Satif, destinazione Nomentana – Capitolo 1

di
Arundo Donald


Capitolo primo. 
Personaggi


Il Pomata:

Franco Vitali detto il Pomata era accucciato alla fermata e partoriva il suo stronzo. Nel bel mezzo della via Nomentana, dopo il rito del caffè e la sigaretta, dopo la parziale lettura de Il Manifesto (che quel giorno titolava «svuotati di tutto») non era più riuscito a trattenersi.
Doveva cagare!

Dopo un’analisi scrupolosa aveva scovato il giusto palcoscenico per quella selvaggia necessità mattutina.  Spalle alla fermata, tra due cespugli di oleandro, si apriva l’angolo più impeccabile, la soluzione più esemplare. L’arena finale!

Franco Vitali detto il Pomata era accucciato tra gli oleandri e partoriva il suo stronzo; e ogni secondo temeva l’arrivo di qualcuno: sua moglie Giordana, il parroco di Sant’Agnese, il suo capo, persino il magrebino al semaforo. Essere scoperto sarebbe stata la sua fine e nel quartiere tutti avrebbero detto: «hai sentito di Vitali? Si si, pare che stesse cagando sulla Via Nomentana!» E ancora: «hai sentito cara? Pare che Vitali sia malato e che riesca a cagare solo per strada! Nooo… non mi dire!»

Aveva calcolato tutto. Il posto molto ben riparato; l’assoluta sicurezza di non imbattersi in vecchi rompicoglioni; l’angolazione ottimale anti macchine in fila.  Poi, quando il peggio era passato, quando solo pochi gesti lo separavano dal tornare al suo giornale, una nuova e struggente angoscia pugnalò la sua mente.

Aveva scordato i fazzoletti!

 Fernando e Ida:

Fernando Martoni stava rientrando in casa dopo la corsa mattutina delle sette quando…

«Ciao Ferni’, ti sei rimesso sotto eh? Da sposati sto fisico te lo sognavi… non mi dire che hai pure ricominciato a scopare?»

Quella che per il luminare, il mite clima romano aveva partorito come una mattina splendida e luminosa, era improvvisamente diventata peggiore di uno spasmo alcolico prima di una vomitata colossale.

Fino a dieci minuti prima, il famoso dott. Martoni, proprietario del rinomato studio medico Martoni in via Po 45, doppiava grassottelli sudati, scansava vecchietti ed evitava feci di cane improvvisando salti alla Edwin Moses.

«Ti ricordi Franci? Quello che viveva in Perù e che studiava le differenze somatiche degli indigeni tribali sui monti Titicaca… quello con la moto… che suonava il basso elettrico… beh sai, usciamo insieme!»

Il medico barcollò. Paonazzo per la corsa e in chiaro deficit di ossigeno, digrignò barbaramente i denti, rivolgendo al cielo lo sguardo. In bocca, il sapore aspro e amaro della bile gli risalì come la schiuma dello spumante versato troppo velocemente. Sentire quella cagna lo faceva star male. Lo devastava.

Esitò un istante. Poi contrattaccò:

«Scusami, hai detto qualcosa? Credo di avere il volume delle cuffie un po’ alto. Sono felice di vederti. Noto con piacere che non hai abbandonato la tua aria da stronza straccia cazzi».
E ancora: «all’inizio non ti avevo notata sai… tutte quelle lampade ti fanno confondere col muro in mattonato del palazzo».

La donna si sentì derubata delle gambe. Tra lei e il marciapiede in lastricato grigio di peperino si era creato il vuoto. Tutto si fece grigio e per un attimo si sentì esplodere.  Poi l’odio la calmò.

Ida de Martini respirò profondamente, riacquistò lucidità e le gambe ripresero a sorreggerla. Il viso serenamente si rilassò addolcendosi.

«Ti va di scopare?»

 Satif:

Satif prese il sentiero sterrato che da via Panama tagliava per il bosco. Da lì avrebbe raggiunto l’ingresso dei cavalli e poi a piedi fino alla Nomentana. Aveva messo da parte ben trentacinque euro e venti centesimi, senza contare i ramini. Camminando attraverso querce e cespugli di alloro ripassava il suo piano e lo trovava perfetto.

«Comprare una bella tanica e poi riempirla al benzinaio più vicino. Nasconderla in uno zaino, salire sull’autobus e poi farsi esplodere».

Il piano non era male. Cazzo se non era male.

Nando:

Nando Cei, ex autista ATAC presso la rimessa di viale Parioli, era affacciato alla sua finestra su via Nomentana e guardava un matto cagare alla fermata.

Franci:

Francesco Bottarga amava farsi chiamare Franci.

Aveva 27 anni compiuti. Iscritto all’Università La Sapienza di Roma, era riuscito a svoltare una triennale in antropologia in appena sei anni e ora si dedicava al suo master in antropologia e cooperazione sub-tropicale. Era stato addirittura capace di ottenere una borsa di studio che riusciva a malapena a pagargli l’affitto della stanza a San Lorenzo e la spesa al supermercato per camparci tutto il mese. Per l’erba, la birra, il cinema, il cinese il venerdì e tutto il resto, si era sempre dato da fare alla meglio, facendo creste agli amici sul fumo e battendo cassa ai suoi genitori.

Le giornate di Franci cominciavano tardi e finivano anche più tardi. Sveglia alle undici se c’erano cose importanti, altrimenti mai prima delle dodici e trenta. Orario sconfacente ma comunque necessario. Doccia veloce senza shampoo, inutile continuare a spremere quelli finiti; ricerca nella vasca di mozziconi di saponette per lavare schiena e ascelle; deodorante stick allungato con acqua; vestizione rapida, phon, occhiata alla mail, mezza moka di caffè, canna spenta la notte prima e la giornata cominciava liscia come l’olio.

Il pomeriggio di solito lo consumava in sala prove a martoriare il basso, le serate col gruppo a martoriarsi lui. Di norma sempre bevendo birra, rum e fumando erba. La musica rock come immancabile sottofondo d’ispirazione.

Ma ora era diverso, ora c’era Ida…

I due si erano conosciuti al mare, a Ostia, durante la festa del calamaro in umido di Ostia Antica. Lei era lì con degli amici e si annoiava; lui era con il gruppo al completo, i Red Butterfly, dopo l’apertura del concerto di fine estate che si svolgeva tutti gli anni allo stabilimento Il Tirrena accanto alla finanza. Lei si era fatta convincere ad andare a quella stupida festa «solo perché a Roma non c’è un cazzo da fare come al solito e in fondo vedere il mare mi fa sempre piacere»; lui si era fatto convincere a suonare per quattro coatti, una mandria di vecchi troppo abbronzati e per giunta accanto a uno stabilimento di guardie, solo perché «a Ostia alla fine se becca sempre qualche trucida cretina».

A un certo punto, in mezzo alla rotonda alla fine della Colombo, i loro sguardi si erano incrociati!

Lei aveva accennato un sorriso, lui si era spiaccicato un calamaro sulla guancia mancandosi la bocca!

«È ’na fregna! Grande… magari MILF. Ma è proprio ’na fregna!»

[continua – Capitolo #02]