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di
Sabrina Sciabica

 

«Mi ha tradito. Cristiano mi ha tradito» diceva in modo concitato Katia parlando con Debora, sul 60. «Dopo che ho lasciato Giuliano pe’ stare co’ lui, dopo che ho interrotto co’ Paolo per farlo felice, solo perché ieri sera ho rivisto il mio ex, Giovanni. E poi perché Giovanni aveva lasciato Maria e aveva bisogno di parlare co’ qualcuno… e così Cristiano mi ha fatto il dispetto».

«Dài, non puoi saperlo, Cì, anche di Giovanni lo dicevi e invece era rimasto a dormire da su’ sorella» cercava di calmarla l’amica. Io le ascoltavo attentamente e tenevo le cuffiette attaccate al cellulare per far credere che ascoltassi musica. Sapevo già di Giovanni, di Giuliano, ma di Cristiano non ancora! Le vedevo quasi tutte le mattine, belle, super truccate, artigli rossi e tacco 10, impiegate alle poste, brave lavoratrici, sempre puntuali, leggermente pettegole, decisamente istintive, vita sociale a mille.

«Da su’ sorella? Fino alle 3 del mattino? E col rossetto sulla camicia? E quel profumo, poi… era così stanco che me l’ha pure lasciata là sulla lavatrice e apposta stamattina ho capito tutto. Ma vedrà. Se ne pentirà. Nun ha capito che noi donne abbiamo mille poteri. Sta ancora a dormì, e quanno me chiama nun rispondo proprio. Mo’ ce penso io. Mo’ ce penso proprio io. Se lo sogna di stare ancora da me. Mo’ vedrai, vedrai. Vedraaaaaaaaai!» terminava, sottolineando la “a”.

«Ambè, se è così! Eppure, Cì, io da lui popo popo nun me l’aspettavo! Valli a capì st’omini. Ma che vogliono di più? La solita storia: anvedi che stronzi!»

E no! Porca paletta, stanno già scendendo a Regina Margherita, è venerdì, e domani non le becco, mannaggia!

Come ogni lunedì mattina aspetto il 60, triste più che mai perché Giacomo non si è fatto sentire tutto il week-end e il mio cellulare è stato silenzioso, a parte le chiamate di mamma per raccontarle che non ho fatto niente per ben due giorni di seguito. Vita sociale zero. Eccolo! Ed eccole! Salgo curiosa. Oggi è strapieno, devo schivare un po’ di ragazzini prima di avvicinarmi a loro e indossare le solite cuffiette. «E insomma, e lui?» chiede Debora mentre penso che peccato, devo aver perso un bel pezzo del discorso.

Katia è più vaporosa e contenta del solito: «Cristiano prima dice che è colpa mia che è andato male il colloquio, che doveva prendersi il vestito buono che aveva da me e io non mi sono fatta trovare apposta, e così ha perso il posto da buttafuori perché c’aveva i jeans e questi avevano specificato di vestirsi bene».

Risate fragorose. «E ieri invece?» chiede Debora.

Katia mette un ghigno malefico e ricomincia: «Ieri pomeriggio, verso le sette, me richiama e me dice: “A Ka’, ma perché te stai a comportà così? Ho capito che ho esagerato con la storia del vestito, per averti dato colpe, ma ti ho chiesto scusa mille volte! Non ho capito perché stanotte non mi hai voluto. Ma comunque, devi venire qua a prendermi! Sto ’nguaiato, amo’! Non sai che m’è successo: mi’ fratello, che mi doveva accompagnare ad Ostia pe’ l’altro colloquio al Lido del suo amico, c’ha la febbre e m’ha detto prendite er motorino mio. Arrivo là e trovo tutto chiuso! Ho chiamato e dice che c’ha provato ad avvisamme ma oggi non riesce a venire, rimandiamo a quanno non lo so, forse domani. Insomma co’ la santa pazienza me rimetto sulla Via del Mare e sento ’na puzza e un rumore… manco il tempo di rendermi conto, che sto coso se ferma e non riparte più. Viemme a prende amo’, nun so chi chiama’!”».

«Ammazza, Cì! Brutto su ’a Via der Mare! E quindi, tu ce sei annata?» chiede sconvolta Debora.

E l’amica continua: «Ma che stai a di’, Deb? Io je faccio: “Chiedilo a tu’ sorella… no scusa eh, me senti? So’ da mi sorella, ma siamo andati al lago a prendere un gelato coi regazzini, ammazza quanto mi dispiace! E prova a chiama’ l’amici tua, dài. A Cristia’, aspe’, ma nun facciamo che porti ’n po’ sfiga? Ma c’hai fatto quarcosa? Che c’è quarcuna che te vole male, ’sto periodo? Me sembra ’na sfiga continua!”.

Lui: “Amo’, sei sicura che non potete veni’?”.

E io: “Eh no, teso’, e come vengo da Bracciano a Ostia? Fai prima a chiama’ tu’ padre”.

E lui: “Vabbè, famme chiude e vediamo. Ahh no, senti, n’artra cosa. Se questo mi chiama per torna’ domani, mi lasci le chiavi della Punto di tuo fratello? Senza motorino come ce torno qui, porco cane?”.

E io: “Ennò, amo’, proprio domani è il giorno che Antonio va in tipografia a Cecchina, se la porta tutto il giorno la macchina”.

E lui, subito: “Vabbè dài, ne parliamo meglio stasera, vengo pe’ cena”.

E io: “Ah no no, stasera rimango da mamma, stiamo tutti insieme, pure coi ragazzini, ti ho detto. Dài, ci sentiamo ’sti giorni. Senti a me, fidate, chiama subito quarcuno prima che te ’nvestono sulla Via del Mare!”.

E ho chiuso».

Tra lo sbigottimento di Debora e il divertimento di Katia, Mira, Sofia sin tu mirada, sigo, la suoneria di Katia, che scuote il sedere tutte le volte che le squilla il cellulare.

«’Spetta Deb, me stanno a chiama’… ah ma è Max! Lui sì che ce tiene! M’ha chiamato ieri. Separato, niente figli. Soprattutto figlio unico, niente sorelle per rimane’ a dormì. Dai, je chiedo se c’ha n’amico…»

Ma rispondendo scendono dal mezzo, le perdo di vista e… non ho il tempo di chiedere… se ’sto Max c’ha n’amico anche per me!!!

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di
Sabrina Sciabica

 

Lei non stava bene.

Aspettava il 90 che, fortunatamente doveva passare spesso, pensava. Ma non stava bene.

Era lunedì ed il lunedì è sempre uno choc, si giustificava. Era l’inverno e poteva pur capitare di non sentirsi in forma in questa stagione dell’anno, si diceva.

Aspettava lì, imbacuccata, coi suoi occhioni grandi, castano chiaro con delle bolle di verde, incorniciati da riccioli neri alquanto spettinati.

Eppure lei non stava bene e stava anche per piovere.

Erano soltanto le 17.30 ma nel giro di pochi istanti un mantello scuro avrebbe coperto tutto quanto attorno a lei, e questo non avrebbe di certo aiutato. Vedeva da lontano un bus, che aveva rallentato lasciandosi alle spalle Porta Pia. Quindi era un buon segno. Lì gli autobus switchano qualcosa… chissà, non aveva mai capito bene come funzionasse, ma alcuni 90 alzavano dei fili e si collegavano alla corrente elettrica per non consumare benzina e inquinare di meno quella povera città straziata dallo smog.

Anche questo era, o avrebbe potuto essere, un pensiero positivo, come salvare la città dai gas nocivi, ma lei non stava bene e questo pensiero non la sfiorò.

Piuttosto pensò a quanto sarebbe stato confortevole allungare delle antenne e aggrapparsi a qualcosa di più alto che la sorreggesse e la guidasse.

Che numero era? Si avvicinava. Era lungo, camminava lentamente, ma lei vedeva tutto sfocato. Ma perché vedeva così male?

Lacrimoni salati scendevano sulle guance ma lei non li sentiva. Gocce strisciavano sul viso attraversandolo in verticale fino a finire sulla sciarpa di lana che le avvolgeva il collo.

E il lungo autobus si avvicinava.

Chiudeva e riapriva gli occhi per mettere a fuoco e adesso sì che li sentiva diversi, i suoi occhi.

Li sentiva stanchi, li sentiva gonfi, li sentiva inondati. E non riusciva a vedere cosa ci fosse scritto lassù, nel display del lungo veicolo che si avvicinava seguendo la sua corsia preferenziale.

Adesso realizzava che erano così tante e gorgogliavano così velocemente da una sorgente interiore che era impossibile per il cervello comandare alle lacrime di rimanere lì dentro.

E quindi loro erano uscite insistentemente, avevano trovato una via di fuga.

Avevano appannato tutto.

Avevano cominciato a fluire liberamente oltrepassando i comandi della razionalità che voleva, a tutti i costi, tenerle rinchiuse e nascoste.

Perché la vita non è così, perché la felicità non scorre sulla corsia preferenziale, quella libera, quella tutta per lei. Certo si capisce che potrebbe capitare di fermarsi a un rosso. Certo si può tollerare che un furgone in doppia fila occupi la corsia e rallenti tutto.

Ma camminare al buio, in un percorso che non conosci, in cui ti muovi a tentoni, in un luogo in cui nessuno è capace realmente di indicarti una via, come è possibile fare una cosa del genere?

Sbatteva sempre più velocemente le palpebre umide nella speranza che la scritta rossa si rischiarasse e potesse scoprire se quell’autobus la  avrebbe avvicinata a casa, ma niente, perché loro continuavano a fluire.

Il cervello non aveva il tempo di ordinare alle lacrime di fermarsi perché era troppo concentrato a mettere a fuoco l’immagine sopra al vetro anteriore del bus che si avvicinava ancora troppo lentamente.

La gente intanto era diventata una vera e propria folla e lei li sentiva, lamentarsi e sbraitare per l’attesa, e fare supposizioni sui numeri, come se si aspettassero, l’indomani, di vincere chissà che cifra per aver giocato al lotto quel numero!

Non si accorgevano neanche che c’era un animo stanco, proprio lì vicino, che in quel momento piangeva e lottava.

Perché non è tutto dritto come la Nomentana, alla partenza da Porta Pia?

E adesso avevano cominciato a bruciare, gli occhi. E la gente, sempre più arrabbiata e insensibile, a strattonarla per sporgersi sulla strada e riuscire a capire che autobus sarebbe passato, se avrebbero potuto ficcarcisi dentro il prima possibile, per rintanarsi il più presto possibile nei loro tristi e angusti tuguri da cui non sarebbero usciti fino all’indomani, con la luce del giorno, ma solo per ricominciare quell’inutile, esasperante, irritante tran-tran quotidiano di grigiore e sconforto.

Eppure lei sarebbe stata disposta a fare tutto il viaggio in piedi. Sarebbe stata quasi contenta di entrare, anche ammassata come le sardine nella latta o come le foglie secche raccolte nelle buste di plastica. Lei era disposta ad accettare qualche momento di tristezza e scomodità, lo aveva già fatto tante volte, pur di seguire un certo percorso.

Ma il percorso, adesso, nella sua vita, non c’era!

Ma perché, si chiedeva non c’è neanche una via. Neanche un aiuto, neanche un’indicazione, neanche una certezza che a breve diventerà tutto più semplice?

In quell’istante, smise di guardare avanti e di sforzarsi per leggere il numero corretto dell’autobus che stava per passare. Chiuse gli occhi e aprì leggermente la bocca assaporando quel sapore salato che le lacrime avevano lasciato e formulò l’ultima preghiera.

L’ultima preghiera prima di perdere del tutto la speranza. L’ultima preghiera prima di svanire per sempre nell’inutilità della corsa. L’ultima preghiera prima di uniformarsi al nichilismo fatalista. L’ultima preghiera prima di sciogliersi e diventare un tutt’uno con le sue stesse lacrime.

L’ultima preghiera … che era solo una parola.

Luce. Voglio una luce. Voglio che una luce mi indichi il percorso, pregò intensamente, senza preoccuparsi di capire a quale Dio rivolgersi.

Luce.

Poi aprì gli occhi e, contemporaneamente inspirò velocemente e chiuse la bocca.

DEPOSITO.

Ecco cosa c’era scritto.

Non ebbe la forza di concepire nessun altro pensiero, a stento di prendere atto di ciò che finalmente aveva letto.

Si voltò e, continuando a svuotarsi di quel liquido salato che si formava dentro di lei e fuoriusciva bruciandole la pelle, si incamminò a testa bassa, trascinando i piedi in direzione casa, a circa 4 km da lì.

 

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di
Sabrina Sciabica

 

«Il 2 arriva, stia tranquilla. É che dopo le 21 il servizio è ridotto…».

«Speriamo! Prima che piova di brutto» rispose la signora corrucciata che sembrava guardare una partita di ping-pong tra il suo orologio e la linea del tram.

Doveva essere una turista, dedusse il vecchietto con la bombetta di colore nero, in contrasto col bianco dei capelli, che aveva iniziato la conversazione dopo un’osservazione silenziosa. Doveva aver camminato tutto il giorno, con scarpe impolverate stile ortopedico, punta larga e tacchetto basso, continuava a dedurre l’acuto osservatore.

«Calabresi dunque, i signori, e l’udienza è stata piacevole?»

A quel punto la donna smise col ping-pong e, come battendo un servizio con la racchetta da tennis, voltò rigidamente la metà superiore del busto grassoccio e, sbalordita verso l’uomo distinto che l’aveva interrogata: «Ma lei come lo sa?»

«Signori miei, così stanchi e spazientiti, sapete quanti ne ho visti di pellegrini quando impettito resistevo ore e ore, alternando mani congiunte alla tenuta della lunga alabarda, sempre indossando l’elegante basco da Guardia Svizzera!? In più oggi è mercoledì, e voi portate un rosario ad anello. Suo marito, poi, è così stanco che fissa il vuoto».

«Complimenti» disse ridendo il signore a fianco, che fino ad allora era stato immobile con le braccia conserte dietro la schiena.

«Uhhh vuoi un passaggio baby?» fece il vecchietto indicando i binari.

«Matri Matri ma cos’è?» urlò lei.

«Signora cara – un attimo di sospensione e con voce suadente riprese – un succi i cunnuttu, una zoccola, volgarmente detto topo, altresì ratto o topo di fogna, da non confondere con quello di campagna, che ha appena attraversato i binari. Ma non prende il tram. Mi ha appena risposto che preferisce andare a piedi. Eccolo, su, saliamo!»

Un attimo dopo l’attraversamento del topo, i tre salirono a bordo.

«E dove alloggiano i signori?» aveva chiesto con allegria il vecchierello.

«Al “b&b del Ponte” a Ponte Milvio» risposero.

Flaminio recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Tre stelle, prezzo medio, non brilla per pulizia ma per il personale cortese. Scusate… deformazione professionale, ero un valutatore della Novotel

«Ma non faceva la Guardia Svizzera?» Sussurrò lei, preoccupata per le condizioni della residenza prescelta.

«Ponte Milvio è il ponte più antico di Roma, risale al 200 a. C.» continuò l’anziano. «Ho un amico che vi abita. La sua zona si chiama Villaggio Olimpico, perché fu costruito poco prima del sessanta in previsione delle Olimpiadi, come alloggi per gli atleti. Dovete sapere che ci fu un inverno particolarmente piovoso, era il 2008 e il Tevere, che passa sotto Ponte Milvio, quell’anno straripò più volte».

Ministero Marina recitava, intanto, la voce registrata del tram.

La coppia si era seduta nei sedili a due mentre l’anziano signore, mantenendo teatralmente la sua bombetta in testa, si era seduto di fianco e guardava un po’ la strada e un po’ gli altri passeggeri che ascoltavano curiosi. A ciò si aggiungeva il tic di sollevare la spalla destra abbassando contemporaneamente il collo, come volendo ammiccare a qualcuno.

«Saprete sicuramente che Roma fu costruita su sette colli ma oltre ai sette famosi, anche le periferie sono piene di sali e scendi e proprio qui vicino c’è un dislivello notevole a distanza di pochi chilometri. E questo, lo insegnavo ai miei studenti, quando ero titolare di cattedra di Storia e Filosofia, alla Sapienza».

E qui la coppia sussurrò con aria interrogativa «Ma come, era valutatore di hotel?!».

«Anche questa zona del Villaggio Olimpico, vicinissima al vostro b&b, è più bassa rispetto al livello del fiume».

Flaminia Belle Arti recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Dunque era l’inverno del 2008» continuò l’eccentrico vecchietto «e il mio amico era tornato a casa verso le 8.30 di sera, dopo aver aspettato un’ora questo tram che, per via della pioggia, era stato rallentato. Era fradicio, si era spogliato e tolto i calzini zuppi lanciandoli in aria e camminando a piedi nudi da una stanza all’altra. A un certo punto, confuso e stanchissimo, si buttò sul divano per riprendersi».

Ankara Tiziano recitava, intanto, la voce registrata del tram.

«Fu proprio dal divano che sentì quello strano rumore. Oltre al rumore, percepiva una presenza, sebbene non fosse un suono proveniente da fuori, di questo era certo. Anzi, non era affatto un suono, più un fruscìo. Poi il silenzio e poi di nuovo fruscìo, insieme a rumore di acqua che si muove. Si alzò, perché lui viveva a casa da solo e le finestre erano chiuse, ne era sicuro, non era entrata acqua in casa. Ancora a intermittenza il rumore continuava e lui lo seguì sempre più attento per capire da dove provenisse. Si era aggiunto anche un rantolo lamentoso e indescrivibile che, anch’esso, a tratti, svaniva per poi ripetersi. Il mio amico camminò quatto quatto fino al corridoio e… prima stanza nulla, seconda stanza nulla, si avviò verso l’ultima, il bagno. Poiché proveniva proprio da lì».

Apollodoro recitava, intanto, la voce registrata del tram.

Dopo due secondi di sospensione, con voce più profonda, l’oratore riprese: «Una creatura della grandezza di una mano con due occhi microscopici e una coda sottile che sembrava lunga mezzo metro. Con le zampe scure si teneva aggrappato al water, dopo aver risalito le condotte degli scarichi o le vie sotterranee del fiume, e ne usciva, mentre il mio amico entrava nel bagno. Si guardarono negli occhi per qualche istante, dopodiché la creatura, portandosi appresso acqua lurida sgocciolante dal suo pelo irto, strisciava viscidamente nel pavimento a pochi millimetri dai suoi piedi nudi».

E a quel punto l’arzillo uomo scattò in piedi facendo sobbalzare gli spettatori e, piroettando verso le porte, urlò: «Buona serata signori miei, scendete alla prossima fermata e mi raccomando… richiudete il water dopo l’utilizzo!».

Scese con aria soddisfatta mentre la signora tratteneva a stento il disgusto stringendo nervosamente il braccio del marito che, intanto, rideva a crepapelle.

 

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di
Sabrina Sciabica

 

Una ragazza, appena dopo mezzanotte, aspetta il notturno che la riporterà a casa, a pochi chilometri da lì.
Porta Pia è una bellissima piazza nell’aria notturna, un leggero velo di umidità su quelle mura antiche dà ancora più solennità alla statua del bersagliere che aspetta, da tempi immemori, infiniti autobus.
Si avvicina alla fermata un settantenne.
Capelli bianchi, bombetta nera in testa. Indossa una giacca nera dalla quale fuoriesce una camicia colorata, cravatta bianca. Tiene in mano una busta rossa, con dentro oggetti strani che si intravedono appena, una specie di vischio natalizio, altre buste colorate.
«Mi scusi – chiede distintamente alla ragazza – dovrebbe passare alle 0,50, le risulta?»

Lei risponde: «Eh sì, speriamo».

«E che ore sono, che ore sono?»

Non è la frase, ma le scarpe un po’ lacere sotto a quei calzoni neri ma un po’ corti e quella camicia un po’ troppo vivace, a trasmetterle qualcosa di strano.

Risponde: «Mezzanotte e 40».

«E come mai una signorina come lei a quest’ora ancora per strada?»

«Eh, sono appena stata ad un concerto», risponde ancora lei.

«Ah, io sono stato all’Opera questo pomeriggio!»

Ho visto lo Schiaccianoci, Ciajkovskij. Sa, fanno due turni, alle 15 e alle 21. Io sono stato a quello delle 15 e poi sono andato al bingo».

Qualche istante di concentrato silenzio e riprende ancora più seriamente: «Ma lei lo sa che la storia dello Schiaccianoci deriva da un racconto dell’orrore di Hoffman? Lo schiaccianoci di legno è un regalo di Natale per una bimba ricca e, a notte fonda, si anima e si ritrova a dover combattere contro il re dei topi, con sette teste e sette corone, e il suo esercito di roditori.

Era così cruento che Alexandre Dumas padre dovette riscriverlo da capo per il libretto dell’opera. La protagonista si chiama Clara, come la mia signora; e quindi al nostro secondo appuntamento la portai in teatro e sulla delicata danza della Fata Confetto mi avvicinai dolcemente e la baciai sulle labbra.

Mi disse, anni dopo, che era stato il momento più bello della sua vita. E io non lo dimenticherò mai».

«Bello lo Schiaccianoci!» – dice la ragazza tossendo parecchio.

«Uh – saltella lui allontanandosi immediatamente – Raffreddata? Sa, io sono tenore, non posso permettermi di ammalarmi, mi perdoni se mi sposto leggermente, non è per scortesia, è che devo stare attento per la mia professione! E lei che concerto ha visto?»

«Bossa nova, Jazz, ma anche Paolo Conte e Gino Paoli».

«Ma…. Gino Paoli la musica, non lui!», contesta l’anziano e arzillo signore.

«Certo, la sua musica, non lui» spiega la ragazza in attesa.

«Ma che ore sono, che ore sono?»

«Mezzanotte e 41 minuti».

«Mh, questo N4 è un po’ manigoldo! Eppure a quest’ora non c’è traffico».

«No, per niente, è tutto così tranquillo».

«Sa l’altra volta quanto ci ho messo dal bingo per arrivare a casa? Un’ora ci ho messo! Un’ora! Invece stasera è tutto più libero.
E domani come sarà? Come sarà il traffico? Vede, domani devo andare a visitare un paziente all’ospedale di Porta di Roma. Sa, io sono medico. Ho salvato così tante vite nel mio lavoro, mi ringraziano ancora. Mi capita di fermarmi in auto al rosso di un semaforo e sentirmi dire da un uomo che attraversa la strada “Uh! il Dottore che mi ha operato al braccio”».

«Porta di Roma? Ma è un centro commerciale!» bisbiglia lei confusa… «e poi non ha detto di essere tenore?» e riprendendosi gli dice: «No, no, domani è domenica, tranquillo, non troverà traffico».

E finalmente ecco il bus, in cui saliranno una ragazza divertita dalla fantasia di un distino settantenne e un tenore-medico- giocatore di bingo pieno di vita e di immaginazione.

Fantasiosi discorsi che non stanno né in cielo né in terra, proprio a metà strada, ai surreali incroci di questa meravigliosa umanità notturna.

Chissà come sarà lei, a settant’anni, adesso pensa.

Chissà quante vite avrà vissuto e quante ancora ne vorrà vivere.

Chissà se, come il vecchio con la bombetta nera, ne avrà vissuta una soltanto, una che non è bastata per tutto quello che voleva fare, una che le stava stretta e la obbligava a compiti indesiderati ma necessari.

E allora alla fine del percorso potrà scegliere di vivere con la fantasia le vite più belle, anche se immaginate.

E sarà ballerina classica al Bolshoi, sarà soprano al Teatro dell’Opera di Roma, sarà chirurgo al Campus Biomedico, sarà scrittrice famosa in Francia, sarà reporter di grido in America…o sarà stata semplicemente amata, vedova e mamma di 4 figli. Forse sarà nonna di altrettanti nipoti che, invece di farle prendere un autobus notturno, andranno a prenderla per portarla a casa, dopo una serata passata al bingo, con altri amici un po’ estrosi e un po’ fuori di testa come lei… e come il vecchietto con la bombetta nera.