qualcuno. Le giornate sono lunghe, lunghissime e non passano mai, mai, mai…»

E di nuovo silenzio. In lontananza un altro cigolìo, un accendino che scatta.
Ma, su tutto, il ronzìo delle mosche.    

«Che cagacazzi» dice piano Settantotto. Fissa una macchia di muffa sul soffitto e comincia 

«Era il 17 Agosto. Due e mezza del pomeriggio. Faceva caldo, un cazzo di caldo… e sudavo. Puzzavo. Le gocce di sudore mi scendevano dalla testa dritte dentro gli occhi. Ero in una piazza e non c’era nessuno: nessun negozio aperto, nessun bambino che giocava, niente. Niente di niente… La città ad agosto è un fottuto deserto. C’era solo la puzza dell’asfalto bollente e il silenzio. Neanche un filo d’aria.
All’improvviso mi viene una cazzo di voglia di gelato che tu non hai idea: un gelato… fresco… cioccolato… crema… stracciatella… e un po’ di panna. Non puoi capire che cazzo di voglia di gelato che avevo. Mi guardo intorno e non c’era niente. Né un bar, né un fottuto negozietto, niente. Neanche un Bangla di merda aperto. 
Poi, all’improvviso, un flash, un’illuminazione: c’era un gelataio nel quartiere! Subito dopo il ponte, vicino all’incrocio grande! …ma chissà se esisteva ancora.» 

Settantotto lentamente si accende una sigaretta.  

«Avevo appena fatto tre anni qui dentro per un’altra storia. Magari in quei tre anni la gelateria aveva chiuso. Guarda che in tre anni uno non se ne accorge, ma cambiano un sacco di cose.
Cambia il quartiere, cambiano i punti di riferimento che avevi prima. Magari piccole cose: il tabaccaio dove compravi sempre le sigarette che si sposta qualche negozio più in là, la pizza a taglio sotto casa che cambia gestione, negozi cinesi che spuntano ovunque, nuove fermate della metro… succede di tutto, in tre anni.»  

E poi ancora silenzio. In lontananza la branda continua a cigolare, un altro accendino scatta, le mosche continuano il loro lamento. 

«Io mi ricordavo che questo gelataio stava a una ventina di minuti da quella piazza. Ma venti minuti a piedi alle due e mezza del pomeriggio, ad Agosto, con tutto quel caldo, non li avrei fatti nemmeno sotto tortura. E proprio mentre stavo pensando a come ci potevo arrivare… Eccolo lì! Si ferma al capolinea e apre le porte. Non scende nessuno. Secondo me io e l’autista di quell’autobus eravamo gli unici esseri viventi nel raggio di qualche chilometro. Mi avvicino al tipo e gli faccio: “Capo, mi porti dal gelataio?”. “Che cosa?!”. “Capo, portami dal gelataio, fa un caldo di Cristo! Dai, quello che sta dopo il ponte, vicino all’incrocio”. L’autista comincia a ridere e mi fa: “Questo è un autobus, mica un taxi! Vacci a piedi!”. Io non la smettevo di sudare. “Fa caldo, capo! Fa un cazzo di caldo!”.
Ma quello inizia a ridere, e ride, ride…» 

Un lento e profondo respiro di nicotina, prima di proseguire. 

«E poi, boh. Sarà stato il caldo, o la voglia di gelato che avevo, o la risata di quella faccia da cazzo, non lo so. Succede che tiro fuori il tirapugni e gli salto addosso. Quello non ha neanche il tempo di spostarsi, neanche di urlare… forse perché gli ho spaccato subito la mandibola. E lo colpisco, lo colpisco… non la smetto di colpirlo.
Dopo neanche un minuto sembrava un bambolotto buttato sul sedile del guidatore, un peluche insanguinato. Lo butto a terra e mi metto al suo posto. Ancora non avevo capito se il coglione era svenuto o se era già morto. Chiudo le porte del 78 e metto in moto…»  

«Ah. Ecco perché Settantotto.» 

«…chiudo le porte del 78 e parto. Supero il ponte, arrivo all’incrocio, ed eccola lì. La gelateria c’era ancora, cazzo. Scendo dall’autobus, entro e dico: “Capo, fammi un cono, bello grande. Cioccolato, crema, stracciatella e un po’ di panna”.» 

Settantotto fa un altro lungo tiro di sigaretta; poi, senza neanche averla finita, lancia lontano la cicca e continua a fissare la macchia di muffa. 

«Il tizio vestito di bianco dietro il bancone mi serve il cono e trema tutto. Nemmeno i soldi ha voluto. Avevo i vestiti e la faccia tutti sporchi di sangue. Prendo il cono e, credimi: non faccio neanche in tempo a toccarlo con la punta della lingua che nella gelateria imbocca un intero squadrone di guardie. Mi puntano i cannoni addosso, mi buttano per terra e mi ammanettano. Non l’ho neanche assaggiato, quel cazzo di gelato!» 

«Assurdo! Tutta questa storia… per un gelato?!» e ride.  

Ma Settantotto non sorride più, non guarda nemmeno il soffitto. Non sente neanche più le mosche urlanti 

«L’ho scoperto dopo, quando ero già in galera. Ma all’epoca io… ero incinta.» 

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di
Valter Chiappa

 

Faceva comodo salire al capolinea: si poteva scegliere il posto.
Meglio se il primo autobus era appena partito: si aspettava il successivo con l’assoluta certezza di conquistare proprio quello, terza fila, accanto al finestrino.
In verità non c’era un motivo logico secondo cui lei dovesse sedersi un’altra volta lì, di fronte, come quel venerdì; ma costruire un rituale permetteva l’infinita ripetizione di un piacere che, giunto inatteso, V. voleva fosse immutabile.

Giovedì 22 Maggio

S. si era fatta largo, goffa ed irruente, fra le signore burbere e gli zaini dei pischelli e si era seduta proprio lì, di fronte.
V. la guardò. L’attrazione non segue canoni, ha radici in qualche piega profonda del vissuto. Viso rotondetto ed accaldato, piccoli occhietti verdi, capelli lisci di un semplice castano.
V. sentì ancora il desiderio disilluso per una felicità che non gli era dovuta.
Ma poi successe. Il testo di analisi aveva funzionato, assieme a qualche appunto scribacchiato. Si sa, matematica è un esame ostico per le matricole di economia: derivate, integrali, le temutissime funzioni.

«Cosa stai preparando?» esordì lei, con una naturalezza a lui sconosciuta.
Lui timido: «Analisi I»
«Analisi che? Ma non sei di economia?»
«No. Faccio ingegneria»
«Ingegneria? Dai… allora mi puoi dare una mano. Ho l’esame fra 15 giorni e sono disperata!»

Per una convinzione comune, gli ingegneri hanno le risposte ad ogni problema, ma V. non le aveva nemmeno per i suoi.
Cominciò così. Nei 40 minuti del tragitto, fila di Montesacro compresa, V. provò ad esporre ordinatamente la metodologia corretta per affrontare lo studio di una funzione: il campo di esistenza, asintoti, flessi. Ma S., con domande a raffica, smontava il filo solido dei suoi ragionamenti.

Martedì 27 Maggio

«Ciao! Ti disturbo se mi siedo qua?»
V. non sapeva rispondere.
«Come va?»
«Un disastro! La funzione modulo. Proprio non l’ho capita»
Lui paziente: “È facile: se x<0, allora y = -x. Insomma, la devi prendere sempre positiva»
«Sì, ok. Ora però mi aiuti a risolvere quest’esercizio?»
V. scrollava la testa: per lui non si poteva studiare senza un metodo rigoroso. Ma S. diceva ogni cosa con quel sorriso che non ammetteva repliche. E V. si sentiva scaldare il cuore. E si sentiva accolto mentre S. lo ascoltava.

Mercoledì 28 Maggio

«Hai studiato?»
«No, ascolta. Mi è successa una cosa buffissima»
E V. rideva. Di cose che non gli sembravano più sciocche o insensate. Era bello, ridere, senza la catena di un pensiero conduttore; essere felice senza una regola. Decise di abbandonarsi a quella corrente disordinata, gioiosa ed ignota.
Nei giorni successivi parlarono di tante cose: delle vacanze ormai prossime e di un paesino in Calabria. Della loro stanza, dei dischi. Dei genitori. Dei sogni. Del futuro. Il futuro…

Lunedì 9 Giugno

«In bocca al lupo per domani. Fammi essere orgoglioso di te»
«Ci sentiamo, no?»
Balbettio.
«Ah, che sciocca! Non hai il mio numero!» e lo appuntò sulla copertina immacolata del libro di analisi.
Scese veloce, lanciando un bacio.

Martedì 10 Giugno

V. guardava nervosamente il numero di telefono.
Provò a desistere: «Magari mi racconterà tutto domani in autobus»

No: il giorno dopo non sarebbe andata all’Università. Panico. Respirò forte.
Chiamò.
Il muro, gigantesco avanti a sé, si sgretolò in un attimo al suono squillante della sua voce.

«Finalmente posso andare in vacanza, non ce la facevo più»
«Parti?», deglutì.
«Scendo con Mamma. La casa in Calabria, non ti ricordi?»
«Dai… che bello!», il cuore in una pressa.
«A Settembre ci raccontiamo tutto. E tu fai il bravo, non rimorchiare troppo…»

Le altre parole si confusero nel ronzio che gli riempì la testa.

Lunedì 22 Settembre

V. ripeteva mentalmente, ormai a memoria, quel numero di telefono. Un giorno avrebbe chiamato. O magari no: non sarebbe stato più bello incontrarsi nuovamente sull’autobus? Sorrideva. Sì: sarebbe stato più bello così.

Lunedì 9 Gennaio

Freddo e nebbia, palpebre pesanti, pensieri ovattati. Il capolinea era un miraggio, là in cima a Via Verga.
«Quanto ci mette a partire?».
V. non sentì nemmeno il motore avviarsi, le persone che, come spettri silenziosi, affollavano la vettura. Poggiata la testa sul vetro appannato, cadde in un sonno profondo.

«Signore, il biglietto per cortesia».

La voce più ferma e uno scossone appena brusco fecero dissolvere in un attimo le immagini dei sogni che, rapidi, avevano popolato la sua mente. Solo il ricordo di un raggio di sole caldo rimase, sospeso nel vuoto dei pensieri lucidi.
«Tessera» disse V., frugando fra le tasche, da cui estrasse un cartoncino lacero.

«Questa cos’è?»

«Intera rete, non vede?»

«Signore, questa non è valida, controlli bene»

«Ma l’ha vista anche il bigliettaio!»

«Il bigliettaio? Quale bigliettaio?»

V. tese la mano verso la porta posteriore, a indicare l’omone bonario con la pancia appoggiata sulla vaschetta di ferro con le 50 lire. Sbarrò gli occhi: non c’era. E neanche la vaschetta, e il suo trespolo. E le facce intorno? Non erano le stesse. Dov’era la vecchietta col carrellino per la spesa, quella che faceva solo due fermate? E i ragazzi con la svastica disegnata a penna sulla Tolfa?

Rimase così, la bocca spalancata.

Il controllore guardò perplesso quell’uomo con i grigi capelli arruffati, la barba lunga, lo sguardo spento.

«Signore, si sente bene?»
«Certo… sì…»
«Scenda con me alla prossima»
«No! Non posso, devo incontrare una persona…»
«Venga… venga con me»
V. cominciò ad agitarsi scompostamente. Il controllore infilò un braccio sotto il suo e cominciò a trascinarlo, cortese ma fermo. Un vecchio libro cadde fra i piedi della calca.
«Stia tranquillo. Sistemiamo tutto»
«No! Non posso…»

Le loro voci si persero, sfumando nel rumore di fondo del traffico.

La scena si era svolta nell’indifferenza della gente, ognuno isolato nei suoi pensieri o ipnotizzato dallo schermo di un telefono.

Solo una donna aveva osservato tutto in silenzio. Raccolse il libro, ne guardò la copertina.

Una lacrima scorse via da due occhietti verdi, piccoli e tristi, e andò giù veloce a rigare un viso rotondetto.

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di
Stefano Pupazzi

 

Io mi limito a riportare quello che ho sentito, signori: lo faccio per dovere di cronaca. E poi, in fin dei conti, la cosa non mi è sembrata così scandalosa… ma andiamo con ordine.
Ieri ero immancabilmente sul 20 e davanti a me avevo due dipendenti della nostra compagnia di trasporti preferita; hanno cominciato a parlare di una campagna che potrebbe essere lanciata in un futuro prossimo di concerto con il governo. Il nome di questa campagna è senz’altro azzeccato: “il fine giustifica i… mezzi”. Di che si tratta? L’idea è semplice e, in un certo senso, geniale. Avete mai notato che i mezzi di trasporto sono sempre pieni di vecchi? Grazie, direte voi; l’Italia ha un saldo naturale negativo. Certo.
Ma lo sapevate che quei vecchi hanno diritto a un abbonamento gratuito (dico gratuito)?

Bene, ecco i primi due problemi: i nostri cari bacucchi occupano spazio e, per di più, ci costano un occhio della testa. La ressa quotidiana e i portoghesi sono le maggiori cause dell’inefficienza del trasporto pubblico, si sa: ogni giorno ritardi, liti, svenimenti di pulzelle in mezzo alla folla, autobus in fiamme a causa dell’eccessivo carico e… i conti dell’azienda che non tornano. Ma questo non è tutto. C’è anche una questione di decoro e, per così dire, di estetica. Diciamoci la verità: se proprio dobbiamo rimanere schiacciati tra la gente, meglio strofinarsi a una trentenne in carriera che a una novantenne in carrozzina, no? O preferite un pannolone graveolente a una chioma stillante nardo?

Ho l’impressione che quest’ultimo argomento non vi abbia convinto. Bene, passiamo al risvolto economico della faccenda. Come dicevo, i vecchi non pagano l’abbonamento ai mezzi pubblici. Considerate ora il fatto che questi vecchi sono gli stessi a cui dobbiamo pagare le pensioni e le cure ospedaliere (accidenti ai malati immaginari!). Capirete dunque che il problema non è solo di questa città; si tratta di un dramma nazionale: il paese va in deficit per colpa degli ultrasettantenni!

Ma allora, direte voi, quale soluzione proponi? Io, signori, non ho nessunissima soluzione; questo è il bello. La soluzione è già stata trovata, come accennavo prima, dalla nostra azienda di trasporti. Si tratta di una cosa semplicissima: eliminare i vecchi; eliminarli fisicamente. Ecco, ecco: già vi sento parlare di follia, di cinismo, di spietatezza… prendersela con gli anziani, con chi ci ha cresciuto, con la memoria storica di questo paese…

Ma allora ho parlato a vuoto, signori. Ci siamo presi in giro. I problemi strutturali portati dai vecchi stanno dissanguando il paese e le amministrazioni comunali. Ma forse questo non vi interessa perché non siete buoni cittadini. Pensate però almeno alla vostra vita: volete la metro libera? Il bus ogni cinque minuti come in Svezia? Il posto a sedere quando vi sentite stanchi? Roba da poco, penserà qualcuno; ma è tutta roba, aggiungo io, che migliorerà la qualità della vostra vita, vi farà stare di buon umore, aumenterà la vostra efficienza al lavoro e fors’anche il vostro salario. Sì, perché eliminando i vecchi il sistema pensionistico ormai al collasso si riprenderà, ci saranno sgravi fiscali sulle nuove assunzioni, l’economia tornerà a girare…

Un’ultima considerazione: chi voglia eliminare i vecchi dalla faccia della terra deve essere considerato cinico? Avete mai pensato che i cinici potreste essere voi? Sì, proprio voi che vi ostinate a tenere in vita dei relitti umani; voi che umiliate i vostri parenti imboccandoli, voi che cedete il posto al reduce di guerra facendolo sentire un vile parassita.

L’eliminazione dei vecchi è, ad oggi, non solo una strategia economica, ma anche un’esigenza umanitaria e un atto di carità.

Eliminiamoli dunque, prima che ce lo chieda l’Europa.

E ricordate: il fine giustifica i mezzi

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di
Federico Cirillo

 

I colori dell’autunno in città: alzi gli occhi, grigio; abbassi gli occhi, grigio.
Poi cambia fuso orario e alle 18 cambiano i colori dell’autunno: è notte e il 23 non passa. È notte, il 23 non passa e piove.

Ed ecco, è già pallido, sepolcrale autunnoLa nebbia agli irti colli, piovigginando salel’ombrello a cui tendevi la pargoletta mano… vabbè, apriamolo va.

Stormi di bimbi, come esuli pensieri, saltano da una pozzanghera all’altra, sfiorando l’immagine grinzosa e tremolante di un Castel Sant’Angelo che lì si specchia. Mamme sbraitanti, ripetono il loro verso. Si ode il 23 far breccia.

Ma dove ve ne andate, povere foglie gialle come farfalle spensierate?  Autunno mansueto, io mi posseggo e piego alle tue acque a bermi il cielo, Respiro il fresco che mi lascia il colore del… «’tacci loro aoh, stanno dappertutto» – eh no, questa era meno poetica – «Dappertutto!» ribadisce, gracchiando mentre si scrolla di dosso le ultime gocce di brina dalla pelata madida di acqua e sudore con la manica di un giubbino nero di pelle.
Se parla delle foglie gialle come farfalle, o mi legge nella testa o è Trilussa, penso. «Dice le foglie autunnali?» azzardo con aria ancora lirica.
«Ma che cazzo stai a di’?» risponde con tono meno lirico. «Quelli, i negri, gli estracomunitari, nun senti che casino che stanno a fa’?» agitando il pollice della mano destra verso il nugolo di gente alle sue spalle. Tre bimbi sinti in fondo all’autobus, ancora affannati dalle corse nelle pozzanghere, provano a svincolarsi dalle mani sicure e vigili delle due mamme.

«Ma so bam…» provo ingenuamente a ribattere. «Mo’ so bambini, poi crescono… crescessero al paese loro!» risponde lui anticipando ogni mia mossa con aria e fare di chi la sa lunga.

Il 23 taglia il tragitto, la pioggia insiste, il tipo anche. Si libera un posto doppio, mi siedo, poggio l’ombrello accanto alla borsa. «Che poi – continua sedendosi accanto a me, con fare più accomodante ed amichevole – dico io no, già c’abbiamo tanti problemi noi qui in Italia, ce li dobbiamo pure porta’ da fuori? Questi vengono, stru… stuprano, rubano e fanno quello che je pare».
«Ma quei bambini lì dice? – provo a stemperare con la mia tipica vena humor – Ma non credo che…»
«e nun cazzeggia’! Sto a parla’ serio!» mi riporta all’ordine con discrezione il tipo: altero come un Francisco Franco, rigido quanto un busto di mussolinana memoria, aperto al dialogo quasi quanto un Erdogan. «Stiamo tutti co’ le pezze ar culo e li facciamo entra’. Ci starebbe da alza’ un muro e fa passa’ solo quelli che servono» non fa una piega. Il tizio, non il ragionamento.
«Ma poi è tutto un business sai? – cambia tono diventando improvvisamente molto keynesiano, guardandomi fisso come a cercare un appoggio etico – Vengono, sbarcano, si mettono nelle strutture d’accoglienza e poi… je danno 30 euro al giorno! Al giorno! 30! E poi girano con l’iphone – che fine ha fatto lo stile keynesiano? – macchenesai te? Ma te sembra normale? Ce rubano il lavoro, ce rubano le donne, ce rubano le case… tutto si rubano. Li trovi ovunque, stanno dappertutto, stanno» e mentre ripete questo mantra, dello “stanno dappertutto, stanno scende a Vanvitelli e se ne va.

Che tipo – penso –  l’elogio al qualunquismo insomma. Che poi continua a bofonchiare da solo, anche sotto l’ombrello. Buffo, è simile al mio. Sicuro l’avrà comprato fuori la metro pure lui.

FERMATA – Via Ostiense Matteucci: e piove ancora. Sarà lirico quanto ve pare st’autunno però checcazzo pure la poesia m’ha tolto quell’Hitler de Testaccio. Vabbè, si scende. Cuffie, borsa a tracolla e ombrell… dove cazzo? NO! ‘tacci sua altro che uguale… era il mio!! Ma guarda che testa de…

Non faccio in tempo a scendere a Mercati Generali che, aperte le porte, nel buio dell’autunno, mi si para davanti tra il 23 e il marciapiede, un porta-ombrelli umano: scuro quasi come le 19 di sera, i denti bianchi brillano in un sorriso, i capelli bagnati incollati sulla fronte, alto quanto gli ombrelli che tiene appesi tra braccia e mani. «Ombrello amigo? – dice sorridendomi e lanciando uno sguardo verso la pioggia – Ombrello? 10 euro».

Meno male – penso – state dappertutto.

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di
Sabrina Sciabica

 

Lei non stava bene.

Aspettava il 90 che, fortunatamente doveva passare spesso, pensava. Ma non stava bene.

Era lunedì ed il lunedì è sempre uno choc, si giustificava. Era l’inverno e poteva pur capitare di non sentirsi in forma in questa stagione dell’anno, si diceva.

Aspettava lì, imbacuccata, coi suoi occhioni grandi, castano chiaro con delle bolle di verde, incorniciati da riccioli neri alquanto spettinati.

Eppure lei non stava bene e stava anche per piovere.

Erano soltanto le 17.30 ma nel giro di pochi istanti un mantello scuro avrebbe coperto tutto quanto attorno a lei, e questo non avrebbe di certo aiutato. Vedeva da lontano un bus, che aveva rallentato lasciandosi alle spalle Porta Pia. Quindi era un buon segno. Lì gli autobus switchano qualcosa… chissà, non aveva mai capito bene come funzionasse, ma alcuni 90 alzavano dei fili e si collegavano alla corrente elettrica per non consumare benzina e inquinare di meno quella povera città straziata dallo smog.

Anche questo era, o avrebbe potuto essere, un pensiero positivo, come salvare la città dai gas nocivi, ma lei non stava bene e questo pensiero non la sfiorò.

Piuttosto pensò a quanto sarebbe stato confortevole allungare delle antenne e aggrapparsi a qualcosa di più alto che la sorreggesse e la guidasse.

Che numero era? Si avvicinava. Era lungo, camminava lentamente, ma lei vedeva tutto sfocato. Ma perché vedeva così male?

Lacrimoni salati scendevano sulle guance ma lei non li sentiva. Gocce strisciavano sul viso attraversandolo in verticale fino a finire sulla sciarpa di lana che le avvolgeva il collo.

E il lungo autobus si avvicinava.

Chiudeva e riapriva gli occhi per mettere a fuoco e adesso sì che li sentiva diversi, i suoi occhi.

Li sentiva stanchi, li sentiva gonfi, li sentiva inondati. E non riusciva a vedere cosa ci fosse scritto lassù, nel display del lungo veicolo che si avvicinava seguendo la sua corsia preferenziale.

Adesso realizzava che erano così tante e gorgogliavano così velocemente da una sorgente interiore che era impossibile per il cervello comandare alle lacrime di rimanere lì dentro.

E quindi loro erano uscite insistentemente, avevano trovato una via di fuga.

Avevano appannato tutto.

Avevano cominciato a fluire liberamente oltrepassando i comandi della razionalità che voleva, a tutti i costi, tenerle rinchiuse e nascoste.

Perché la vita non è così, perché la felicità non scorre sulla corsia preferenziale, quella libera, quella tutta per lei. Certo si capisce che potrebbe capitare di fermarsi a un rosso. Certo si può tollerare che un furgone in doppia fila occupi la corsia e rallenti tutto.

Ma camminare al buio, in un percorso che non conosci, in cui ti muovi a tentoni, in un luogo in cui nessuno è capace realmente di indicarti una via, come è possibile fare una cosa del genere?

Sbatteva sempre più velocemente le palpebre umide nella speranza che la scritta rossa si rischiarasse e potesse scoprire se quell’autobus la  avrebbe avvicinata a casa, ma niente, perché loro continuavano a fluire.

Il cervello non aveva il tempo di ordinare alle lacrime di fermarsi perché era troppo concentrato a mettere a fuoco l’immagine sopra al vetro anteriore del bus che si avvicinava ancora troppo lentamente.

La gente intanto era diventata una vera e propria folla e lei li sentiva, lamentarsi e sbraitare per l’attesa, e fare supposizioni sui numeri, come se si aspettassero, l’indomani, di vincere chissà che cifra per aver giocato al lotto quel numero!

Non si accorgevano neanche che c’era un animo stanco, proprio lì vicino, che in quel momento piangeva e lottava.

Perché non è tutto dritto come la Nomentana, alla partenza da Porta Pia?

E adesso avevano cominciato a bruciare, gli occhi. E la gente, sempre più arrabbiata e insensibile, a strattonarla per sporgersi sulla strada e riuscire a capire che autobus sarebbe passato, se avrebbero potuto ficcarcisi dentro il prima possibile, per rintanarsi il più presto possibile nei loro tristi e angusti tuguri da cui non sarebbero usciti fino all’indomani, con la luce del giorno, ma solo per ricominciare quell’inutile, esasperante, irritante tran-tran quotidiano di grigiore e sconforto.

Eppure lei sarebbe stata disposta a fare tutto il viaggio in piedi. Sarebbe stata quasi contenta di entrare, anche ammassata come le sardine nella latta o come le foglie secche raccolte nelle buste di plastica. Lei era disposta ad accettare qualche momento di tristezza e scomodità, lo aveva già fatto tante volte, pur di seguire un certo percorso.

Ma il percorso, adesso, nella sua vita, non c’era!

Ma perché, si chiedeva non c’è neanche una via. Neanche un aiuto, neanche un’indicazione, neanche una certezza che a breve diventerà tutto più semplice?

In quell’istante, smise di guardare avanti e di sforzarsi per leggere il numero corretto dell’autobus che stava per passare. Chiuse gli occhi e aprì leggermente la bocca assaporando quel sapore salato che le lacrime avevano lasciato e formulò l’ultima preghiera.

L’ultima preghiera prima di perdere del tutto la speranza. L’ultima preghiera prima di svanire per sempre nell’inutilità della corsa. L’ultima preghiera prima di uniformarsi al nichilismo fatalista. L’ultima preghiera prima di sciogliersi e diventare un tutt’uno con le sue stesse lacrime.

L’ultima preghiera … che era solo una parola.

Luce. Voglio una luce. Voglio che una luce mi indichi il percorso, pregò intensamente, senza preoccuparsi di capire a quale Dio rivolgersi.

Luce.

Poi aprì gli occhi e, contemporaneamente inspirò velocemente e chiuse la bocca.

DEPOSITO.

Ecco cosa c’era scritto.

Non ebbe la forza di concepire nessun altro pensiero, a stento di prendere atto di ciò che finalmente aveva letto.

Si voltò e, continuando a svuotarsi di quel liquido salato che si formava dentro di lei e fuoriusciva bruciandole la pelle, si incamminò a testa bassa, trascinando i piedi in direzione casa, a circa 4 km da lì.

 

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di
Stefano Pupazzi

 

Amiamo Tutti, Anche i Colorati. Confesso che all’inizio non avevo capito il senso dell’acrostico, ma ero almeno riuscito a metterlo in relazione con l’altro, Colorati Ovunque, Tutti RAgazzi del Lazio, letto di sfuggita sulla fiancata di un pullman diretto a Colleferro. Tutto è diventato chiaro qualche giorno fa, quando, in procinto di salire sul 20 al capolinea di Anagnina, ho sentito una voce premurosa che diceva

«ma cosa combina? Sale insieme ai negri?»

Stupito, mi volto e vedo un controllore venirmi incontro trafelato.

«Signore, Lei è davvero distratto…meno male che ci sono io a controllare!» mi fa.
«A controllare cosa? E poi chi sarebbero questi negri, di grazia? Ancora usiamo la parola negri? Ma non si verg…»

«Aspetti, aspetti: Lei mi ha evidentemente frainteso… per di più, signore, debbo constatare che non è al corrente delle nuove disposizioni… ma mi lasci spiegare. Le due maggiori aziende della mobilità autoferrotranviaria hanno da poco inaugurato le cosiddette linee N, dedicate esclusivamente al carico e alla tratta di negri e altre razze colorate…»

«cosa?? Sto sognando, vero?»

«Ma no, no! Tutto ciò è finalmente realtà! Linea N, come avrà capito, sta per linea Negri; si tratta di una linea che accoglie questa povera gente in modo tale da farla sentire a casa, senza la presenza (un po’ imbarazzante, diciamola tutta) di noialtri normali. Ma non è solo questo il punto: di fatto, con queste nuove linee, si sono risolti diversi altri problemi. Intanto, gli autobus non sono più così affollati, essendo aumentato il numero delle vetture: vorrà ammettere che questo è un bene»

«sì, ma…»

«suvvia, mi lasci finire. È stato poi risolto il problema dei furbetti del biglietto, e ciò con poche e semplici precauzioni. Intanto, quella più ovvia: la selezione naturale, per così dire, al momento della salita a bordo. Un negro e un bianco li distingui subito, no? Ebbene, le linee N possono caricare solamente i negri. Questi ultimi, poi, sono ormai quasi tutti forniti dell’abbonamento vitalizio “dalla pelle al cuore”; al momento dell’ingresso devono infatti mostrare il numero di abbonamento marchiato a fuoco all’altezza del polso»

«ma che diavolo sta dicendo! Lei… Lei…»

«ecco, lo sapevo; di nuovo ci accusa senza capire…e invece io Le dimostro che i tecnici hanno pensato a tutto, escogitando una soluzione finale che avesse come obiettivo il bene di questa gente. Come Lei saprà (perché Lei lo sa, vero?), è dimostrato scientificamente che le razze non bianche hanno una memoria labile e, insieme, una certa faciloneria che le spinge a inopinate trascuratezze…come ad esempio quella di scordare a casa biglietti e abbonamenti. Con il vitalizio “dalla pelle al cuore” è stato risolto anche questo problema…e Lei dovrà concedere che assicurarsi il pagamento dei clienti, per un’azienda di trasporti, significa avere una maggiore efficienza e garantire un servizio migliore al cittadino. Quanto ai negri, poi, non corrono più il rischio di beccarsi una multa salata! Come vede, la soluzione finale accontenta tutti…a meno che Lei non voglia negare i vantaggi di tale soluzione: in questo caso sarei curioso di sentire le Sue proposte per il risanamento dell’azienda e per la risoluzione di certi problemi ormai atavici…»

«no, ecco…non avrei particolari proposte…e poi, se mi dice che ci hanno pensato dei tecnici…però una cosa non la posso far passare: la parola “negro” sdoganata in questo modo…»

«allora Lei non ha colto la filosofia che sta dietro al progetto! Vuole che quella gente capisca se usiamo perifrasi come “diversamente bianchi” o amichevoli epiteti del tipo “bruschette”, “cioccolatini” e via dicendo? Consideri che la mediazione culturale ha come presupposto la reciproca comprensione e quest’ultima deve basarsi su una lingua semplice ed efficace»

«mi scusi… non avevo capito…La ringrazio per la spiegazione e Le auguro una buona giornata».

Stamane ho rinnovato l’abbonamento: in omaggio mi hanno dato una spilla che raffigura un cuore con intorno la scritta Amiamo Tutti, Anche i Colorati.

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di
Lorenzo Desirò

 

Tutto il 504 rimane muto. All’inizio, sovrappensiero, non avevo capito il perché, ma poi alzando lo sguardo ho puntato i miei occhi nella direzione in cui tutti stavano guardando. Era incredibile.
Mi tolgo le cuffiette e spengo la musica. A bocca aperta, come tutti gli altri passeggeri, inizio ad osservarli anche io.
L’autobus dopo averli fatti salire, come indifferente, ha chiuso le porte e ha continuato il suo percorso verso questa periferia fatta di niente, fatta di strade e ponti che sbattono sul G.R.A, fatta di centri commerciali circondati da un nulla di sterpaglie e campi abbandonati a sé stessi.
A noi viaggiatori abituali del 504 loro non potevano sfuggire al nostro interesse. Loro sono in piedi precisamente al centro dell’auto. Tutti iniziano sempre di più a studiarli guardandoli dal basso all’alto, da sinistra a destra, tutti increduli di questa visione.

Il pensionato seduto sul sedile accanto al mio e il ragazzo in piedi con lo zaino a tracolla non riescono a distogliere lo sguardo. La signora sui cinquanta coi capelli ricci e scuri e con quell’aria da insegnate abbassa un poco gli occhiali sul naso, come per vederli meglio. Anche il quarantenne in giacca e cravatta dal capello corto e brizzolato che parla e gesticola al cellulare si accorge dell’inspiegabile presenza e inizia a fissarli. Tre operai probabilmente dell’Est con i loro jeans e magliette sporche di vernice e polvere bianca smettono di ridere e parlare fra loro e muti rivolgono i loro occhi verso gli incredibili viaggiatori. La studentessa universitaria stava sottolineando a matita su alcune fotocopie. La matita rimane ferma e anche il suo sguardo punta in direzione dei nuovi ospiti.

Si inizia a vociferare: «è incredibile», «mai visti prima…», «Non è possibile!», «Ma che ci fanno qui?»

Il pensionato al mio fianco continua ad osservarli e a bassa voce: «in tanti anni non ho mai visto una cosa del genere».
«Neanche io» e gli chiedo – sempre con un sussurrato: «ma questo è il 504? Ho preso l’auto giusto? Il percorso è sempre lo stesso? »
«Sì» dice l’anziano continuando a guardarli.
Intanto l’autobus è fermo nel traffico e riesce a fare pochi metri per volta.

Loro sono al centro. Sono tre. Ridono come solo loro sanno fare. Comunicano nel modo in cui solo loro sanno fare. Non si rendono conto di essere osservati malgrado sia evidentissimo il nostro sgomento per la loro presenza. E loro tre indifferenti, sorridono, parlano. Estraggono cellulari e mandano messaggi.

Si fanno le foto tra di loro come solo loro sanno fare.

Seduto al sedile dietro il mio, un ventenne si sporge e mette la testa tra me e l’anziano al mio fianco e chiede bassa voce:

«Aoh, ma che ce fanno i turisti Giapponesi a Anagnina?»

«Non lo so» gli rispondo

E il vecchio «e dove vanno?»

«Non lo so…» Rispondo ma sempre senza riuscire a distogliere lo sguardo da loro

«… Credetemi, non ne ho la più pallida idea…».