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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Siamo tutti ordinari. Siamo tutti noiosi. Siamo tutti spettacolari. Siamo tutti timidi. Siamo tutti in grassetto. Siamo tutti eroi. Siamo tutti impotenti. Dipende solo dal giorno.

«Ora ci credi. Ora è il momento. Non c’è più tempo, quasi…». Queste ultime parole escono dalla bocca e dai pensieri di Alfred con un tono totalmente diverso da quello usato per il racconto: serio e solenne, mentre scambia uno sguardo d’intesa con Batman, sul cui volto ora è scomparsa anche quell’ombra amara di solitudine che lo accompagnava sempre nei nostri ultimi “incontri”. Sono lì entrambi, uno avanti e uno dietro, più veri e tangibili che mai. Batman mi guarda, in silenzio, e noto che in mano ha qualcosa… qualcosa per me? Un fagotto di carta. Giornali avvolti tra di loro. Giornali e riviste che riportano le notizie e i titoli delle sue azioni leggendarie. Articoli che parlano di lui e lo ritraggono in compagnia del suo fido alleato, del suo compagno di venture e sventure. Il classico simbolo del pipistrello al centro del torace di lui, un cerchio nero con una R gialla sul petto dell’altro, più giovane.

L’altro. Il ragazzo. R. Robin.

«Aprilo, Ragazzo, guarda dentro» mi fa Alfred con un sorriso sornione, accennando due passi indietro. Strappo via la carta, di fretta e senza pensare. Il 766 corre e non fa più fermate adesso. O forse le fa, ma non importa: tutto vortica attorno a me. Batman, Alfred, il Jocker, la folla che è ormai solo un ammasso di sagome. Il 766, il ragazzo con la vitiligine, il Batman vecchio, stanco e derelitto. La donna dagli occhi da gatto, “e dire che allora”: tutto ruota veloce e si ferma sull’oggetto all’interno del pacco: un costume. Rosso, maniche verdi come i guanti regalatimi la volta scorsa, un mantello giallo con la R cucita sul petto.

Una volta aperto l’involucro, dall’interno cade svolazzando un altro foglio di giornale: “Continuano i furti di Testa di Demone. Chi è il pericoloso terrorista che si cela dietro quel satanico simbolo? Siamo sull’orlo di una guerra batteriologica?”. Questo il titolo che campeggia centrale. Impietrito e sconnesso, sento solo una mano che si appoggia sulla mia spalla.

«Bentornato, ragazzo. Bentornato, Robin» mi fa, e all’istante mi si gela il sangue. Vorrei dire tanto, vorrei chiedere tutto e chiedermi mille perché.

«Tocca a me, Batman?» esce invece, quasi meccanicamente, dalla mia bocca.

«Tocca a noi. Scendiamo, la macchina è parcheggiata a Grotta Perfetta.»

Mentre indosso la maschera, la blusa e il mantello, Batman mi guarda, braccia incrociate e sorriso sicuro. «Lo fermiamo?» domando. «Ricordi come si fa?» mi chiede. Sorrido e scendo al volo dal finestrino aperto (non chiedetemi come diavolo abbia fatto, ma so farlo, me lo ricordo!). Scende anche Batman, scuotendo la testa tra un sorriso e un’occhiataccia.

«Signore!» urla Alfred da dietro, rincorrendoci e reggendosi il cappello da perfetto omino inglese, «difficile che riusciate a guidare senza queste…» e ci lancia le chiavi.

«Vecchio Alfred – fa Batman voltandosi e afferrandole al volo – senza di te, mi scorderei tutto, anche il passato.»

Fine.

 

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi: eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri.

…My need is such I pretend too much / I’m lonely but no one can tell / Oh yes I’m the great pretender (ooh ooh) / Adrift in a world of my own (ooh ooh)…

Grande Freddie. Brividi: ogni volta che lo ascolto mi vengono i brividi. E il viaggio sul 766 scorre rapido. Rapido e indolore… anche se tra tutta ‘sta gente rimanere in piedi è un po’ come fare l’equilibrista: sembro un circense. Tiè, guarda che equilibrio, neanche gli scossoni del 766 che s’impantana nelle pozze grigie che la pioggia battente ha riempito per tutta la giornata mi spaventa.

I’m wearing my heart like a crown / Pretending that you’re still around…

Yeah ooh…

«Ah, i Platters! Gran gruppo: ricordo che da giovane era uno dei miei pezzi preferiti… eh, gli anni ’50» fa all’improvviso il signor Alfred, e la sua voce mi giunge come dalle cuffiette del cellulare che, nel frattempo, ha fatto partire Rockin’ Robin.

«Signor Alfredo, buonasera. Non l’avevo vista, ma speravo di incontrarla. L’ultima volta mi ha lasciato con l’ennesimo interrogativo aperto: ho il cervello in bilico come un trapezista – ancora paragoni circensi, penso – e non vorrei cadere, insomma…»

«…eh sì – continua Alfred, come perso nei ricordi – gli anni ’50… sembrano passati più di 50 anni. Eh R,. ascolti buona musica, bravo. D’altronde l’animo dell’artista lo hai sempre avuto, lo hai ereditato dai tuoi.»

I miei? Un insegnante di asilo e una logopedista? Cosa c’è di artistico nella logopedia, mi chiedo. «Signor Alfred – provo a svegliarlo dalla sua estraniante estasi, quasi psichedelica – cosa c’è di artistico nella logopedia?».

Niente. Non mi guarda, non risponde: è nel suo mondo.

«Vedi R., non appena si accendevano le luci tutt’intorno, il pubblico rimaneva muto, occhi e mente fissi a quel cielo blu pastello. I tamburi rullavano, i clown smettevano per un attimo le loro pagliacciate, le tigri si calmavano, gli elefanti, muti, alzavano le loro proboscidi: mentre loro volavano, roteavano nell’aria, si scambiavano sguardi e posizioni, cenni e piroette. Era la magia dell’equilibrio disegnata sulla linea dei sogni. Erano perfetti lassù, a volteggiare tra le stelle.»

«Guarda – fa poi, riprendendosi e tirando fuori dal portafogli una vecchia e sgualcita fotografia – ero come uno zio, per loro. Questa la scattammo il giorno prima che… vedi? C’è la data…»

16-05-1990: una giovane coppia sorride all’obiettivo e al centro, come ad unire i due, un bimbo. Indice in bocca, sguardo accigliato e cappuccio rosso della felpa sulla testa, tiene le loro mani e quasi non fa caso alla posa da assumere.

Ma certo, penso con aria intenerita, il buon vecchio Alfredo sta pensando a questa famiglia di circensi, probabilmente suoi parenti. «16 maggio del ’90, io avrò l’età di questo bambino qui. Ma chi sono? Ma poi il giorno prima di cosa? Che è successo il 17 maggio?»

Ora sono curioso. Dannato Alfred, è riuscito di nuovo a mandarmi in tilt il cervello…

How many roads must a man walk down / Before you call him a man…

Su queste note, intanto, il 766 riprende la sua marcia, lenta quest’oggi, compassata e nostalgica, quasi. Come ad accompagnare il tutto, inizia a piovere e, dal finestrino semi aperto del bus, qualche goccia, tonda e lieve, cade sulla fotografia. «Ogni volta – fa Alfred senza riuscire a nascondere il leggero tremolio che condiziona le sue ruvide mani – ogni volta che parlo di loro, il cielo se ne accorge. La domanda, caro R., non è chi sono loro ma chi sei tu. R., chi sei tu? Hai ancora lo stesso sguardo accigliato, ogni volta che non capisci. Ricordi?

Nelle notti buie e nere sta avanzando un cavaliere/ non ha sella né cavallo ed è nero il suo mantello/ Lotta contro l’ingiustizia, la sua arma è la furbizia./ Non è solo ma ha scudiero che lo segue sul sentiero/ sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme…»

«…Batman e Robin!». Chiudo quella filastrocca sciocca quasi senza pensarci, con naturalezza, e la cosa mi spaventa. «Come… come sai – domando ad Alfred con la bocca impastata di ricordi – questa canzone? Signor Alfredo, chi sei?». Quelle stupide rime avevano risvegliato dentro di me un vortice di immagini lontane, sfocate. Quelle strofe… le conosco benissimo, ma non ho idea del perché. Le immagini nel mio cervello, inizialmente annebbiate, si fanno più nitide: un letto, il mio probabilmente, ed una donna… mia madre. Ma non quella che conosco, non quella che mi aspetta a casa e che ritrovo ogni sera, non la logopedista… no. È diversa, e ha… il mio stesso sguardo. Canta. Canta questa filastrocca, la sussurra quasi e mi abbraccia. Ora in un vicolo… dopo una serata passata… al circo. Ancora mia madre e c’è anche mio padre… il mio vero padre. Mi abbracciano entrambi… e con l’ultimo respiro intonano ancora questa maledetta, ingenua, meravigliosa storiella. Voglio urlare, forse piangere, ma riesco solo a fissare Alfred ripetendo a mente le ultime due strofe.

«Guarda R., guarda qui» Alfred mi porge una seconda foto. C’è ancora quel bambino, un po’ più grande. Ha sempre quella felpa con il cappuccio rosso sulla testa. L’espressione è arrabbiata, il volto corrucciato. Appoggia la mano su un antico pianoforte sul quale sta una cornice: dentro, un’immagine di due equilibristi che, in aria, si congiungono in un eterno abbraccio. «Questa è casa mia, Robin, e questo sei tu, vedi?» mi domanda toccandomi la cicatrice sul sopracciglio destro che, ormai, non ricordavo neanche di avere: la stessa del bambino nella foto che si scorge, in primo piano, poco sotto il lembo del cappuccio.

«Qualche giorno dopo, dall’ospedale in cui ti trovavi, ti portarono da me: ero l’unico “parente” che avevano i tuoi, un vero e proprio zio per loro e anche per te. Ma non potevo accudirti per sempre: il lavoro dal signor B. mi allontanava costantemente e nonostante ti portassi con me quell’ambiente non era adatto per un ragazzino. Certo, ti dimostrasti utile con lui, lo aiutavi, imparavi e crescevi ma, arrivato ai 10 anni avevi anche bisogno di… di una vita normale, ecco. Così ti affidammo alla famiglia che ti ha cresciuto fino ad oggi: è grazie a loro se hai superato quel trauma, ma contemporaneamente hai anche dimenticato chi sei, per vivere un’adolescenza più felice, normale. Ma ora B. ha bisogno di nuovo te, perché…

sembra grande ma è un bambino ed ha il nome di uccellino/ con l’eroe corre e si batte contro mille malefatte/ contro mostri orchi e goblin, sempre insieme Batman e Robin…».

Come evocato dai ricordi, dalla nebbia mentale che mi attanaglia o dalla pioggia che il cielo continua a far cadere sul 766, che ormai viaggia in un non-tempo all’interno di uno spazio che racchiude solo noi e il nostro mondo, tra la folla spunta Batman.

«Ultima fermata, Robin. Bentornato.»

[continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Chi è più solo di un eroe?

 

L’amore ai tempi del 766. Oddio, se l’amore avesse proprio gli stessi tempi e i modi del 766 sarebbe un’interminabile agonia: incontri e scontri casuali, scossoni, ritardi, fermate saltate, titoli non convalidati o convalidati a metà come gli sguardi, distratti e non, lanciati alla moretta che siede poco avanti. Oddio, forse invece l’amore è proprio come stare sul 766: soli per tutto il tragitto, finché non ci si rende conto di aver suonato la stessa ferma… non faccio in tempo a concludere questo malsano quanto inutile pensiero che lo vedo, come ogni lunedì sera, palesarsi all’improvviso nel mezzo della folla. Batman: tra me e la moretta dai ricci scomposti e selvaggi che ogni tanto mi spizza con occhi taglienti e felini, ignara della presenza del “folle” Cavaliere Oscuro. Quasi quasi mi alzo e lo saluto, penso, e gli chiedo anche spiegazioni su ‘sti gadget che mi ha dato Alfred, o meglio, il signor Alfredo. Invece no: rimango lì, seduto sul solito sedile del 766, a guardarlo da lontano. Ha catalizzato la mia attenzione più della moretta che, intanto, dopo due fermate andate a vuoto e un tentativo di sorridermi, è scesa ed è andata via: proprio come l’amore.

‘Sto tizio mi fotte il cervello, ripeto tra me e me mentre continuo a scrutarlo dauna distanza che sembra chilometrica, ma che in realtà è dannatamente breve. Più mi sforzo di guardarlo e analizzarlo e più, ogni volta, sembra diverso, più giovane.

«Ma è più giovane, cazzo!» esclamo a bassa voce. È sicuramente più giovane: spalle larghe che fanno da cornice ad un petto aperto e muscoloso. Maschera ben aderente al volto e sguardo che fuoriesce tagliato e severo, ma pacifico, dalle fessure degli occhi. Non è più impacciato ma, anzi, fa sentire gli altri attorno a sé in difetto e fuori contesto. Sì, ha qualche ruga agli angoli della bocca, ma la sua figura, in quella calzamaglia non più buffa e lacera, si staglia perfettamente al centro del 766: è suo quel posto, è suo quello spazio. Sicuro e serioso, ma triste e tremendamente solo. Forse anche per lui il 766 è una metafora d’amore, in quella solitudine di cui è protagonista?

«Sai R., anche lui è stato innamorato una volta. Anche se non lo ammetterà mai, anche lui si innamorò: ed è successo proprio qui, sul 766». Alfredo, penso, e come ti sbagli, mi domando. Puntuale, proprio quando non se ne sente la necessità, come il 766… «Beh sì – interrompe i miei pensieri senza attendere un mio intervento, tanto con lui pare non ve ne sia il bisogno – magari il 766 è stato sempre in ritardo, ma ti dico, caro R., che qui, puntuale, nacque un amore. Sempre seguendo un percorso particolarmente tortuoso e dai tratti noir, ci mancherebbe: d’altronde, è il suo stile. Ascolta, magari serve anche al nostro scopo». Fingendo di non aver visto lo sguardo complice che i due, Batman e Alfred, si sono lanciati a distanza (Alfred è buffo, penso, quando fa l’occhiolino: piega la testa nella stessa direzione a cui rivolge il cenno), e rimango in silenzio, semplicemente ad ascoltare.

«Notte. È la notte, d’altronde, il miglior palcoscenico per gli amanti. Il 766 era affollato e un mare di gente si accalcava su quello che sembrava più il vagone di un carro bestiame che un bus. Gente sudata, gente che sbuffava ovunque e condensa che aumentava sui finestrini. Il vociare era assordante, anche se ognuno pensava a sé e, quasi, parlava da solo: un vociare di singoli pensieri che creava un chiassoso caos. Come al solito c’ero anche io, di ritorno da alcuni servizi per… beh, non importa. In fondo al bus una ragazza, statura media, corporatura esile. I suoi capelli castani e vaporosi dovevano dare, al tatto, la stessa sensazione che dà il velluto. Lunghi, seguivano ondeggiando i movimenti rapidi delle espressioni del suo viso, bianco come le stelle di notte, spigoloso e pungente come il vento quella sera. Notevole, pensai. Ma quello che non si poteva non notare erano i suoi occhi: lucenti e profondi, misti d’agata e metallo, fiammanti e crepitanti, quasi come due finestre che permettevano di vedere altri universi. Non importa il colore, era cangiante, quasi diverso a seconda di dove guardasse. La mia attenzione era tutta rivolta ai suoi occhi acuti e felini, mossi da una danza nervosa fatta di scatti; tanto mi ero perso nel mondo che essi proiettavano che inizialmente non notai i suoi artigli: più rapidi e veloci dei suoi sguardi. Approfittando di un lieve scossone, di un urto improvviso del 766, furtivo fu il suo gesto e, tra la folla ingenua e assente, veloce la sua mano. Una ladra, pensai, ma non dissi nulla, quasi ipnotizzato da ciò in cui mi ero avventurato con la mente e con i sensi. Fatto sta, caro R., che la ragazza, svelta e dalle movenze sinuose, si districò tra la gente senza sfiorarla, senza fare rumore, avvicinandosi alla porta per scendere alla fermata successiva. Ma, come anche tu ragionavi poc’anzi, è forse l’amore una fermata del 766? Non fece in tempo a scendere dal bus, a respirare l’aria della fresca libertà che da dietro fu braccata e risucchiata nella “cagnara” a lei ostile e, con un lamento simile ad un flebile miagolio, spalancò gli occhi disorientati e smarriti: due braccia possenti, sovrastate da un mantello nero, la bloccarono. La lotta tra amore e libertà aveva inizio. Si girò, rapida, sfoderando le sue armi: unghie affilate e curate, taglienti quanto i suoi occhi. Si agitava e dimenava, si sforzava per uscire dalla morsa potente ma allo stesso tempo sicura e protettiva di Batman. E fu lì che scattò, ragazzo. Fu lì che la fermata dell’amore non saltò, quella volta, ma anzi suonò puntuale. Questione di un lampo, un incrocio di pensieri e di universi paralleli, prima che di sguardi. Quell’attimo, R., durò in eterno: c’ero io a distanza, quasi in trance, al centro del 766, e loro, in una posa talmente innaturale da sembrare artistica. Tutt’attorno, acquarelli sbiaditi di singole umanità, dettagli che si scioglievano ai margini di quell’abbraccio così forzato da apparire voluto. Lo vidi. Vidi tutto l’amore che mai lui aveva provato e che mai più, da allora, provò. Alla fermata successiva, la lasciò andare. Lei si scosse, si riebbe spegnendo in un lampo il crepitio felino che li aveva uniti. Scese, lasciando in lui tutto di lei: la prima vera sconfitta dell’uomo Batman, la giustizia che si piegava all’amore… peccati di gioventù, insomma.»

«E la rivide?» chiedo come se fossi stato anche io con lui su questo stesso 766, in quel giorno indefinito.

«Oh sì – fa lui, scendendo e dandomi le spalle – ma non fu mai come quella volta.»

Quindi, bloccandosi insieme alla corsa del bus, dopo un profondo sospiro, inaspettatamente mi fa: «La prossima è la tua fermata, R. Tocca a te, ora».

[Continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Senza eroi, siamo tutti gente ordinaria, e non sappiamo quanto lontano possiamo andare.
– Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.

 

Il primo dei tre… ricordo che aveva dei capelli a ciuffi verdi, una faccia pallida da far paura e un rossetto che gli copriva le labbra al punto che il rosso andava ben al di fuori degli estremi della bocca, quasi a disegnargli un ghigno perenne sulla faccia: sembrava un fottutissimo clown, anzi, un joker, come quelli che trovi sulle carte da poker.

Con un salto e con l’aria da gradasso, togliendole le cuffie, fece alla ragazza: «Oh deliziosa delizia e incanto, cosa c’hai sorellina per ascoltare quei tremoli suoni sonori? Scommetto che hai solo un povero piccolo patetico smartophono da pic nic! Vieni dallo zio a sentirlo per bene! Ho gli arcangeli con le trombe e i diavoli coi tromboni, sei invitata e sta’ attenta. Sta’ bene attenta alla risposta, oh fanciulla, se della vita la continuazione a cuor ti sta. Dolcezza, stasera hai portato il sorriso sul mio volto!»

Un matto, avrà pensato lei; non riuscì a spostarsi di un millimetro che subito si trovò accanto il secondo.

Quello, una sorta di hipster basso e cicciottello, dallo stile un po’ vintage, aveva con un cilindro viola in testa.
Nella mano destra stringeva una sottile sigaretta, nella sinistra un lungo ombrello nero. Tutto avvolto in un frac con la coda di una misura più largo, sporgendo il tondo viso dal naso aquilino verso il regolare ovale di lei, si rivolse al Joker con tono secco e tagliente: «Smettila, idiota! Non vogliamo certo spaventare questo bocconcino. Oh no… noi non vogliamo spaventarla, noi vogliamo di più!»

E, subito dopo aver accompagnato il tutto con una risata gelida, con repentino gesto morse l’orecchio della poverina, facendole strozzare in gola un “Basta!” bloccato sul nascere dalla mano ossuta e macchiata del terzo.
«Zitta!» fece quest’ultimo, un ragazzo alto con un ciuffo bianco e il viso che, per metà rovinato dalla vitiligine, presentava delle chiazze opache e bianche solo da un lato del volto.

«Non provare a urlare, non rendere tutto più difficile. Lasciamo che a decidere sia la cieca fortuna… Ti va, bocconcino? D’altronde – cacciando dalla tasca del jeans una moneta con due teste – il caso e gli umori governano il mondo no? Ahahah.
Testa scendi con noi alla prossima fermata, croce la tua vita è salva e torni a casa da mammina e tutto questo sarà stato solo un terribile incubo, e noi tre soltanto dei bislacchi cavalieri oscuri che hanno un po’ giocato con te, che ne dici eh? Ahahah.».

Insomma, era troppo. Capii che dovevo fare qualcosa. Non feci in tempo ad alzarmi per immolarmi in difesa della ragazza che una mano, possente e decisa, mi bloccò la spalla facendomi ricadere sul sedile.

«Sta’ buono, Alfred. Ci penso io.»

Da dove era entrato? Non ne ho idea! Da dove arrivava? Nessuno può saperlo. So solo quello che vidi, ragazzo, e fu stupefacente.
In un attimo arrivò in fondo del 766 e nel giro di due minuti BOFF!, BAM!, WHACK!, CRASH! e li mise al tappeto.
Alla fine, mentre i tre gaglioffi tentavano goffamente la fuga, afferrò per il collo il Joker che, biascicando dal sorriso grondante sangue, optò per la strada del lamento: «Ti prego, io… io sono buono, sarò buono, voglio essere buono! Voglio essere, per il resto della mia vita, solamente un atto di bontà. Non uccidermi!»

E lui, alzandolo con un braccio: «No, no. Non ti ucciderò. Ma voglio che tu mi faccia un favore: devi parlare di me a tutti i tuoi amici».

«Ma chi sei?!» gli domandò il giovinastro.

«Io sono Batman.»

In un lampo lo scaraventò fuori dal 766 e, con un salto repentino, scese subito dopo, a Grotta Perfetta, ma non prima di avermi lanciato uno sguardo complice.

 

 

«Wow – rispondo, come ripresomi da una lunghissima trance – storia… intensa. Ma – indicando Batman – intende lui, signor Alfred? Io credo che lei ogni tanto confonda l’immaginazione con i ricordi, e la realtà con… ma dove è andato?»
Faccio per cercare Batman che nel frattempo, al solito, è scomparso.
Tempo di distrarmi per girarmi di nuovo verso Alfred che non trovo più neanche lui. Al suo post,o dei guanti verde bottiglia e una mascherina nera con un bigliettino sopra:

“Si possono chiudere gli occhi sulla realtà, ma non sui ricordi. Ah, questi sono i tuoi e… posso chiamarti R., ragazzo?”

[continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Senza eroi, siamo tutti gente ordinaria, e non sappiamo quanto lontano possiamo andare.

– Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.

 

…i tuoi calzini… questi sono i tuoi calzini. Ragazzo. Proprio non ci arrivi? Ragazzo! I tuoi calzini… ricordi? Ricordi? Ricordi? Ricordi? Rosso…

Il risveglio improvviso sul 766 è più traumatico di un pugno alla bocca dello stomaco che spezza il respiro. L’aria, in un attimo, torna a girare nei polmoni e arrivando alla trachea viene espulsa insieme a un breve rantolo di tosse.

Cazzo di incubo, penso ancora scosso da quell’inquietante assopimento. Intorno a me il solito popolo del 766. Le solite facce stanche e stravolte, le solite espressioni disilluse e assonnate.
La classica piatta attesa di una fermata.

Chi è il signor Alfredo, mi domando ancora inquieto, e perché dice di conoscermi? Dannazione, mi ha intrippato il cervello con tutte quelle storie, con tutto quel suo fare tra il misterioso e il filosofico: da un grande potere derivano grandi… ah no, quello era Spiderman, penso imitando a mente la sua voce.

Quella storia di Batman, poi, non ha fatto altro che farmi rimuginare per 5 giorni interi… che cosa dovrei ricordare? A cosa dovrei arrivare? Mah.
Fichi i calzini però, concludo sbarazzandomi dei pensieri che sbattono tutti contro un mentale vicolo cieco.
Nell’ammirare i calzini regalatimi (o restituiti?) da Alfredo, messi per la prima volta oggi, con lo sguardo vado all’articolo del giornale che raccolgo dal pavimento del 766:

«Bioterrorismo – Testa di Demone colpisce ancora: il terrorista o il gruppo di terroristi per il quale la stampa ha coniato questo originale soprannome per via del simbolo lasciato ad ogni furto di materiale chimico (una testa di demone o comunque un simbolo satanico accompagnato da scritte arabe) ha trafugato ingenti quantità di gas nervino e altri agenti radioattivi e biologici potenzialmente pericolosi per la collettività da un camion che principalmente trasportava iridio. Ancora sconosciute le cause di questo atto, compiuto, si teme, per la creazione di armi batteriologiche atte a…»

«Lascia stare quella roba, ragazzo. Non è ancora il momento. Dài qua…» il gesto, più repentino del consiglio ma al contempo paterno, è il preludio di un «Salve ragazzo, buonasera» che mi suona ormai familiare e, quasi, lo ammetto, rassicurante.

«Oh, signor Alfredo, buonasera a lei. Come va? Non è il momento per cosa?».

«Lascia stare, ragazzo, il momento arriverà e sarai di nuovo in grado di entrare nel paradiso dei ricordi».
Matto, penso. Completamente andato, mi ripeto lasciandomi sfuggire un sorriso accondiscendente.

«Intanto voglio raccontarti una storia. Anzi no, voglio raccontarti un attimo, un attimo ben fissato nei miei ricordi, un attimo che riguarda lui…» neanche il tempo di finire la frase e eccolo di nuovo: Batman.

Questa volta è completamente ritto sulla schiena e, sul petto, la toppa gialla con il simbolo nero del pipistrello si allarga ad ogni suo lento respiro. Il disegno è, ora, quasi del tutto visibile, se non fosse per il mento che si appoggia sull’estremità alta dell’ellisse. Il mantello è più lungo e meno grigio del solito: direi nero o, meglio, nero opaco, e la maschera, seppur ancora spezzata e con una crepa di lato, sembra dargli, questa volta, un briciolo di dignità in più. «Non può essere – lascio sfuggire ad alta voce – sembrerebbe davvero…», «Non sembrerebbe, ragazzo… è. Ascolta» mi interrompe il signor Alfredo.

Anche il signor Alfredo è diverso: sì, certo, ha sempre gli occhiali da sole e un cappello rotto in stile British, ma ha meno rughe e la voce è più sicura e profonda, priva della tosse e della fatica che l’accompagnavano durante gli incontri precedenti. Inizia, insomma, ad assomigliare ad un perfetto e distinto omino inglese.
Un omino inglese che ha iniziato un discorso del quale ho perso l’inizio:
«…d’inverno, quindi capirai, ragazzo, che il 766 era completamente vuoto, in più ricordo che pioveva quella sera. Oltre a me, che sedevo proprio qui, c’era solo un’anziana signora dagli occhi lattiginosi, probabilmente quasi del tutto cieca, la sua badante che non la perdeva un attimo di vista e dietro, in fondo, una ragazza, una studentessa universitaria, attardatasi probabilmente in facoltà. Insomma, dopo un paio di fermate, salgono dalla porta posteriore tre ragazzi, tre personaggi piuttosto strani, probabilmente in vena di bravate e Dio solo sa se sotto l’effetto di chissà quale sostanza.

Quell’ atteggiamento spavaldo e arrogante, insieme alle loro urla, attirò la mia attenzione. I tre, appena saliti, scambiandosi sguardi meschini, puntarono subito la giovane, già impaurita: e da lì a poco sarebbe stata terrorizzata…»

[Continua…]

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

 

– Non c’è eroe senza pubblico.

– La nazione che dimentica i suoi eroi sarà essa stessa dimenticata.

 

Morde il freno, il 776. Accelera per un attimo per poi inchiodarsi di botto, repentino e macchinoso come un transatlantico a vapore che non riesce a circumnavigare la punta dell’iceberg.
Lo scossone è forte, irritante e al contempo sordo quanto le reazioni mute ed inerti dei passeggeri. Spenti come il cielo livido di una Roma invernale, fiochi come le luci sporche del 776.

Qualcuno dorme, o almeno ci prova, facendo ciondolare la testa tra uno scossone e l’altro. Qualcuno è perso nei ronzii del suo smartphone. Un bambino, approfittando della condensa umida posatasi sul finestrino del 776, traccia un segno, che diventa disegno: un pipistrello…

Batman! Penso rinvenendo dal limbo della mia fiacchezza serale. Batman prende quest’autobus, mi ripeto sorridendo tra me e me al ricordo del “matto” vestito da Cavaliere Oscuro e ripercorrendo quella sconclusionata conversazione avuta più di una settimana prima proprio qui, sul 776.

«Matto? Matto, sì… e dire che allora…». Di nuovo, quella voce, quasi come leggesse i pensieri e scrutasse l’anima, squarcia dapprima la mia coscienza per poi attirare la mia attenzione. Come l’ultima volta.

Il mormorio è accompagnato da un gesto repentino e sicuro che mal si scontra con la mano rugosa, molle e al contempo vellutato. L’uomo mi afferra il polso senza voltarsi, quasi ad impedirmi di ripetere il gesto involontario di guardare l’orologio.

«E dire che allora – riprende, saltando nuovamente tutti gli inutili convenevoli – quel matto era un eroe. Quel matto era Batman».

«Ah è lei – faccio con tono sorprendentemente distaccato– buonasera signor…?»

«Mi chiamo Alfredo e no, non risolvo i problemi». No, scherzo tra me e me, al più me li crea.
«Vedi, ragazzo – riprende senza aspettare il mio nome e aggiustandosi sul naso i soliti occhiali da sole – forse era davvero matto, lui. Lui ha sempre osato lì dove gli angeli temevano di andare».
Non faccio in tempo a spegnere lo scetticismo che è in me che, seguendo il suo cenno a guardare in avanti, lo rivedo.
Batman, o meglio, il tizio vestito da Batman, è di nuovo qui, sul 776.
In piedi, nella sua tutina sempre troppo stretta per quel fisico trasandato, ma leggermente più distinto.
Ha qualcosa di diverso, penso. Schiena più dritta? Mantello meno liso? Maschera tirata a lucido? Mah, mi rassegno, sta comunque fuori, concludo distogliendo lo sguardo.

«Sì, d’accordo, tutto molto intenso e anche un po’ teatrale, signor Alfredo, ma perché? Cioè non le chiedo chi è, perché ho paura della risposta e, soprattutto, ho paura del suo tono inquietante nel darmela, ma le chiedo perché? Perché è vestito così? Perché è qui? Perché su questo stramaledetto autobus? Perché sul 776!» urlo alla fine.

Tra una risata e un colpo di tosse, sotto lo sguardo di un passeggero che d’istinto si volta verso di noi infastidito, il signor Alfredo, scuotendo il capo e trattenendo il ghigno consumato dal tempo e dal tabacco, riprende e con solerzia mi domanda: «Proprio non ci arrivi, eh? – tossisce, invecchiando di 30 anni in un secondo – Proprio non vuoi sforzarti, eh? Il mondo è troppo piccolo perché uno come lui – indicandolo – possa sparire, per quanto in basso decida di scendere. Sai, ci vorrebbero 30 fermate per raccontartelo… cercherò di mettercene 10 o anche meno… la prossima volta».

Si alza, barcolla un minimo cercando di tenere l’equilibrio per arrivare a prenotare la fermata e immobile, sempre in piedi accanto a me, aspetta, guardando fisso in direzione di Batman, o meglio, del tizio vestito da Batman.
Intanto, il matto, lo strano, come ormai lo inizio a considerare, con un sospiro lunghissimo e faticosamente lento, si sfila un guanto bucato e con un gesto ancora più lento si allarga di un altro buco il vistoso e ingombrante cinturone giallo posto sopra un ridicolo mutandone nero opaco che è solo il culmine di un paio di fuseaux grigio sporco. Tempo di rimettersi il guanto, con la stessa fatica messa in campo per toglierselo, ed eccolo che scende a Grotta Perfetta.

«Mah – mi rivolgo al signor Alfredo, questa volta più calmo – davvero, perché? Perché qui? Perché il 776?»

«Beh – con voce che sembra provenire da una caverna – lo sanno tutti, ragazzo, Batman vive qui, a Grotta Perfetta. Ma nessuno sa in quale, ragazzo».

Pur rimanendo sbigottito, non riesco a trattenere un sorriso: «Ah – aggiungo mentre il signor Alfredo mi scavalca per scendere – io comunque sono…»
«Lo so – mi interrompe senza aspettare altro e ignorando la mia mano tesa – lo so chi sei, ragazzo. A proposito – mi fa prima di scendere alla fermata successiva – questi sono i tuoi calzini, ricordi?» e lasciandomi in mano delle calze rosse a pois verdi e con una banda gialla in punta, scende tossendo, ridacchiando e lasciandomi pieno di dubbi.

I miei calzini? Ricordi? Ragazzo? Batman? Ma che diavolo sta succedendo?

[Continua…]

 

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di
Federico Cirillo

Illustrazione di Ponz

 

– Un eroe non è più coraggioso di una persona comune, ma è coraggioso cinque minuti più a lungo.
– Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.

Non era certo la prima volta che prendevo il 766 a quell’ora, per tornare a casa dal lavoro.
Il ritmo di tutti i giorni imponeva al mondo una cadenza costante e ben descritta dal movimento sussultorio di un autobus che, ciclicamente, conduceva con distacco irreale le persone alle loro case, alle loro vite, ai loro destini. Dentro il 766 un glorioso e silenzioso lamento di animi contorti, di menti in stand-by e di sguardi fissi in attesa che le porte si spalancassero nuovamente.
Fuori, la vita: con tutti i suoi difetti, i suoi nei e i suoi effimeri momenti di breve estasi.

Al centro il 766, ai lati la realtà.

Quello spazio divideva me e i miei taciturni e temporanei compagni di viaggio da ciò che la realtà ci offriva. Roma non era mai stata così vera e tetra fuori dal 766. La luce al neon, fredda e gialla, che illuminava a tratti i volti di ognuno di noi, metteva in risalto le espressioni stanche e rassegnate di chi non ha più illusioni, di chi ha solo santi contro cui urlare e più nessun eroe.

Fuori, per strada, sulla via della vita, il blu acceso e assordante delle ambulanze; il suono metallico e abbagliante delle sirene della polizia. L’intenso, ammaliante, ipnotizzante ripetersi dell’allarme dei vigili del fuoco. Panico e indifferenza. Stand-by quotidiano nel limbo del 766: ultima passerella di uno stop and go pronto a rianimarsi.

«E dire che allora…» sento sussurrare al mio fianco.

Mi risveglio dal torpore dei miei pensieri e, come a riacciuffare un filo dissipato di sinapsi, mi concentro e mi giro con lentezza.
«E dire che allora…» torna a ripetermi, girando il suo naso su di me, con la stessa identica mia lentezza.
«Ah sì, certo – mi riprendo di scatto – allora… le venti e zero ott… vabbè le otto e dieci insomma».
Il tizio accanto a me sorride. Scuote la testa abbassando lo sguardo nascosto da un paio di occhiali da sole e, di nuovo: «No, no… e dire che allora…».

“Me pare Slevin”, penso.

«…e dire che allora  – riprende d’un fiato – tutto questo aveva un senso. Tutto questo schierarsi, questa divisione. Ai lati il male: ovunque, per le strade, nelle piazze, insomma come adesso. Al centro il 766. Anzi più precisamente: al centro, lui – indicando con la solita lentezza una sagoma davanti a noi, chiusa e sfocata nella folla indifferente e spenta – l’eroe. Saliva, arrivava, sorrideva e con la mano sulla tua spalla ti proteggeva. Salivi sul 766 con l’ansia e la paura, scendevi con il coraggio di chi crede a una speranza».

«Ma chi – domando sbigottito e scettico – quello là? – voltando lo sguardo nel punto in cui l’indice punta – quello con la panzetta che gli esce da una maglietta troppo piccola e attillata? Con la schiena fatta a punto interrogativo? Quello che a malapena si regge alla maniglia? Quello con quella maschera? Vabbè, insomma, quello vestito da Batman?». La risata del tizio accanto a me è roca e sa di fumo e catarro; si spegne in un serio colpo di tosse. «Quello. Sì, quello. Quello – indica per farmi di nuovo voltare la testa – non è vestito da Batman. Quello è Batman».

Tempo di voltarmi, sbigottito ma anche divertito, che Batman (cioè insomma, quello vestito da Batman) non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissa… ah no, eccolo, è sceso a Piramide, lo vedo dal finestrino: inciampa in una pozzanghera, sempre composto e un po’ storto, e cerca di asciugarsi lo stivale con i lembi un po’ umidicci e sfilacciati della nera mantella.

«Ma scusi…» cerco di obiettare al tipo che ha appena solennemente concluso la frase, prima di accorgermi che il tipo non c’è più. Volatilizzato, scomparso, eclissato: lui per davvero.

Se, vabbè. Quello…
Quello era solo un matto vestito da Batman…

…o no?

[continua…]